L'amara follia
«L'importante è sentirlo» diceva sempre mio padre, il problema sorge quando non senti più niente, e a me era successo proprio questo.
Da un giorno all'altro avevo perso le forze, la voglia di vivere e mi ero arresa alla totale disperazione.
«Non ne uscirò più» ammisi tra le lacrime le sole che mi tenevano ancora in vitami.
Ma da quel giorno anche quelle sparirono e con esse anche l'unico sentimento che provavo in quel periodo: il dolore, quello in grado di graffiarti l'anima lasciando ferite profonde, quello che ti tormenta l'anima giorno e notte senza sosta, senza alcuna pietà, quello in grado di prendersi tutte le emozioni che hai dentro lasciandoti un vuoto, che colora gli occhi di tristezza.
Tutto quello che non volevo succedesse, era accaduto, trascinandomi poco alla volta nel fondo con tutto il peso.
E da quel momento avevo capito che non potevo combattere contro qualcosa che era più forte di me, e quindi ho preferito lasciarmi annegare fino ad arrivare al fondo e non avevo intenzione di rialzarmi.
La mattina mi svegliavo con la luce del sole, osservavo dalla finestra lo stesso paesaggio di sempre, stessi alberi, stesso cielo, nulla di nuovo. Non provavo più niente, neanche il dolore, vivevo perché il mio cuore continuava a battere, mentre io volevo che si fermasse per esprimere il mio unico desiderio: non esistere più, in qualsiasi forma possibile anche con la morte, l'importante era non esserci più.
La rabbia che mi portava ad odiare la vita a disprezzare tutto ciò che mi circondava, aveva smesso di divorarmi nel petto, lasciavo che tutto mi scivolasse addosso, come un getto d'acqua.
«Devi essere forte» diceva mio padre, ma io avevo già perso le forze, ero stanca di essere forte, di lottare contro la mia stessa vita, le persone e la realtà che mi girava intorno.
Ero stanca di versare lacrime, di gridare di dolore, di comportarmi come se tutto andasse bene, di affrontare gli sguardi truci delle persone e soprattutto di sorridere.
«Non sembri più la stessa» dissero guardandomi negli occhi, ma non sapevano che ormai la vecchia me era solo un ricordo lontano, erano finiti i giorni in cui sorridevo perché ero felice, ci aveva pensato la vita stessa a togliermi quel sorriso, quella felicità.
Le mie giornate si limitavano a me che guardavo il paesaggio fuori dalla finestra ascoltando musica ad alto voluto, per non avere contatti con il mondo esterno.
Non volevo fare nient'altro, solo osservare il vuoto, aspettando una svolta che sapevo non sarebbe mai arrivata.
«Possiamo fare qualcosa per te?» mi chiedevano, sentire quella fatidica domanda mi provocava un triste sorriso.
Nessuno poteva aiutarmi neanche se avessero voluto, il mio dolore era provocato da qualcosa di irreparabile, qualcosa nel profondo si era spezzato in me, la perdita del mio muro portante aveva lasciato delle macerie che io stessa non riuscivo a ricostruire.
Quando ho visto i suoi occhi chiudersi per sempre, sono crollata in un precipizio da cui non ho visto più il fondo, la vita era diventata così pesante da sopportare e la rabbia aveva preso il sopravvento. Quello che c'è stato dopo è stata una dolorosa e lenta distruzione.
Mi ero ripromessa di non caderci di nuovo, non dopo la sua morte, non potevo rompere la promessa che avevo fatto, ma il passato ha di nuovo bussato alla porta mostrandomi la soluzione a tutta quella sofferenza e io l'ho aperta di nuovo senza esitazione e mi ci sono fiondata dentro quell'oblio, per poi lasciarmi trascinare mettendo in gioco la mia stessa vita, per poi ritrovarmi qui tra queste quattro mura, in una stanza spoglia dipinta di bianco, quel colore mi ricordava la purezza, al contrario della mia anima che ormai era macchiata da quegli sbagli che avevano causato la mia distruzione e allo stesso mi trasmetteva un senso di vuoto e smarrimento. Era vero: avevo perso me stessa.
La mia mente ormai era controllata dalle pasticche, il mio viso era segnato da quella polvere di vita, quella che si era presa ogni grammo del mio corpo per regalarmi quell'attimo di puro piacere e mi piaceva l'effetto che mi provocava, riusciva a tele trasportarmi in un mondo perfetto, dove io avevo il controllo sulla vita e decidevo che cosa farne, sentivo dentro il mio cuore un'esplosione di emozioni che mi facevano sentire viva, e io ne avevo bisogno, avevo bisogno di sentirmi viva.
Durante il pomeriggio dovevo sopportare quella piaga di mia sorella, che pretendeva che io la guardassi negli occhi, perché come diceva lei, in loro riusciva a vedere ancora speranza, peccato che quella fosse soltanto un'illusione, ma lei ci credeva davvero che di me restasse ancora qualcosa o forse non era semplicemente capace di accettare di aver perso anche me, oltre che a nostro padre.
Io sapevo soltanto di non esserci più nel mondo, la sola cosa che riportava la mia mente alla realtà era il caffè e lei lo sapeva bene ecco perché me ne portava sempre una tazza.
Diceva che bevendolo riusciva a sentirmi vicina e protetta da nostro padre, invece per me rappresentava una condanna, quella promessa mancata.
