Practa Quincia (parte 1)

Non seppe quando iniziò a sognare di preciso. Ma l'unica cosa certa era che, ovviamente, era un incubo.

Non era più nel bagno del dormitorio delle schiave ma era comunque schiacciata a terra da un corpo che pesava il doppio del proprio. Non c'erano altre persone al di fuori di lei, completamente inerme, e dell'uomo che la teneva bloccata, schiacciandole la testa con una mano forte sul pavimento.

L'uomo aveva un odore familiare, una risata familiare eppure era certa di non averlo mai visto o sentito prima di quel momento, mentre la schiacciava a terra nel suo sogno.

Sofia si divincolò. Urlò per potersi liberare dal peso opprimente dell'uomo che, mentre la teneva ferma, rideva sguaiatamente.

Aveva le braccia libere ma prona com'era, non sarebbe mai riuscito a colpirlo con efficacia.

Urlò sbattendo i piedi, le gambe, cercando inutilmente di colpirlo persino con i talloni, muovendo il corpo intero nella speranza di farlo sbalzare via da lei.

Aprì la bocca nel tentativo di prendere aria, annaspando sotto al peso dell'uomo che non le permetteva di dilatare il petto quanto avrebbe potuto e voluto. Ansimò agitandosi ancora, puntando le mani sul pavimento per cercare di alzarsi, ignorando la risata aspra e divertita dell'uomo.

- CHI SEI? – urlò con tutta l'aria che riuscì a racimolare, rantolando nella speranza di poterne guadagnare un altro po'. – CODARDO! – gridò ancora. – Fatti vedere, maledetto! Fatti vedere!

Fu a quel punto che l'uomo smise di ridere e, sotto di lui, Sofia si irrigidì come se fosse appena stata congelata.

- Mi vuoi vedere, ragazzina? – sibilò, il fiato caldo sul suo orecchio senza che Sofia riuscisse ancora a vederlo. – Mi vuoi vedere?! – tuonò, rivoltandola in uno scatto sul pavimento, facendole battere la nuca a terra mentre le stringeva le mani forti al collo.

Sofia annaspò, sbarrando gli occhi davanti al volto duro e ricoperto di cicatrici. Assomigliava a Pono così terribilmente che, per un solo secondo, pensò anche fosse lui ma quel volto, la forza che aveva, che emanava, valicavano quell'imitazione di uomo che era lo spartano. Gli occhi di quello che tentava di ucciderla in quel momento erano crudeli, iniettati di sangue e le cicatrici, alcune ancora rossastre, come se se le fosse appena procurate, erano così evidentemente profonde che avrebbero dovuto uccidere quell'uomo sul colpo.

A meno che quell'uomo non fosse stato un dio, ovviamente.

I capelli scuri erano rasati e, sulle spalle, indossava un mantello rosso sangue, tenuto da una fibbia con una lancia incisa sopra ed unita all'armatura.

- Mi vuoi vedere, ragazzina? – domandò ancora lui in un sorriso macabro mentre rafforzava la presa sulla sua pelle. Sofia tentò inutilmente di graffiargli le braccia, muovendo spasmodicamente le gambe per potersi alzare. – Eccomi – disse poi, sbattendo le palpebre una sola volta.

A Sofia bastò un solo istante per rendersi conto che mai, mai più si sarebbe potuta dimenticare di quello che vide dentro quelle pozze di dolore. Vide guerra e morte. Bambini uccisi, intere famiglie sterminate, donne, uomini, ragazzini violentati. Vide catapulte distruggere mura e città, soldati squarciati e poi vide lunghi bastoni d'argento imbracciati da uomini che non aveva mai visto prima, vestiti come non aveva mai visto prima, gettare a terra mille persone in un colpo solo, abbattendoli a distanza con spaventosa facilità.

Il cuore le batté con forza nelle orecchie, un attimo prima che quelle palpebre potessero richiudersi, mostrandole soltanto un paio di occhi carichi di sangue.

Il dio sorrise. – Sto solo giocando con te, ragazzina. Quanto a lungo pensi ancora di poter rimanere nascosta?

Sofia gli conficcò le unghie nei palmi ma lui parve non sentire alcun dolore mentre le stringeva le dita attorno alla gola. Annaspò, colpendolo con quanta più forza poteva mentre il petto le esplodeva ed il cuore martellava con forza per il terrore. Vide l'uomo ridere mentre la soffocava lentamente. Sbatté le palpebre mentre la vista si appannava, un attimo prima che un bolide candido e velocissimo si potesse abbattere con sorprendente forza sul capo del dio. Gli conficcò gli artigli nelle tempie, facendolo gridare per il dolore e mollare la prese.

