2. La raccomandata
Il primo giorno è stato un casino. Sono atterrata a Londra alle sette della sera precedente alla mia convocazione sul set. Io e Carol dovevamo andare a cena insieme, ma lei ha avuto un contrattempo al lavoro e non ci siamo potute vedere. La mattina dopo, sveglia all'alba e partenza. Non sono nemmeno riuscita a fare colazione. Mi sono presentata sul set – una residenza davvero pittoresca nella campagna inglese poco a nord di Londra, credo – dopo tre infernali quarti d'ora in taxi, in cui mi sono dovuta trattenere per non strillare a ogni curva, che nella mia testa destrorsa era presa contromano. Sono scesa dal taxi e le mie scarpe da ginnastica immacolate sono affondate in almeno cinque centimetri di fango. La mia politica di non imprecazione è stata messa a dura prova, soprattutto quando ho sentito l'umidiccio del fango arrivarmi alle calze, ma ho benedetto la mia lungimiranza nel lasciare lo zaino alla stazione degli autobus prima che finisse nel fango anche quello.
Ho arrancato fino alla guardiola del custode, un tizio con il viso incrostato di brufoli e un anellino d'argento al sopracciglio. Stava sfogliando una rivista sui camion e non ha nemmeno alzato lo sguardo quando mi sono avvicinata. Ho picchiato sul vetro per avere la sua attenzione e quando gli ho chiesto dove potevo trovare la troupe, mi ha indicato un punto indistinto alle sue spalle tra la fila di alberi malinconici e alcune costruzioni modeste di mattoni rossi, che, immagino, in passato ospitassero la servitù.
"C'è anche il regista?" ho chiesto. Quando si arriva su un nuovo set è sempre meglio presentarsi ai poteri forti, e il regista è decisamente in cima all'elenco.
Il custode mi ha guardato come se stessi interrompendo una messa. Si è girato e ha indicato un punto verso il fondo. Ho strabuzzato gli occhi. Vicino alla casa più lontana c'erano due tizi, un uomo e una donna, che discutevano. Lei sembrava ripetere gli stessi gesti in loop e lui continuava a scuotere la testa.
"L'uomo o la donna?"
"Tom Stratford le sembra il nome di una donna?" ha mugugnato, con evidente fastidio.
Ho fatto cenno di no, ma lui era già tornato con gli occhi alla sua rivista. Comunque, meglio essere sicuri. Ho ringraziato il custode e sono scattata a presentarmi al regista. E lui che fa? Questo tizio, alto almeno due teste più di me, mi guarda dall'alto in basso, guarda la mia mano tesa, poi la tizia al suo fianco, che scuote la testa; torna con lo sguardo alla mia mano e infine prosegue verso l'edificio principale, con la tizia alle calcagna che prima di scomparire, mi rivolge uno sguardo di compassione. Sono rimasta con la mano tesa per due minuti buoni prima di realizzare che mi aveva magistralmente snobbato prima di sparire oltre la porta. Mi sono dovuta trattenere dal mostrargli il dito medio. Credo che il significato di quello sia perfettamente chiaro anche nel Regno Unito. Maleducato!
Dopo l'inizio non proprio idilliaco, ho cercato qualcuno che avesse un minimo di autorità organizzativa sul set per avere direttive e ho scovato un signore con i capelli grigi e l'aria da cacciatore, seguito da un nugolo di persone. Era in piedi all'imbocco dello spiazzo antistante la villa, e sembrava nel bel mezzo di un sermone. Il nugolo di persone era composto per lo più da ragazzi, all'incirca della mia età o poco più giovani. Ho diviso la folla come Mosè e mi sono presentata, mento alto e mano tesa, sperando in un esito migliore del precedente. Lui mi ha squadrato dall'alto in basso con espressione accigliata e per un secondo ho sentito il vuoto nello stomaco al pensiero di ripetere la stessa scena appena girata con il regista. Poi la sua faccia si è sciolta in un sorriso.
"Ecco come si fanno succedere le cose. Questa ragazza sa come far andare avanti il lavoro," ha detto ai presenti. "Chi sei?"
Ho ricominciato a respirare. Il suo inglese suonava come Beethoven alle mie orecchie. Liquido, armonioso e soprattutto comprensibile. Avrei voluto saltargli al collo per la gioia. Invece gli ho dovuto ripetere la presentazione. Evidentemente la prima volta non mi ha ascoltato. O forse il mio inglese è arrugginito e oramai inintelligibile.
