Micene (parte 1)
Quando Sofia tentò di aprire gli occhi, fu costretta a richiuderli velocemente per il fortissimo fascio di luce che la investì. Poi, con le palpebre socchiuse,registrò altre due cose, era su un letto e qualcuno le aveva fatto indossare un nuovo chitone.
Corrugò la fronte sbattendo ripetutamente le palpebre, cercando di abituarsi velocemente alla luce. Era viva.
Le arai non l'avevano uccisa.
Il corpo era ancora un po' dolorante ma, quando si mise a sedere, ignorando il leggero capogiro, notò chele ferite che aveva sulle braccia erano in pronta via di guarigione e la gamba che, solo quella notte era stata fonte di incredibili sofferenze, stava meglio di quanto avrebbe mai potuto razionalmente credere.
Poi, febbrilmente si toccò la vita.Per la prima volta da anni, era priva di velo e persino del suo coltello e fu quando si voltò di scatto, che lo vide posato su un tavolino in legno scuro accanto al letto.
Si guardò attorno.
Come qualsiasi casa si rispettasse, la stanza dove si trovava era costeggiata da colonne alle quali erano appese tende scure abbastanza da schermarla dall'esterno. A differenza della casa di Perseo però, non erano mosse dal vento.
Scoprì che la fonte di luce era una finestra alle sue spalle, dettaglio che trovò altrettanto sorprendente perché normalmente i ginecei, le stanze dedicate alle donne, ne erano privi.
Seppur indossasse un nuovo chitone, le gambe, le mani e le braccia erano ancora sporchi di fango, puzzava e di capelli erano una massa stopposa attaccata alla testa.
Comunque, era in una casa qualsiasi,presumibilmente a Sparta, con ancora il suo coltello ma senza velo dell'invisibilità.
Era evidente che, chiunque l'avesse salvata, non avesse intenzione di ucciderla perché, se avesse voluto farlo, gli sarebbe bastato lasciarla a dissanguarsi nel bosco.
Sofia però, esclusa la bontà del suo salvatore, era comunque evasa dal Campo Mezzosangue e, ferita com'era, non poteva essere troppo lontana Sparta che, per altro,sarebbe stata la primissima tappa delle ricerche dei semidei.
Doveva andarsene da lì.
Impugnò il suo coltello,sistemandoselo sulla schiena, sotto la cordicella bianca che le faceva da cintura, gettando poi le gambe sul terreno. Puntò le mani sul letto, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro prima di sollevarsi. Una fitta improvvisa alla gamba destra la fece barcollare ma non fu forte abbastanza da farla cadere, nonostante il capogiro che le provocò.
Poteva farcela.
Si augurò soltanto che, se avessero provato a fermarla, non sarebbe stata costretta a difendersi.
Scostò lentamente la tenda,guardandosi attorno. Non sembrava vi fosse qualcuno a casa, ricca di così tante finestre che corrugò la fronte per la confusione.Persino il soffitto sopra al cortile, dritto su una fontana verde smeraldo, era aperto, permettendo che i raggi del sole potessero colpirne le pietre luminose, lanciandone i riflessi sulle colonne e le tende attorno.
Per altro, era comunque parecchio grande per essere una casa di un popolano qualsiasi. Il gineceo glielo aveva suggerito ma, a quel punto, davanti alle evidenti dimensioni che si trovava davanti agli occhi, l'urgenza di andare via da lì diventò ancora più forte.
Non aveva idea di dove fosse il suo velo ma avrebbe dovuto farne a meno.
Zampettò silenziosamente, scendendo i due scalini che la separavano dalla fontana, un attimo prima che una voce alle sue spalle potesse spingerla a voltarsi di scatto. – Sei sveglia – disse una donna, regalandole un sorriso non appena Sofia posò gli occhi su di lei.
Era bella, avvolta da un chitone candido, con gli occhi azzurri luminosi ed una fascia dorata sulla fronte ed attorno ai capelli castani con qualche filo bianco.
Forse aveva quarant'anni. Era facilmente una coetanea di Aspasia e, quando Sofia si soffermò sul suo sorriso, la riscaldò tanto quanto lo faceva quello della figlia di Afrodite. Forse perché, in fin dei conti, tutte le madri hanno,nel loro sorriso, la tacita necessità e capacità di prendersi cura di chiunque gli stia difronte.
- Come ti senti? – le domandò, senza fare accenno ad averla palesemente colta in flagrante mentre tentava di svignarsela, camminando verso di lei. Quando le arrivo difronte, posandole una mano sulla fronte per sentirle la temperatura, Sofia trasalì ma non riuscì a spostarsi, chiudendo gli occhi sotto al tocco piacevole.
Sofia boccheggiò. Forse, la voce non le era tornata. Forse, la maledizione delle arai poteva svanire solo se le ferite fossero state superficiali. – Chi siete? – riuscì poi a domandare con voce ancora un po' roca, aprendo di scatto gli occhi, osservando il volto tranquillo della donna.