Sofia cadde all'indietro ma non sbatté mai la testa al terreno mentre si rialzava in un sussulto. Sbatté le palpebre mentre ansimava, raccogliendo le ginocchia al petto per potersi alzare, un attimo prima che il familiare profumo di brezza marina potesse arrivarle alle narici.

Corrugò la fronte, portandosi una mano sul petto nel tentativo di regolarizzare il respiro ed il battito del cuore impazziti per la paura. Conosceva quella stanza con le tende corallo e ci mise un solo altro secondo per capire dove fosse e cosa fosse successo la sera prima. Si era addormentata a cavallo di Creekos e Perseo non solo non l'aveva svegliata, ma l'aveva anche portata dentro la sua casa per farla dormire.

E lei non si era accorta di nulla.

Doveva essere stremata e lui non le aveva dato ascolto.

Trattenne un sorriso quando lo sentì lottare per poterle stendere le labbra.

La brezza d'acqua salata le accarezzò il volto ancora una volta, scacciando via le mani di Ares che le stringevano il collo.

Dopo quel sogno, era ormai ovvio che la conclusione alla quale fosse arrivata la notte prima mentre volavano da Micene, fosse quella corretta. Ma cosa voleva il dio Ares da lei?

Per quanto ancora pensi di poter rimanere nascosta?

Scosse la testa, alzandosi velocemente dal letto. Che la sua sete di sangue e guerra fosse forte al punto tale da prendersela con lei, che tentava soltanto di sopravvivere?

Quando uscì dalla stanza a piedi nudi, scostando le tende di corallo, la luce tiepida della mattina colpiva l'acqua dell'enorme fontana al centro della stanza, che gorgogliava placidamente, ed in quel momento si concesse il tempo che non si era data due giorni prima, per poter osservare la casa del figlio di Poseidone. Era grande, forse persino troppo per una sola persona, col porticato in legno che si affacciava sul mare ed altri due vani dall'altra parte dell'andrion nel quale si trovava che però, protetti da tende chiare, non riusciva a vedere.

L'unico rumore che riusciva a sentire era quello dell'acqua della fontana quindi, o Percy era ancora addormentato oppure era uscito per un motivo a lei sconosciuto. Camminò a piedi scalzi sul pavimento piacevolmente freddo, lanciando un sguardo verso il sole che iniziava ad alzarsi all'esterno.

Andò verso la stanza con le tende candide che si muovevano dolcemente con la brezza, scostandole solo per potersi ritrovare davanti ad una piscina incastonata in pietra dorata con l'acqua che, da una piccola cascata sul muro, vi gorgogliava dolcemente all'interno mentre la luce esterna riluceva sulla superficie. Vi camminò contro, accucciandovisi accanto ed immergendovi una mano. Sorrise quando se la portò alle labbra.

Acqua salata.

Nella stanza accanto, separata da delle tende blu, riuscì perfettamente a vedere la figura sdraiata di quello che doveva essere Percy e ci camminò silenziosamente, scostando le tende.

Sorrise.

Con il capo rivolto verso di lei e gli occhi chiusi, era rilassato, privo di pensieri o preoccupazioni e privo dello sguardo che aveva capito essere naturalmente cupo.

Era solo Percy.

Niente figlio di Poseidone, niente capo del Campo e, quando gli osservò le labbra rosee, si portò una mano alla bocca, trattenendo una risata prima di camminare verso il porticato di legno esterno.

Il mare davanti a lei riluceva splendido sotto la luce del sole, assumendo una sfumatura verde identica a quelli degli occhi di Perseo. Chiuse i propri per un solo istante prima di riaprirli, sollevando poi il capo verso la luce mentre respirava il profumo del mare.

Era un peccato non riuscire a sentire il suono placido delle onde ma pensò che, per essere nell'entroterra e per essere anche una schiava, quello fosse abbastanza.

Sentì i raggi del sole accarezzarle la pelle ed il vento che sapeva di casa riempirle il cuore mentre si concedeva di sorridere.

Ares le stava dando il tormento, voleva ucciderla persino in sogno ma finché avrebbe avuto il mare, avrebbe sempre avuto anche speranza. Chiuse gli occhi respirando l'intenso profumo di casa. Poi corrugò poi la fronte.

Era così forte da sembrare quasi che il mare ce lo avesse accanto e quando aprì gli occhi, vide Percy accanto a lei. Con l'espressione di chi vorrebbe fare tutto meno che rimanere sveglio ed i capelli comicamente disordinati, Sofia si portò una mano alle labbra, riportando l'attenzione verso il mare per evitare di scoppiare a ridere.