"Mi chiamo Alice. Sono la nuova scenografa."
"Ciao Alice, benvenuta." Mi ha stretto la mano in maniera decisa, come piace a me. "Io sono John. Sono il direttore di produzione. Quando sei arrivata?"
"Ora."
"Splendido. Stiamo visitando le location delle prime scene. Tu hai già un'idea a riguardo?"
"Non so quali siano le prime scene," gli dico quasi intimorita.
Strabuzza gli occhi. "Non hai il copione?"
"Err... no," dico. La mancanza non è mia, eppure mi sento in colpa. Mi guardo le scarpe oramai ricoperte di fango, poi sollevo gli occhi.
John segue il mio sguardo. L'angolo della sua bocca sembra curvarsi in un accenno di sorriso che ritorna subito normale. "Ti servirà un bel paio di stivali di gomma. E il copione delle prime scene. Quindi non c'eri alla table reading?"
Piego la testa, ripensando a un file che Carol mi ha girato con alcune riprese sfuocate di gente che legge intorno a un tavolo, di cui ho capito molto poco, nonostante l'abbia riguardato almeno una ventina di volte. Ricordo tratti indistinti e una velocità di parola imbarazzante. È che ogni volta mi incagliavo sulla pronuncia e non riuscivo ad andare avanti. Avrei pagato per avere dei sottotitoli. Quando ho chiamato Carol per piagnucolare sul mio inglese terribile e sul fatto che non ce l'avrei mai fatta, mi ha fatto una ramanzina da manuale, prima di inculcarmi a forza nel cervello il pensiero di essere perfettamente all'altezza per il lavoro. "E non osare pensare il contrario!" Così mi ha salutato. Non mi sono arrischiata a richiamarla, mentre riascoltavo l'audio per l'ennesima volta. Anzi, per la paura ho capito anche tre parole di seguito. Una era shit. Dubito facesse parte del copione.
"Veramente no. Sono il rimpiazzo di quelli che vi hanno dato buca," spiego.
"Ok, ok." John sbuffa, scuotendo la testa come un cavallo, fraintendendo la mia confusione imbarazzata. "Allora, qualcuno procuri un copione ad Alice. In fretta!"
Poi si gira verso il gruppo, fa scorrere lo sguardo sui visi e individua un ragazzo con i capelli neri sparati per aria e la pelle che tende al bluastro. Non deve avere più di vent'anni. John gli punta addosso l'indice. "Tu. Il copione. Poi recuperaci nel giro e fatti spiegare da..." Butta un altro sguardo sul gruppo e si ferma su una biondina che sta prendendo appunti come se fosse all'università. "Lei. Lei ti aggiornerà su quello che ti sei perso."
E senza controllare che i suoi ordini vengano eseguiti, procede oltre. "Alice, vieni con noi. Stiamo facendo il giro degli spazi esterni, poi ci sposteremo all'interno. Ti verrà utile sapere dove ci possiamo muovere. Quando avrai il copione, capirai meglio."
Il gruppo di ragazzi ci segue come uno stormo di anatroccoli, attenti a restare qualche passo indietro ma non abbastanza da non riuscire a origliare ogni singolo dettaglio.
"Mi piace come ti muovi," gli dico, cercando di tenere il suo passo di marcia e rischiando di finire più di una volta con il sedere per terra, grazie alle mie scarpe ormai impantanate. "Di solito i direttori di produzione si perdono in un sacco di chiacchiere e gli assistenti devono fare i salti mortali per interpretare le loro indicazioni astruse. O almeno in Italia è così," aggiungo per non sembrare troppo polemica, già dal primo giorno.
Lui scoppia a ridere. Ha una risata sguaiata e piena, eppure genuina. Fa venire da ridere solo a sentirla e starebbe bene come sottofondo in quei programmi anni Ottanta con le voci preregistrate.
"Sei italiana? Oh, che bellezza, io adoro l'Italia."
Sorrido e annuisco senza commentare. John si muove con agilità nel terreno fangoso. Procede con sicurezza, non sta nemmeno a guardare se il gruppo lo segue. La sua autorità è però innegabile, perché nessuno resta indietro e nessuno si distrae.
"Questi sono gli addetti ai lavori?" chiedo, dando una fugace occhiata al gruppo eterogeneo che comprende un tizio con la cresta rossa (come ho fatto a non vederlo prima?) vicino a una sosia di Kate Middleton; una metallara con chiodo e borchie fin nei capelli e uno che sembra uscito dal set di Happy Days.