Me lo ricordavo bene quel giorno, era inverno e fuori stava piovendo, avevo appena portato una tazza di caffè a mio padre, che non riusciva più a muoversi, era seduto sulla quella sedia rotelle e mi guardava con sguardo severo.
Da un paio di settimane aveva perso anche l'appetito, ma al caffè non aveva mai rinunciato, diceva che era la sua carica per affrontare la giornata, mentre lui per me era quella carica necessaria per affrontare la vita.
Dopo averlo bevuto, continuò a fissarmi intensamente e disse con voce roca: «Tra un paio di mesi, forse giorni, non ci sarò più. Lo so che tu speri che sia il contrario, che cerchi di opporti, ma purtroppo sarà così. La sola che ti chiedo è di andare avanti nonostante tutto, non ritornare negli errori del passato, non bruciare altri anni di vita».
Sapevo benissimo a che cosa si riferisse con la frase "non bruciare altri anni di vita" e quel giorno lo guardai con gli occhi lucidi e gli promisi che non avrei più permesso che succedesse di nuovo e prima di tutto lo promisi a me stessa.
Il sapore amaro del caffè mi ricordava quella che sarebbe stata la delusione di mio padre se fosse ancora vivo, me lo immaginavo con lo sguardo deluso, forse rassegnato all'idea di aver fallito con me.
Ma l'unica fallita ero io, ero rientrata in quell'inferno da cui ero uscita solo grazie al suo aiuto e questa crudele verità continuava ad uccidermi ogni volta che entravo con quella maledetta bevanda.
Mio padre diceva che il potere di quella bevanda stava nel significato che attribuivi ad essa, io non avevo mai capito che cosa intendesse, ma adesso l'avevo fatto anch'io e potevo confermare che aveva ragione.
Lui però immaginava che il caffè rappresentasse la vita in tutta la sua amarezza rinchiusa in una tazza, e con questa convinzione lo beveva ogni giorno, sentendosi più forte nell'affrontare la giornata, poiché ormai come diceva lui il grosso era ormai superato e quindi tutto il resto sarebbe stato più leggero da affrontare.
Oltre a questo, davanti al caffè avevamo condiviso dei momenti intimi, esperienze delle giornate, decisioni importanti e in quel momento mio padre vedeva il caffè come la vita in tutta la sua piacevolezza e spensieratezza.
E questo è quello che faceva mia sorella, mi raccontava esperienze che aveva vissuto in quelle ultime giornate, delle sue perplessità dinanzi al nuovo appartamento che aveva affittato, continuava a dirmi che dovevo riprendermi perché c'erano ancora tanti anni da vivere, anni che io avevo bruciato, che la vita aveva riservato tante sorprese e sarebbe stato un peccato perderle e che ne ero già uscita una volta vincente, quindi avrei dovuto farcela anche questa volta.
Talvolta la guardavo con occhi pieni di tristezza perché avrei dovuto prendermi cura di lei e non viceversa, in qualche modo avevo rovinato la sua vita, perché l'avevo costretta ad assistere all'inferno e lei nonostante ciò però lei non mi faceva pesare nulla.
Invece qualche volta la guardavo con occhi pieni di rabbia, perché mi ricordava tutto ciò che avrei voluto essere, ma che non sono stata capace di essere.
Lei invece era riuscita a superare la morte di nostro padre, senza dover ricorrere ad alcuna polvere di vita, poiché lei a differenza mia era forte e aveva sempre rappresentato l'orgoglio di mio padre, aveva sempre avuto il suo stesso vizio: quello di bere il caffè, io invece l'avevo sempre odiato.
Non riuscivo a sopportare quel gusto amaro che si faceva strada tra le papille gustative, era davvero insopportabile.
Quel giorno di fronte a lei avevo uno di quei sguardi di rabbia, forse è questo che mi aiutò a prendere l'iniziativa di terminare quello che avevo iniziato da tempo, quindi mi alzai e sotto lo sguardo spaventato di mia sorella presi il coltello che nascondevo nella tasca e la presi tra i capelli trascinandola verso il muro mentre lei cercava di dimenarsi urlando a squarciagola, avevo pochissimo tempo e quindi non persi tempo, le tappai la bocca con la mano sbattendole la testa contro il muro, poi iniziai ad accoltellarla sfoderando tutto la mia rabbia ed ad ogni gemito di dolore, il mio cuore sprizzava di gioia, volevo che anche lei provasse il dolore che io avevo sopportato per anni, il sangue le usciva dal petto come un fiume d'acqua senza sosta, i suoi occhi erano fissi spalancati e guardavano un punto fisso senza battere ciglio, a quel punto avevo capito che ci ero riuscita finalmente l'avevo salvato da questo inferno. Con la mano destra le chiusi gli occhi e sussurrai nel suo orecchio: «Sogni d'oro piccolina».
Infine soddisfatta della mia opera, lasciai cadere il coltello e mi sedetti sulla sedia, accavallando le gambe e con le mani piene di sangue ripresi la mia tazza di caffè assaporando la mia vittoria, peccato che ad assistere a questa scena non ero solo io.
Mi girai verso l'infermiera che guardava mia sorella impietrita e le rivolsi un sorriso chiedendole: «Vuole anche lei una tazza di caffè? Oggi è particolarmente buono».
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