- Grazie– borbottò lui, – davvero gentile.

Lei sbarrò gli occhi, facendo l'errore di voltarsi nuovamente verso il ragazzo, mordendosi il labbro inferiore per trattenere l'ilarità. – Cosa ho fatto adesso?! – esclamò divertita.

Percy roteò gli occhi verdi al cielo, sorridendo. – Guarda che si vede che vorresti ridere.

Sofia nascose un sorriso dietro la mano, riprendendo a guardare il mare. – Ma zitto, Testa d'Alghe.

Percy la scimmiottò, muovendo comicamente le spalle prima di passarsi le mani sui capelli nell'inutile tentativo di darsi una sistemata. – Partiremo per Roma prima di pranzo – le annunciò poi, facendosi improvvisamente serio.

Sofia annuì, osservandolo per un istante con la coda dell'occhio. Era obbligata ad andare a Roma ma, in fin dei conti, poteva anche andarle peggio. Stava per andare a Roma. Roma. Era da tutta la vita che sognava di vederla, lei ed i suoi templi e le colonne maestosi.

- Con Creekos ci metteremo soltanto un paio d'ore.

Sofia corrugò la fronte. – Ci saranno altre schiave? – domandò, tornando a guardare Percy al suo fianco che annuì, portandosi una mano sulla nuca.

- Un omaggio ad i vertici del potere di Roma, per continuare a sancire l'alleanza ancora più profondamente – disse il ragazzo a denti stretti.

Sofia riuscì a malapena a trattenere un conato di vomito, conficcando le unghie tra le venature della balaustra in legno sotto di lei. – Allora voglio viaggiare con loro – decise, tornando a guardare il mare facendo fatica però, a godersi il sole e la brezza.

Percy non rispose subito. – Non sei obbligata – poi lo sentì sorridere. – Ma immagino questo tu già lo sapessi. Andiamo a mangiare qualcosa prima di partire?

Sofia annuì, lasciandosi fuggire un sorriso solo quando Percy non fu più al suo fianco. – E comunque, quando dormi sbavi.

***

Il viaggio verso Roma era stato su un carro volante dei figli di Apollo che, guidata da due soldati, riusciva a muoversi senza pegasi.

Sofia ed altre quattro schiave erano state sistemate là dentro, in uno spazio troppo stretto perché potessero starci starci senza toccarsi o concedendosi almeno di stendere le gambe.

Sofia aveva esitato quando, ancora al Campo, era stato il momento di separarsi da Percy ed affrontare le schiave dopo che una sua strategia aveva ucciso Hosios, ma aveva presto scoperto che gli spartani avessero intenzione di fare bella figura con la sua alleata, perciò le schiave erano quattro ateniesi arrivate da poco, esattamente come lei, il che riduceva il risentimento fatto di occhiate ed insulti soffocati.

Non aveva idea di quanto tempo avessero passato dentro il carro perché nessuno aveva parlato e non c'era comunque abbastanza spazio per potersi alzare e guardare la strada davanti a sé. Sapeva solo che le gambe le facevano male e si era fatta e disfatta la treccia cinque volte solo per tenersi impegnata.

Avrebbe voluto domandare di Aphia, e di Euleia che così abituata a proteggere che il solo starle lontano la privava del respiro, ma non era certa avrebbe ricevuto risposta e non sarebbe riuscita a sopportare un altro insulto.

Quando il carro atterrò su un terreno pianeggiante, lei e le altre schiave vennero malamente sbatacchiate all'interno, scontrandosi l'un l'altra mentre imprecavano. Quando finalmente il carro si arrestò, uno dei soldati imprecò in modo talmente tanto colorito che, in altre circostanze, Sofia sarebbe anche scoppiata a ridere, prima di saltare via dal loro mezzo, seguendo l'altro.

Clio, seduta sul bordo del carro, dopo aver passato l'intero viaggio a reggersi a Daphne al suo fianco col terrore di cadere, sporse la testa verso l'esterno.

Sofia buttò le gambe all'esterno, alzandosi di scatto dal carro. Fu solo a quel punto che la Città Eterna la avvolse tra le sue braccia, privandola del respiro.

Sofia era cresciuta ad Atene. Era abituata a vivere in grandi centri, a destreggiarsi in mezzo a folle infinite di mortali, semidei e creature divine. Era abituata ad essere circondata dai templi più belli del mondo e dalla cacofonia dei suoni che una grande città portava sempre con sé ma scoprì presto che non si sarebbe mai e poi mai potuta abituare alla magnificenza di Roma.