"Sono i nostri stagisti. Vengono da una scuola di cinema di Londra, o forse da due, non mi ricordo. Ci affiancheranno durante le riprese per vedere come funzionano le cose nel mondo reale. Oggi facciamo un giro tutti insieme, poi verranno smistati nelle diverse squadre per cercare di imparare il più possibile. Se te ne serve qualcuno, non hai che da chiedere." Mi fa un sorriso da fata madrina, prima di alzare gli occhi verso il cielo grigio topo. "Facciamo in fretta prima che si rimetta a piovere."
Ci dirigiamo verso una zona del giardino da cui si riesce ad avere una visione d'intero della facciata della casa. Camminiamo in fila indiana, attenti a evitare i cespugli che delimitano il perimetro del verde e quelle che dovrebbero essere aiuole, che ora sembrano solo pozzanghere marroni. Mi aspetto che spunti un gruppo di maiali da un momento all'altro. I colori che ci circondano sono un misto deprimente di grigio e marrone. Peccato, perché la casa è splendida. La struttura è rettangolare con una balaustrata che la sormonta e, sulla facciata principale, finestre a perdita d'occhio. La porta d'ingresso dà su una scalinata doppia che scende ad angolo verso il folto prato all'inglese che con il sole deve essere un'oasi di perfezione.
Il ragazzo con i capelli sparati ci raggiunge e mi consegna un pacchetto di fogli stropicciati. Quando lo ringrazio, la sua pelle da bluastra diventa color aragosta. Biascica un prego sottovoce, prima di raggiungere la ragazza degli appunti, ma prima che possa chiederle aggiornamenti, John inizia a parlare. Piego il copione e me lo caccio in tasca.
"Le riprese da qui permetteranno di inquadrare la facciata intera. I due protagonisti si posizioneranno in questo punto, uno di fronte all'altra." Fa qualche passo indietro rispetto al gruppo e allunga le braccia racchiudendo la scena in un rettangolo immaginario. Un paio di ragazzi replicano la sua posizione voltandosi verso l'edificio, mentre la ragazza degli appunti scrive furiosamente. L'aria è carica di umidità e il mio naso, stanco di inspirare aria fredda, inizia a gocciolare. Pesco nella tasca del cappotto un fazzoletto di carta che s'infradicia in pochi minuti. Tra poco il mio naso sarà arrossato e inizierà a irritarsi. Mi guardo in giro. Nessun'altro pare soffrire i miei stessi sintomi. La maggior parte dei ragazzi indossa giacchette leggere e ne ho visto un paio sfidare il freddo in maniche corte. Certo, le loro spalle sono praticamente abbottonate l'una all'altra, ma non cedono di un centimetro. John invece ha un bel giubbotto imbottito senza maniche, ma è uno degli unici con una copertura che mi sembra adeguata.
"Faremo qualche prova, e appena abbiamo un paio di giorni di sole giriamo il più possibile. Ora ci conviene entrare," dice, dopo aver fatto un altro giro largo attorno al punto dove si metteranno gli attori, forse per valutare ogni angolazione.
Puntiamo verso una porta di legno sul lato ovest della casa, ma, appena prima che io entri, John mi sbarra la strada.
"Patricia mi scuoia se entri in casa in quelle condizioni. I proprietari sono fissati con la pulizia, e anche Tom ci tiene parecchio. Meno sporchiamo, meno dobbiamo pulire."
Non so chi sia Patricia, ma non posso che essere d'accordo. Mi guardo le scarpe, come se mi aspettassi di trovarle meno inzaccherate di quanto siano.
"Devo aspettare fuori?" chiedo, con la sconfitta nella voce, mentre gli anatroccoli sfilano uno a uno verso l'interno.
John incrocia le braccia muovendo il busto avanti e indietro, come se fosse su una sedia a dondolo. A un certo punto scioglie le braccia e batte le mani una volta proprio all'altezza della mia faccia.
"Ho trovato!" Blocca l'ingresso a uno degli ultimi anatroccoli, una ragazza con i capelli rossi e il brillantino al naso.
"Rose, per favore, fai un salto da Betty e spiegale la situazione. Vedi se ha qualcosa per Alice." Gesticola verso le mie scarpe, come se ci fosse bisogno di un chiarimento. Rose non sembra entusiasta, anzi mi rivolge un'occhiata storta, ma parte senza protestare. In cielo le nuvole grigie si muovono svelte. Spero che faccia in fretta, perché temo che John abbia ragione e tra poco venga giù il mondo.
