5 - Papà, sono tornata


Attraversare quel maledetto cancello per Cecilia era come una maledizione ogni mattina, ma finite le lezioni, all'ora di pranzo, somigliava tanto a una benedizione. L'unica cosa che la separava dalla pace interiore, e esteriore, era il viaggio in autobus fino a casa. 

Doveva condividere quella corsa con Emma perché abitavano nello stesso quartiere. Non che ci fossero poi molti quartieri in quella piccola cittadina, e nemmeno tanti autobus. Tuttavia c'erano almeno un paio di corse che il mezzo faceva durante il lasso di tempo che riguardava la fine delle lezioni, perché tanto studenti si servivano di esso. 

Cecilia correva sempre per le scale e affrettava il passo nel cortile, cercando di non farsi notare troppo, e sperava sempre di prendere l'autobus che partiva pochi minuti dopo il suono della campanella. Questo perché, se lei era veloce, avrebbe potuto seminare Emma che invece si soffermava sempre a chiacchierare dopo le lezioni.

Con il fiato corto e i capelli arruffati, mostrò il suo abbonamento all'autista e si spostò verso uno dei primi posti liberi, pregando che il motore si avviasse presto. Per essere il primo giorno di scuola, era già stato abbastanza pesante e tutto ciò che Cecilia desiderava in quel momento era buttarsi sul suo letto e non pensare a nulla.

Le porte si chiusero e la ragazza fece un profondo sospiro, guardandosi intorno per accertarsi di essere al sicuro: nessuna testa bionda in vista.

Proprio mentre formulava questo pensiero, qualcuno prese posto esattamente di fronte a lei, su uno dei sedili che erano rivolti nella direzione opposta rispetto al senso di marcia. Istintivamente posò lo sguardo su di lui e il respiro le si incastrò in gola.

Era sicuramente un ragazzo della sua scuola, aveva un aspetto stranamente familiare ed era estremamente bello. Non che Cecilia fosse un'esperta di bellezza, ma ogni tratto del viso di quel ragazzo le ricordava la perfezione: i capelli scuri con qualche riccio leggero, la pelle chiara, gli zigomi alti, la linea della mascella pulita, senza un velo di barba, le labbra carnose. 

Il ragazzo sollevò leggermente la testa dallo schermo del cellulare sul quale aveva concentrato la sua attenzione e posò le sue iridi verdi su Cecilia, pietrificandola.

Il cuore prese a battere così forte che la ragazza dovette fare uno sforzo per evitare al suo corpo di tremare, i polmoni smisero di funzionare, i muscoli di rispondere. Non le piaceva attirare l'attenzione di nessuno, ma ancora meno dei bei ragazzi. Si sentiva inferiore.

Bruno era abituato a percepire su di sé gli occhi delle persone, in particolare delle ragazze e, ogni volta che aveva risposto a quegli sguardi, non era rimasto sorpreso di ciò che ci aveva letto. Qualche volta era stata indivia, qualche volta attrazione, qualche volta curiosità, oppure desiderio. Spesso anche sospetto, se a guardarlo era qualche ragazzo irritato dalle attenzioni che Bruno era in grado di calamitare su sé stesso, semplicemente stando fermo.

Ma ciò che trovò negli occhi di quella ragazzo, lo lasciò interdetto: non era in grado di comprendere una tale paura. 

Eppure ciò che c'era in quelle pupille scure, era proprio questo. Ma la cosa che lo sorprese maggiormente, fu che era in grado di riconoscere quella sensazione, era la paura di essere giudicato.

Mantenendo gli occhi su di lei, allargò le labbra in un sorriso, ma questa sua mossa, che voleva semplicemente metterla a suo agio, ebbe l'effetto contrario.

Cecilia si irrigidì maggiormente, non riuscendo a rispondere con naturalezza a quel sorriso che sembrava tanto inusuale su un viso che stava guardando proprio lei. La ragazza si affrettò a distogliere la sua attenzione da Bruno e si concentrò invece sulle sue mani che stringeva freneticamente in grembo. Il bordo della manica della sua felpa si era spostato con tutta quell'agitazione e un pezzo del polso macchiato di Cecilia era diventato visibile.

Bruno seguì il movimento degli occhi di Cecilia ed entrambi si ritrovano a fissare quel lembo di pelle che solitamente non era esposto alla luce del sole. Nonostante fossero solo pochi centimetri, a Cecilia sembrò di essere nuda, perciò si affrettò a riportare la stoffa al suo posto.

Era strano, ma Bruno l'aveva osservata per tutto quel tempo, e solo guardando quel polso scoperto, aveva davvero notato le macchie sulle pelle della ragazza, aveva riconosciuto la studentessa di quella mattina. E non era stato per colpa del suo daltonismo e nemmeno per una sua disattenzione. Semplicemente non era stata quella pelle particolare ad attirare la sua curiosità, ma gli occhi della ragazza, o quello che ci aveva letto dentro.

E l'aveva compreso.

Quando il mezzo smise di muoversi, Cecilia scese dall'autobus senza guardarsi intorno maggiormente e si affrettò a percorrere i pochi metri che la separano dalla porte di casa, azzardando a guardare dietro sé per accertarsi che il ragazzo di fronte a lei non fosse nei paraggi.

Fortunatamente lo vide dirigersi verso la palestra poco distante e, quando lui sparì dentro l'edificio, si sentì libera di tornare a respirare.