Sentì il profumo d'alloro e quello di vite ed ulivi che le ricordò casa. Sentì il profumo del vino, del pane appena sfornato, circondata dalle ruote dei carri che volavano sui pavimenti lastricati delle le vie candide della Città Eterna. Vide le ninfee che si aggiravano per le strade decorate dei loro fiori più belli, donne con i gioielli più luminosi e soldati con le armature più scintillanti.

Sollevò lo sguardo, verso il Tempio della Pace davanti al quale erano atterrati. La scalinata candida la divideva dalla struttura sacra così imponente e maestosa sotto ai raggi di Apollo, che si portò una mano alla bocca mentre osservava gli intarsi delle colonne e degli architravi.

Suo padre le aveva sempre portato tantissimi disegni da e di Roma e lei li aveva studiati abbastanza a lungo per riuscire a riconoscere in un istante il Foro di Nerva sul quale si trovava e, alla sua sinistra, dando dolorosamente le spalle al candido tempio della Pace, quello realizzato per la dea Minerva.

Erano atterrati nei Fori Imperiali, nel cuore pulsante di Roma ed era così bello, così tanto, che Sofia dimenticò il peso delle catene attorno ai polsi mentre si guardava attorno.

Alle sue spalle, qualcuno gridò qualcosa in latino che non era abbastanza concentrata per capire ma sorrise, spingendo lo sguardo davanti a sé tentando, oltre al mare di persone e creature che affollavano la piazza, di cogliere il più minuscolo dettaglio di ogni tempio ed ogni colonna, solo per scolpirlo nella sua memoria.

Piccola.

Era così che le stava facendo sentire Roma davanti a così tanta magnificenza, davanti a tutta quella grandezza. Ci provò a spingere lo sguardo verso l'alto, a cercare la punta dei templi e delle colonne che si stagliavano verso il cielo, senza riuscirci.

Socchiuse le palpebre quando i raggi del sole la colpirono dritta in volto e spostò gli occhi lontano, direttamente sul cielo che in un battito di ciglia, si oscurò di mille pegasi candidi a solcarlo nitrendo, ebbri di libertà e felicità.

Fece un paio di passi avanti, andando istintivamente verso l'esemplare porticato del Foro di Cesare, prima che, in una carezza d'onda, Percy potesse riportala alla realtà. – Benvenute a Roma – disse, spingendola a voltarsi verso di lui che, in un chitone blu e con gli occhi verdi che sembravano una porzione stessa di mare, sotto ai raggi di Apollo era bello quasi quanto il Tempio della Pace alle sue spalle. Sorrise mentre la guardava e Sofia lasciò cadere le mani sul ventre in un inaspettato clangore metallico che le fece corrugare la fronte per un secondo, ricordandosi di avere le catene ai polsi solo in quel momento, ma riprendendo a guardarsi attorno ancora una volta.

Le volte degli archi, i lastricati e le mura candide, le colonne che si alzavano verso il cielo. Roma era enorme e tutto il resto attorno a lei, minuscolo. Si accorse di star piangendo solo quando le lacrime le raggiunsero le guance e si affrettò ad asciugarsele, celando il volto ai soldati vicino a lei.

- È sempre bello tornare a casa – disse Giasone in latino, sollevando un angolo delle labbra abbastanza perché Sofia potesse interpretarlo come un sorriso.

Nessuno parve notarla. Né lei né le altre schiave che le stavano vicino, decisamente meno impressionate e con in volto un'espressione scoraggiata che le fece corrugare la fronte.

Percy scoppiò improvvisamente a ridere, spingendola a voltarsi verso di lui solo per accorgersi stesse osservando il cielo.

Sofia sollevò lo sguardo, seguendo la direzione presa dai suoi occhi. Riusciva a vedere solo un altro tra tutti i pegasi che avevano volato sopra di loro fino a quel momento ma, mano a mano che quello scendeva a velocità incredibile verso di loro, si accorse non fosse bianco ma fulvo e lo stesse cavalcando una ragazza. Ne vide i capelli neri ed il mantello viola in balia del vento mentre scendeva in picchiata verso di loro, un attimo prima di piombare difronte a Giasone che non si mosse di un solo passo ma, addirittura, l'angolo della bocca si sollevò persino di più.

La ragazza sul pegaso doveva essere più grande di lei di almeno due anni ed a differenza di tutti i greci che aveva conosciuto, non aveva la pelle abbronzata dal sole, ma naturalmente color bronzo, una sfumatura che pensò fosse bellissima sotto ai raggi di Apollo. I capelli erano legati in una treccia che portava posata sulla spalla sinistra, e gli occhi scuri, nonostante la sfumatura severa, erano palesemente felici davanti a Giasone.