- Sono Sotiria. Vieni, ti preparo qualcosa di caldo – le disse, voltandosi per poter raggiungere la cucina, senza aspettare che la seguisse. Ma Sofia rimase perfettamente immobile accanto alla fontana, osservandola mentre camminava via.
- Come sono arrivata qui? – domandò.
Come ho fatto a sopravvivere a tutto quel dolore? Avrebbe anche voluto chiedere.
La donna si voltò, sorridendole ancora ed a Sofia parve che quel peso che sentiva così insistentemente sulle spalle, le venisse sollevato via. Almeno per poco. – Vieni in cortile, forza. Io preparo un po' d'orzo.
Per quanto quella situazione fosse assurda, e per quanto tutti gli istinti di Sofia avrebbero dovuto prepotentemente scattare in quel momento, gridandole a gran voce di correre a gambe levate, lei seguì Sotiria nel suo orto dove, non solo stava bene, ma si sentiva anche protetta. Forse perché il profumo di ulivi, le piantine di menta, l'edera che saliva contro ai muri bianchi che proteggevano la proprietà, ed i colori accesi dei meli attorno, le ricordavano Atene. O forse perché il sorriso di Sotiria era uno dei più gentili e calorosi che le avessero mai rivolto e la sua bevanda all'orzo era incredibilmente buona.
Sedute lei su un divano e Sotiria al suo fianco, su una poltrona in vimini, mangiavano pane e frutta, coccolate dal sole che, invece che essere bollente come avrebbe dovuto, era sorprendentemente tiepido.
- Un soffio di vento ti ha portato qui – le disse a quel punto la donna, osservandola con gli attenti occhi azzurri. – Io mi sono svegliata all'improvviso. Chiamalo sesto senso, non saprei, ma quando sono andata alla porta, nel cuore della notte, c'eri tu che a malapena respiravi, ricoperta di sangue.
Sofia rabbrividì. Era certa sarebbe morta quella notte e chiuse gli occhi di scatto davanti al ricordo del dolore, così intenso da toglierle il fiato, portandosi la mano libera al petto quando il cuore le si strinse in una morsa.
Kyros.
Gli occhi le si riempirono di lacrime senza che lei riuscisse a controllarlo.
Kyros l'aveva amata silenziosamente per chissà quanti anni e lei non si era accorta di nulla.
Kyros che l'aveva sempre protetta, aiutata ed amata senza dirle niente.
Era stata la paura di non essere mai ricambiato, che l'aveva portato a nascondere tutto per anni?
Sofia chiuse gli occhi.
Non avrebbe pianto.
- Un mortale però – continuò Sotiria, allungandole un fazzoletto candido che Sofia prese con un cenno di ringraziamento. – Non sarebbe mai riuscito a sopravvivere a tale orrore. So riconoscere un semidio quando ne vedo uno quindi, prima di trascinarti dentro, ti ho dato nettare ed ambrosia – sorrise teneramente, lasciando vagare lo sguardo difronte a sé per un solo istante. – Mio figlio è un semidio, quindi ne ho sempre qualche scorta qui.
Poi si allungò verso di lei, toccandole il polso, aggrottando le sopracciglia in preoccupazione in modo così buffo che Sofia sorrise teneramente con le difese che, in quel momento, rischiarono di crollare del tutto. – Che ti è successo, bambina? Chi ti ha fatto così tanto male?
Aspasia era morta da settimane ormai e, dopo di lei, nessuno l'aveva più toccata o guardata in quel modo. Ed a Sofia, a quel punto, l'amore di una madre mancava terribilmente. Non si era accorta di quanto le fosse mancato fino a quel momento, fino a che Sotiria, con le sopracciglia aggrottate familiarmente in preoccupazione, non l'aveva toccata teneramente.
Forse avrebbe potuto dirle tutto. Avrebbe potuto dire la verità almeno a lei.
Sono Sofia. Sono la figlia di Atena, la semidea della profezia. Sto scappando dal Campo Mezzosangue. Ho bisogno di aiuto, vi prego.
Ma non era giusto caricare quella donna così gentile di così tanta responsabilità. Darle il fardello dei suoi segreti da portare, mettendola più in pericolo di quanto già inconsapevolmente fosse, dando asilo ad una ricercata.
- Mi chiamo Annabeth – disse, leccandosi le labbra improvvisamente secche. – Siamo a Sparta?
Sotiria sorrise. – Annabeth è un nome bellissimo –. A quel punto aveva perso quell'ombra di preoccupazione sul volto ma Sofia, quel sapore amarognolo sul fondo della gola, lo aveva ancora. – Si, siamo a Sparta. Perché non ti riposi un po' prima di ripartire? Mangia e ti fai un bel bagno e poi puoi anche andare. Posso prepararti un sacco con del nettare e dell'ambrosia, se vuoi – le sorrideva ma quell'espressione preoccupata, decorata delle sopracciglia aggrottate, era tornata.
Sofia non riuscì a fare a meno di sorridere, mettendo istintivamente una mano sopra quella della donna, ancora ferma sul suo braccio. – Credo..