Il suo sguardo su di lei, durante quel breve tragitto in autobus, l'aveva scombussolata più di qualsiasi altro avvenimento della giornata. Non era stato solamente per la sua bellezza, ma soprattutto perché non era stata in grado di riconoscere sul suo viso le solite espressioni che le venivano rivolte. Non era preparata a ciò che aveva visto nei suoi occhi e non era nemmeno stata in grado di identificarlo.

Cosa poteva mai pensare un ragazzo del genere di una come lei? Voleva davvero approfondire?

Certo che non voleva farlo. Qualsiasi forma di sofferenza era da tenere lontana. Spinse il pulsante dell'ascensore e attese il suo arrivo. Quando salì su di essa, il grande specchio di fronte a lei la accolse come un pugno nello stomaco. Non le piaceva quello che vi era riflesso, non le piaceva quella pelle così strana, non le piacevano quei ricci così ribelli, non le piaceva quello sguardo così triste.

Spinse il bottone del suo piano e mentre l'ascensore saliva, chiuse gli occhi e incominciò a respirare profondamente. Doveva cancellare dal suo corpo qualsiasi segno lasciato da quella giornata, doveva ritrovare il buonumore, doveva mascherare la stanchezza.

Giunse davanti alla porta di casa, afferrò la maniglia e, prima ancora di aprire, percepì dei rumori provenire dall'interno. Immaginò suo padre intento a prepararle il pranzo, una padella sui fornelli e un mestolo tra le mani, gli occhi fissi su una ricetta che non somigliava mai a quello che si trovava nel piatto.

Non era stato facile per suo padre affrontare la morte della moglie, si era disperato, era caduto nello sconforto, aveva pianto e, per un certo periodo, si era anche arreso. Aveva spedito la figlia dai nonni materni e si era preso del tempo per rimettere insieme i pezzi del suo cuore.

Poi un giorno era tornato, quando Cecilia era in prima media, e l'aveva ripresa con sé. Il cuore di Sergio mostrava ancora i segni della colla, ma almeno era riuscito a conviverci e aveva smesso di piangere. Ripensare alla moglie era ancora molto difficile, ma almeno aveva ancora sua figlia. 

Tuttavia c'era qualcosa che non andava, Cecilia non era più la bambina allegra di una volta, spensierata e solare. Non dipendeva solamente dalla mancanza della madre, lui lo percepiva, c'era qualcosa di più, qualcosa che lei non diceva.

Fu solo quando ricevette la chiamata da scuola che si rese finalmente conto di quello che stava succedendo. Cecilia veniva derisa continuamente dalle sue compagne di classe. Era la sua pelle il problema. Quella caratteristica che la faceva somigliare tanto alla sua defunta madre, quel ricordo indelebile che aveva sopra di sé, le causava altra sofferenza. Ma la bambina non si era lasciata beffeggiare, aveva reagito, aveva tirato i capelli a quelle compagne che la volevano ricoprire di tempera rosa, per farla somigliare a loro.

Le avevano detto che era sbagliata e loro l'avrebbero resa normale, le avevano spalmato sul naso e sulle guance la vernice. Allora Cecilia le aveva afferate per i capelli, una alla volta, e le aveva allontanate da sé. E poi si erano picchiate. Quando la professoressa era intervenuta, avevano già lividi e graffi su tutto il corpo, ognuna di loro.

Il padre di Cecilia era stato chiamato per andare a prendere la figlia ed era stato messo al corrente della situazione: era rimasto sconvolto. La sua bambina, la sua piccola bambina indifesa, veniva derisa per qualcosa di cui non aveva alcuna colpa. Qualcosa che lui addirittura adorava. Qualcosa che ai suoi occhi la rendeva unica.

Eppure non era quello che pensava Cecilia. E nemmeno gli altri.

Dopo quell'episodio, Sergio era tornato a casa, nel buio della sua camera matrimoniale aveva aperto la scatola che racchiudeva le fotografie della moglie e aveva pianto, stringendola forte al petto. Aveva forse fallito come padre, oltre che come marito?

Ciò che non sapeva però, era che dallo spiraglio della porta, in silenzio, Cecilia lo stava osservando versare calde lacrime di amarezza.

Nonostante i graffi sulla pelle, nonostante l'umiliazione nel cuore, nonostante l'autostima a terra, ciò che le procurò più dolore, quel giorno, fu la sofferenza di suo padre. E la paura di un nuovo abbandono.

Perciò, da quella volta, decise che non avrebbe più causato problemi al padre, non gli avrebbe più creato preoccupazioni e non gli avrebbe più dato motivo di credere che la sua pelle fosse un problema.

Perciò, da quella volta, indipendentemente da qualsiasi cose fosse successa a scuola o in giro, Cecilia a casa si mostrava ancora quella bambina allegra e solare di un tempo.

Perciò, con il tempo, Sergio aveva finito per credere a questa illusione e aveva smesso di preoccuparsi, aveva smesso di disperarsi, aveva smesso di piangere, perché questa era l'unica maniera che conosceva per andare avanti.

Perciò, anche dopo quel primo giorno del secondo anno di liceo, Cecilia aprì la porta di casa sua ed entrò con il sorriso sulle labbra, esclamato allegramente: "Papà, sono a tornata" 

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