- Sempre queste entrate ad affetto, Regina! Non riesci proprio a trattenerti – la canzonò Perseo e Regina a quel punto sorrise, scendendo giù dal pegaso ed abbracciando Giasone.

- Sono contento di vederti – le disse il ragazzo, stringendola tra le braccia per quei pochi secondi che Regina gli concesse, allontanandosi da lui ma senza smettere di toccarlo.

Gli occhi scintillarono mentre teneva le mani bronzee sugli avambracci scoperti di Giasone, stringendoglieli.

Sofia osservò con attenzione la naturalezza con la quale si toccavano. Anche uno stupido avrebbe capito che quella guerriera, quella semidea in armatura dorata, non si sarebbe mai fatta toccare da nessuno come si stava facendo toccare da Giasone, che lo faceva con l'intimità che avrebbe avuto... corrugò la fronte. Non erano sposati, quello non era difficile da capire. Si erano abbracciati come due fratelli ma si guardavano e si stringevano come due amanti.

- Ti sono mancato? – la canzonò Perseo. Regina esitò per quale altro istante in più su Giasone, prima di voltarsi e sorridere al figlio di Poseidone, abbracciandolo per pochi secondi prima di lasciarlo andare.

- Ovviamente no – lo prese in giro. – Siete appena arrivati, vero?Andavate verso il Circo Massimo?

Giasone annuì una sola volta. Sotto ai raggi del sole, i suoi capelli sembravano uno dei suoi raggi. – Prima volevamo mangiare qualcosa. Ti unisci a noi?

Regina mise una mano sul collo possente del suo pegaso. – Volentieri ma devo andare alla tenuta di Lucio Quinzio – poi corrugò la fronte. – Voi non ne sapete niente? È strano che il grecus non sia stato invitato.

Percy roteò gli occhi al cielo, sorridendo. – Certo che sono stato invitato. Ti aspetti un trattamento diverso per un pretore?

Lucio Quinzio. Sofia si aspettava che Percy e Giasone avessero contatti con i capostipiti della società romana ma alti quanto quelli di quel senatore, era decisamente una sorpresa.

Suo zio e suo padre le avevano parlato spesso di Lucio Quinzio, e come non avrebbero potuto? Anche se il suo ingresso nel senato romano aveva creato moti di protesta nella plebe, si era comunque distinto nella battaglia di Monte Algido, rendendosi una leggenda anche in Grecia.

- Sei un pretore vero solo se uno di noi muore, grecus. Per adesso sei solo uno ad honorem, non montarti la testa – lo canzonò Giasone mentre Percy gli batteva una mano sulla spalla.

- Stai in guardia, allora. Ci vediamo in senato fra poco? Dobbiamo prima portare le schi.. schiave – la lingua parve arrotolarglisi nella bocca mentre parlava, abbassando per pochi attimi il capo. – Al Circo Massimo. Loro restano lì.

Tutto quello scambio di battute era avvenuto in latino e Sofia strinse i pugni, voltandosi verso le sue compagne vicino a lei che, ignare, rimanevano ferme sul posto, un po' intimorite mentre si guardavano attorno.

Fu in quel momento che Regina si voltò verso di lei e gli occhi scuri si fermarono sul suo volto. Sofia rilassò i pugni, raddrizzò la schiena e sollevò il mento mentre la osservava.

Conosceva quello sguardo, era lo stesso che aveva lei ogni volta che si i suoi occhi si fermavano sul volto di chiunque.

Mi guardi come se stessi cercando il modo migliore per mandarmi al tappeto.

Dal sigillo che teneva bloccato il suo mantello viola, con la sigla S.P.Q.R sopra ad un semicerchio d'alloro, era improbabile che Regina fosse una senatrice. Era troppo giovane, ma doveva essere uno dei due pretori assieme a Giasone. Aveva una spada d'oro imperiale appesa al fianco sinistro, una daga al destro ed una lancia allacciata sulla schiena ed era evidente sapesse perfettamente come usarle. Con la linea dura delle labbra ed il mento sollevato, sembrava pronta ad accettare qualsiasi sfida.

Si chiese chi, tra loro due, avrebbe potuto vincere.

Era pronta a sostenere lo sguardo del pretore per tutto il giorno prima che, per un poderoso urlo, potessero tutti voltarsi verso sinistra. Trainata da quattro centauri perfettamente agghindati che tutto volevano meno che trovarsi lì, e circondata da almeno il doppio dei soldati, una portantina protetta da pesanti tende rosso scuro, si fermò vicino a loro.

