Profezia nefasta
Il vetro era freddo contro la mia fronte, mentre osservavo la strada e gli alberi scorrere ai lati dell'asfalto. La luce dei lampioni fendeva la notte a intermittenza.
Vorrei gettarmi dal finestrino ma sono sicura che non sia una buona idea. E se la profezia si avverasse? Se quella donna mi avesse fatto il malocchio?
«Non dirmi che ci stai ancora pensando» mi rimproverò Ginger, sussurrando, avvicinandosi a me per quanto la cintura di sicurezza glielo concedesse.
«Sono solo un po' stanca. Colpa del ciclo» bisbigliai cercando di convincerla.
«Dai, era solo una zingara matta che voleva spaventarti».
Non so quante volte mi abbia ripetuto questa frase, da quando le ho raccontato che mentre aspettavo lei e gli altri per andare al falò di Halloween, aveva suonato alla porta una stramba gitana. Mi aveva detto poche parole: una sentenza. Sarei morta quella notte, proprio sulla sponda del Thirlmere Lake.
Avrei preferito restare a casa, sotto le coperte, ma Ginger non aveva voluto saperne delle mie stupide fantasticherie e mi aveva trascinata, praticamente sfidata, a non farmela sotto.
Non potevo trovare alla porta i soliti bambini che vanno a fare dolcetto o scherzetto? In fin dei conti la signora Grim mandava i suoi figli in giro per le case ore prima che il cielo scurisse.
«Di cosa state confabulando lì dietro?» chiese Zack, incuriosito.
«Cose da ragazze» mi limitai a liquidare.
Ginger gli sorrise. «Avrebbe dovuto bersi un buon caffè prima di partire».
«Il caffè mi avrebbe soltanto reso più agitata» commentai.
Per Ginger il caffè era come una panacea. Un piccione ti lascia un brutto ricordino? Bevi un caffè. Prendi un brutto voto al test di matematica? C'è un caffè anche per questo.
La mia tensione cresceva più ci avvicinavamo al lago. Cominciavo a immaginarmi Isaac che perdeva il controllo della macchina e finivamo tutti e quattro nell'acqua, annegando.
Fortunatamente tutto andò bene. Isaac parcheggiò accanto ad altre vetture in uno spiazzo tra gli alberi. Forse Ginger aveva ragione. Forse quella donna era solo una psicopatica, ma non riuscivo a togliermi dalla testa il suo sguardo allarmato e la sua voce profetica che decretava la mia fine.
In ogni caso mi sarei tenuta lontano dai guai, giusto per precauzione.
Non aveva voluto dirmi come sarei morta, per cui rimasi in disparte mentre tutti ballavano intorno al fuoco o si raccontavano storie di paura. Non bevvi e non mangiai nulla per paura di poter soffocare e me ne restai seduta su un tronco caduto ad osservare le costellazioni riflettersi sullo specchio d'acqua scura.
Isaac si sedette vicino a me. «Non ti va di ballare?».
«Preferisco restare qui» gli risposi criptica.
«Ti salvo io allora» mi sorrise, mettendomi sulle spalle una coperta a quadri rossi e blu.
«Da che cosa esattamente?» gli domandai.
«Dal morire di solitudine».
Alla parola morire, un brivido mi scese lungo la schiena. Il cuore mi martellava nel petto. Stavo impazzendo.
«Va tutto be...».
Un sibilo interruppe la sua domanda. Girò la testa di scatto ed io feci altrettanto per incontrare gli occhi neri di un serpente. Il rettile era aggrovigliato attorno al tronco. Mosse la lingua biforcuta facendola scattare verso di me, aprendo le fauci zannute.
«Alzati molto lentamente» mi suggerì Isaac. «Forse è velenoso».
Stavo meglio senza saperlo.
Ci provai, imitando i suoi movimenti, ma delle urla provenienti dal falò poco lontano mi fecero raddrizzare di scatto.
Il serpente tuttavia rimase fermo a fissarmi, come incantato.
Osservai l'orologio che avevo al polso. Erano le 23.48.
Ricordai che la gitana aveva detto a mezzanotte. Sarei morta a mezzanotte.
Isaac mi trascinò via, verso il falò e la festa. Qualcuno aveva deciso di cominciare una battaglia di gavettoni con ciò che restava delle bibite. «Che fortuna che sia rimasto fermo, ma sarà meglio rimanere lontani dal bosco».
Socchiusi le palpebre e vidi la coperta a quadri rossi e blu galleggiare sull'acqua. Mi sentii improvvisamente annegare, come se avessi difficoltà a respirare.
Lo sguardo mi cadde sul lago e giurai di aver visto qualcosa muoversi, increspando la superficie in piccole onde.
«Devo andare via di qui» dissi ad Isaac, a disagio.
«Ti senti male?».
Non sapevo cosa dirgli.
Da buon amico lui lo capì lo stesso. «Va bene, andiamo».
Raggiungemmo in fretta la macchina e prima di sbattere lo sportello del passeggero osservai ancora l'orologio. Mezzanotte.
Isaac avviò il motore.
Fu allora che lo vidi. Il tronco di un grosso albero che franava sopra di noi, spezzando il freddo vetro del finestrino in una pioggia di schegge appuntite.
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