"Quando inizieranno le riprese?" chiedo, mentre aspettiamo davanti alla porta aperta con gli anatroccoli che ci fissano dall'interno senza capire cosa ci trattenga.
"Gli attori arriveranno tra un paio di settimane. Valuteremo come procedere in base al tempo," spiega sovrappensiero. Lo vedo che si guarda in giro, come se stesse facendo un inventario mentale di quanto ancora deve fare. Poi, dopo qualche istante di bisbigli con se stesso, riporta la sua attenzione su di me. "Allora che esperienza hai? Mi sembri giovane per essere già una scenografa." Si sporge leggermente in avanti, con le mani allacciate dietro la schiena, come se non volesse lasciarsi sfuggire nemmeno una delle mie parole.
"Ho iniziato durante l'università come lavoretto per arrotondare. Facevo la tutto fare per cooperative che lavoravano sui set, " dico pensando agli inizi, sballottata a destra e sinistra in mezzo a gente che cambiava idea ogni mezz'ora e non smetteva un secondo di urlare. "Era divertente, e la paga non era male per una studentessa squattrinata. Dopo la laurea ho aperto la mia piccola ditta individuale, e ho continuato a fare quello che già sapevo. Solo che avevo esperienza, conoscevo gli addetti ai lavori, ed essendo sola, costavo poco. Ho lavorato per diverse fiction in Italia. Curo anche i servizi fotografici di un paio di riviste. Quelli sono più stressanti perché puoi stare in ballo anche venti ore al giorno, soprattutto se non ci sono le modelle da gestire e il fotografo si sente in vena di sperimentare." Concludo la biografia con una massiva alzata di occhi al cielo.
John mi guarda con ammirazione. "Roba grossa?"
Alzo le spalle. "Normale, credo. Sai che gli addetti ai lavori vedono solo il retro del glamour."
"Già," dice, scuotendo la testa. "E come hai fatto ad arrivare fin qui?"
"Sono una raccomandata!" dico, ridendo.
"Prego?" Sgrana gli occhi, come se non avesse capito bene.
"Sono qui perché conosco qualche pezzo grosso, credo." Scandisco bene le parole, perché non fraintenda.
"Allora dovremmo detestarti tutti a prescindere?" chiede lui, con un guizzo negli occhi.
"Forse," rispondo, ripensando a tutti gli incapaci raccomandati con cui ho avuto la sfortuna di lavorare in questi anni.
"Raccomandata da chi, per l'esattezza?" Il suo sguardo si fa penetrante, come se la mia risposta potesse influenzare la sua opinione di me.
"Carol, la nipote del proprietario della casa di produzione è mia amica e voleva sdebitarsi perché le ho presentato il suo attuale compagno, nonché mio cugino. Inoltre, sa che sono ossessionata da Jane Austen e avrei adorato ogni minuto di questa esperienza."
"Carol Trennant, nipote di William Trennant della Trennant&CO. Production?"
"Esatto."
Lui scoppia di nuovo a ridere. "Questa è buona! Conosci William?"
"Mai visto in vita mia!" confesso. "Ma Carol è stata in Italia nove mesi durante il mio terzo anno di università e siamo diventate buone amiche, oltre che quasi parenti, se quel pirla di mio cugino Emilio si decidesse a sposarla, visto che lei non aspetta altro!"
Ride alla mia battuta, mentre io allungo il collo per vedere se arriva Rose. John sembra rigirarsi le mie parole nella testa. Ha un'espressione pensosa che lo porta a scandire le parole con lentezza, come se volesse dare a ciascuna il giusto peso. "Fidati di quello che ti dico. La raccomandazione della tua amica non avrebbe smosso un capello se William non avesse visto come lavori e non ne fosse rimasto colpito. Quell'uomo non mescola favori personali con il suo lavoro, a meno che questi favori personali non siano piazzati presso qualcuno di valido. Parlo per esperienza."
Mi volto verso di lui. La sua espressione è seria. Lo guardo per un attimo temendo che possa mettersi a ridere e gridare allo scherzo. Invece sostiene il mio sguardo senza vacillare.
"Oh, beh meglio così allora," dico con finta noncuranza. In realtà mi sento super lusingata. Non sapevo che lo zio di Carol fosse un pezzo grosso con una certa reputazione. E se mi ha preso perché crede che lavori bene, tanto meglio. Ora devo solo fare del mio meglio per non deluderlo. Semplice, no?
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