Le braccia bronzee dei centauri tremarono per lo sforzo mentre rimanevano fermi, reggendo a mezz'aria l'impalcatura di bronzo, ed i soldati si sistemarono a ventaglio, creando un semicerchio di armi d'oro imperiale attorno a loro, tenendo lontani i civili.

Sofia si portò una mano sullo stomaco, sfiorando con le dita la lama del coltello.

Poi, dalle tende, sbucò una mano ricoperta di gioielli pacchiani ed abbastanza luminosi che quasi la accecarono. La voce languida che ne seguì, le fece correre un brivido di fastidio lungo la schiena.

- Perseo. Ben tornato – disse la voce melliflua.

La portantina si era fermata accanto al pegaso di Regina che nitrì infastidito verso uno dei centauri, troppo impegnato a reggere la portantina senza morire per poter rispondere a tono.

La linea delle labbra e degli occhi di Giasone si indurì accanto a Perseo, mentre Regina iniziava ad accarezzare il pomello della sua spada appesa al fianco.

Perseo strinse un pugno mentre prendeva, con la mano libera, quella ingioiellata della donna ancora senza volto, baciandole le nocche.

Sofia corrugò la fronte mentre i soldati dietro di lei, si scambiavano un paio di battute in greco, ridacchiando il più silenziosamente possibile.

- È un piacere rivederti, Flavia – disse, lasciandole poi andare la mano, che scomparve nuovamente dietro le tende.

- Spero di vedervi nella mia tenuta il prima possibile. Sai che a mio marito non piace aspettare.

Sofia corrugò la fronte. L'intimità con Perseo era troppa per una donna sposata e sopratutto sposata con il senatore.

Perseo abbozzò un sorriso, toccando la spalla di Giasone al suo fianco. – Dobbiamo prima andare al Circo Massimo ed in Senato. Verremo dopo con piacere.

La donna dietro la tenda rise, avvolgendo Perseo nelle sue spire. – Lo sai quanto mio marito apprezzi i doni che portate dalla Grecia. Vi aspetto adesso – ordinò con lo stesso tono fastidiosamente mellifluo. – Organizzeremo un banchetto in vostro onore –. Non diede tempo a Perseo né a nessun altro di obbiettare, comandando un istante dopo di ripartire.

I centauri, in uno sbuffo, ricominciarono la loro faticosa camminata lungo i fori imperiali mentre i soldati si disponevano in perfetta formazione attorno a loro, falciando la folla romana che si aggirava per la piazza.

- Miei dei.. – sussurrò Perseo in greco.

Giasone tenne lo sguardo fisso davanti a sé, come se la portantina non se ne fosse mai andata e Regina balzò agilmente sul suo pegaso. – Ci vediamo in Senato, allora – salutò, dando un colpo al fianchi del pegaso che, in un nitrito, prese la rincorsa prima di spiccare il volo.

Creekos nitrì, sbattendo gli zoccoli sul lastricato, avvicinandosi a Perseo mentre allungava una mano verso il suo muso. Poi, si voltò verso di lei, con gli occhi verde acqua che brillavano sotto la luce del sole e le sorrise.

Sofia si rese conto di aver stretto i pugni solo in quel momento, corrugando la fronte quando, rovesciando i palmi, si accorse di esserseli tagliati con le unghie.

- Soldati, andate verso Practa Quincia. Ci vediamo più tardi – ordinò Perseo e Sofia non smise di guardarsi i palmi neanche mentre tornava verso l'auriga.

***

Sofia sapeva che i romani amassero i llusso. Aveva studiato le piantine che le portava il padre dopo ogni viaggio per secoli, progettando anche diverse case ad Atene sulla base di quelle di Roma. E per tutto il tempo da quando era arrivata nella Città Eterna, l'unica cosa alla quale era riuscita a pensare era a tutte le modifiche che avrebbe potuto apportare ad Atene,seguendo l'esempio della bellezza esemplare di Roma. Ed arrivando a Practa Quincia, il suo pensiero rimase pressoché immutato. Quante case avrebbe potuto far costruire ad Atene sulla base di quella spettacolare domus?

Le case dei patrizi erano in campagna,lontane dalla calca e dal caos del centro città, normalmente arroccate sui sette colli perché potessero vedere la città che controllavano dall'alto e, ovviamente, Practa Quincia non si distingueva dalle altre. L'ostium, l'entrata principale, si affacciava su Roma che Sofia aveva avuto il tempo di vedere dall'alto per pochi istanti, prima che la spingessero oltre il cortile, verso l'atrium.

Nonostante le mura della casa fossero altissime, l'atrium era incredibilmente luminoso grazie ad un lucernario che lasciava passare la luce, sormontando l'impluvium.

I greci erano grandi architetti, ma Sofia aveva passato troppo tempo a studiare l'architettura di Roma per non riconoscere quella fosse una genialità fuori dal comune. In Grecia neanche avevano gli acquedotti e, nonostante lei avesse preso a lungo come modello le strutture di quelli romani, ancora non era riuscita a realizzare un progetto funzionale tanto quanto quello di Roma.

L'atrium era realizzato in candido calcestruzzo ricco di intarsi d'oro lungo le pareti e le colonne, mentre delle semplici tende rosso scuro schermavano le stanze attorno all'atrium.

Era convinta che la loro prima tappa sarebbero state le celle della domus ma, a quanto pareva, le volontà erano diverse perché uno schiavo a petto nudo, con la pelle scura che quasi brillava per tutto l'olio che vi era sopra, li guidò verso un'altra stanza che Sofia capì presto fosse il tablinium. Era arredata da bassorilievi che riportavano le immagini degli antenati della famiglia, vasi ed anfore di ogni tipo che brillavano al sole ed una finestra enorme che si apriva su un'altra collina,illuminando completamente l'ambiente.

Al centro della sala, sdraiata su un divano rosso e davanti ad un tavolo ricco di ogni bontà, c'era una donna che, avvolta da una toga rossa ed intarsiata d'oro, si faceva imboccare con dell'uva da una schiava al suo fianco. Sofia neri conobbe la mano ricoperta d'anelli pacchiani e strinse i pugni bloccati dalle catene.

Era più grande di lei di almeno una decina di anni e con le ciglia folte e gli occhi innaturalmente allungati dal kajal, il suo volto le ricordò vagamente il muso di un gatto. Teneva i capelli castani in una bella acconciatura in cima alla testa, con qualche ciuffo che le cadeva elegantemente sul collo e sul petto e sollevò un unico angolo delle labbra quandoli vide entrare, continuando a masticare l'uva.

Lo schiavo che gli aveva accompagnati fino a lì, riprese il suo posto ai piedi del letto, stringendo un ramo d'alloro ed iniziando a sventolarlo sopra la donna.

A Sofia era sempre piaciuto il profumo d'alloro ma in quel momento storse il naso, infastidita.

- Ben arrivati – li salutò la donna con la stessa voce melliflua che aveva usato con Perseo e che fece correre un brivido gelido lungo la schiena di Sofia. – Spero il viaggio sia stato piacevole.

Uno dei soldati fece un passo in avanti, mettendosi una mano sul petto mentre si inchinava. – è andato bene, mia signora – rispose in un latino un po' stentato che fece storcere impercettibilmente le labbra della donna.

Flavia. Era così che l'aveva chiamata Perseo.

Era Flavia ed era la moglie di Lucio Quinzio.

Altri schiavi entrarono nel tablinium, tutti rigorosamente seminudi ed avvolti da vesti candide ma logore, per cambiare i vassoi che la donna aveva sul tavolo con altri, stracolmi di cibo.

Lo stomaco di Sofia brontolò dalla fame ma si costrinse ad ignorarla.

- È da un anno che abbiamo stretto l'alleanza con la Grecia – continuò la donna, prendendo dalle dita della schiava, direttamente con la bocca, l'uva che le stava dando. – E le donne che portano, sono ogni volta più belle.

Sofia serrò i pugni, accogliendo il dolore che le si propagò fino alla spalla quando infilò le unghie nelle ferite che si era già procurata in quel modo. Le altre schiave vicino a lei non parlavano latino, ma ci voleva uno stupido per non capire la piega che Flavia voleva la conversazione prendesse.

Sorrise melliflua, chiuse nella bocca le dita della schiava prima di allungare il braccio di loro. – Vieni qui – disse poi.

Sofia seguì la direzione del suo sguardo, voltando il capo solo per trovare Daphne.

Gli occhi scuri erano colmi di paura, confusione e si fece più piccola nelle spalle, guadandosi attorno come se sperasse che qualcuno sbucasse fuori dal nulla, salvandola.

- Forza – incalzò Flavia con lo stesso fastidioso sorriso. – Vieni qui.

Sofia guardò Daphne e poi Flavia prima di fare un passo avanti. – Signora – la chiamò, attirando la sua attenzione su di sé. Gli occhi felini si spostarono su di lei e, mentre Sofia li guardava, se chiese se tutte le persone che arretravano davanti allo sguardo da lupo di Perseo, avessero mai incrociato gli occhi di quella megera. – La mia compagna non sa parlare latino. Io potrei all.. – si passò la lingua sulle labbra nel tentativo di umidificarle ma era troppo secca. – Allietarla meglio.

Flavia la guardò con gli occhi scuri ed attenti che non tradirono alcuna emozione prima che sorridesse. Il cuore di Sofia batteva all'impazzata nel petto. Ne sentiva il rimbombo nelle orecchie. – Un consiglio, ragazzina – le disse, continuando a sorridere ma assottigliando lo sguardo in due fessure crudeli. – Impara a non intrometterti in faccende che non ti riguardano –. Si rivolse nuovamente verso Daphne che, sotto al suo sguardo, tremò. – Vieni qui tu – ordinò, col tono che era meno mellifluo di prima.

- Signora –. In uno spasmo, la mano di Sofia si mosse verso quella di Daphne ma si trattenne dal stringerla per poterle dare conforto. – La preg..

La donna sbuffò, muovendo la mano davanti al volto infastidita. – Vi prego, toglietemela dalla vista prima che la faccia uccidere. Tu, vieni qui – ordinò e quando Sofia provò ad opporsi ancora, Asterio uno dei soldati, figlio di Apollo, la trascinò bruscamente all'indietro, acchiappandola per le catene che le tenevano legati i polsi.

Quando Sofia lo guardò, scioccata, gli occhi castani trasudavano dolore e dispiacere e si lasciò trasportare via, guardando Daphne oltre la sua spalla che veniva spinta da un soldato romano verso il divanetto di Flavia. E la schiena tremante dell'ateniese le rimase impressa nella mentre anche quando le tende si chiusero dietro di lei.  


Angolo Autrice:

Ciao fanciullini miei!

come va? è un miracolo che stia riuscendo ad aggiornare oggi perché sto studiando per tutto il giorno e la notte, che è il tempo che normalmente dedico alla scrittura, lo sto usando per scrivere la tesi. Che è una forma di scrittura meno piacevole di quello per una fanfiction ahahaha ho pensato di usare la mia pausa dopo pranzo per aggiornare invece che guardare Netflix quindi, ehehehhe eccoci qui!

Ares ce l'ha con Annabeth (ma va?!) e le appare in sogno tentando di ucciderla anche se poi arriva Atena ad aiutare a svegliarla. Ovviamente, abbiamo anche tutti notato l'iconica "quando dormi sbavi" e, chi non l'ha fatto, può anche smettere di leggere questa storia.

Siamo arrivati a Roma. Ho cercato di descrivere le sensazioni di Annabeth il meglio possibile anche se, emozioni del genere, si possono solo provare quindi non è esattamente stata la cosa più facile del mondo. Abbiamo anche conosciuto Reyna (che non poteva ovviamente chiamarsi Reyna) ed un po' di attività extra-curriculari di Percy. Avete capito Annabeth fosse infastidita?

Mi è piaciuto scrivere questo capitolo (anche se ho dovuto dividerlo per ragioni di lunghezza) perché Annabeth è divisa tra la magnificenza per l'arte e l'architettura e la condizione drammatica nella quale lei e le altre si trovano. Prova a distrarsi ma poi c'è sempre quello che la porta alla realtà eppure, alla volte, l'arte riesce a salvarla anche se per poco.

Arrivati a Practa Quinzia, Sofia parla di "uno schiavo con la pelle scura". Adesso, mi sembra giusto spiegarlo per dissipare qualsiasi dubbio anche se, coscienziosamente, io so perfettamente chi sono e ciò in cui credo. Quando parlo di "schiavo con la pelle scura" è perché questa fanfic vuole rappresentare le cose, come erano al loro tempo, nel modo più accurato possibile (licenze ""poetiche"" e dei permettendo) e, purtroppo, c'erano diversi schiavi anche con la pelle scura. Con questo, il mio intento non è quello, ovviamente, di porre come unica rappresentazione per una persona di colore, la condizione di schiavo. Nella fanfic è già menzionato Beckendorf e, ovviamente, anche lui ha la pelle scura è così è rimasta e, più avanti, vedremo anche chi altro compare con la pelle scura ehehehe

Mi sento di scrivere questo perché il razzismo è una tematica incredibilmente preoccupante e contro alla quale lotto quotidianamente  attraverso l'educazione e l'informazione prima di tutto della mia persona.

Detto questo, spero tanto che questo primo capitolo a Roma vi sia piaciuto.

Io vi voglio tanto bene e vi mando un bacio enorme:*

Eli:)

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