Sei carino quando sei preoccupato, aggrotti le sopracciglia in modo buffo.
La realizzazione la colpì con la forza di un pugno ed abbandonò di scatto la sua ciotola d'orzo sul tavolo, scattando in piedi. – Devo andarmene di qui – disse perentoria, girando velocemente attorno al tavolo.
- Ma, Annabeth.. – disse la donna, ancora seduta.
Sofia sentì il profumo del mare da prima che il semidio potesse fare la sua entrata nel cortile, scostando la tenda corallo che separava l'interno della casa con l'esterno. Gli occhi verdi scintillarono sotto la luce del sole, chiudendosi in due fessure più scocciate che arrabbiate quando si puntarono su di lei.
- Madre – sorrise però, rivolgendo uno sguardo gentile alla donna prima di puntarlo nuovamente su di lei.
Doveva essere uno scherzo.
- Annabeth
- Perseo – borbottò Sofia, incrociando le braccia sul petto.
- Vi conoscete? – domandò Sotiria, allegra. – L'ho chiamato perché lui lavora al Campo Mezzosangue ed una semidea della tua età appartiene per forza lì.
Sofia resistette alla necessità di scoppiare in una risata isterica, limitandosi a tenere gli occhi puntati su quelli di Perseo.
Non aveva via d'uscita a quel punto, doveva solo sperare che il ragazzo non volesse poi ucciderla.
Perseo sorrise, osservando nuovamente la madre. Era incredibile il modo in cui il volto, dopo esser stato così duro, si addolcisse non appena tornava ad osservare Sotiria.
Se la vita di Sofia non fosse stata appesa alla volontà di Perseo, forse sarebbe anche riuscita a sorridere.
- Hai fatto bene, mamma, grazie – sorrise il ragazzo. – Ci puoi lasciare un po' da soli?
- Certo – rispose Sotiria, toccandole il braccio quando le passò accanto, strappandole, suo malgrado, un sorriso prima di stampare un bacio sulla guancia del figlio ed andare via.
A quel punto, rimasti soli, Perseo la guardò, lasciando andare un sospiro, allungando poi un braccio verso il divano e la poltrona di vimini. – Ci sediamo?
- Ho scelta? – borbottò Sofia, sedendosi sulla poltrona mentre Perseo prendeva il divano al suo fianco.
- Certo. Puoi anche rimanere in piedi. Mica è un problema mio.
Perseo era tranquillo. Era seduto con i gomiti posati sulle ginocchia ed il volto rilassato accarezzato dal sole. Non indossava l'armatura. Solo il chitone candido attorno al quale vi era avvolta una cintura blu. Non arrabbiato. Non l'avrebbe portata via da lì con la forza. Non le avrebbe fatto del sole. Sembrava solo.. esasperato?
- Mi riporterai al Campo?
Perseo sbuffò in scherno, puntandole gli occhi verdi sul volto. – Credi che abbia scelta? L'unico modo per fermare un'intera legione di semidei dal venire a prenderti, è stato dire ti avessi autorizzato io. Se non torni con me, c'è la mia stessa vita in palio. Oltre che quella di mia madre. – Sofia chiuse gli occhi per un istante. – Quindi, si, Annabeth, tornerai al Campo con me.
Sofia lo guardò. Chissà qual era il punto debole di Perseo. Il suo difetto fatale. Poi, pensò alla tenacia che aveva avuto nei suoi confronti. Al fatto che, nonostante lei tentasse di respingerlo ogni volta, lui con lei non aveva mollato, andando contro persino alla sua stessa gente.
Forse era quello il suo difetto fatale. L'eccessiva lealtà verso i.. suoi amici?
- Mia madre mi ha detto.. – poi scosse la testa come se avesse ripensato a ciò che stava per dire. – Pono ha lanciato l'allarme prima del processo. Le arpie hanno risposto immediatamente e non abbiamo fatto in tempo a fermarle. Ti hanno fatto del male? – domandò, aggrottando le sopracciglia nel suo solito modo buffo.
Sofia nascose un brivido al ricordo degli artigli che le si conficcavano nella pelle ed alla gamba che si era rotta mentre cadeva a terra dalla cima di un albero. – No.
Avrebbe voluto sapere di più del processo ma era troppo orgogliosa per mostrare a Perseo la sua curiosità.
- Cosa avevi intenzione di fare, Annabeth? – domandò Perseo, un po' mesto, guardandola dal divano.
Sofia sbarrò gli occhi. – Dici sul serio? A te cos'è sembrato, scusa?
Il ragazzo sorrise di scherno. – A me è sembrato fossi troppo spaventata per affrontare il mattino dopo ed hai pensato che la soluzione migliore fosse dartela a gambe levate. Ecco cos'è sembrato.
L'indignazione le risalì, bollente, lungo la schiena e chiuse i pugni, fulminandolo con gli occhi grigi. – Io non ho paura, Testa d'Alghe. Men che meno di voi stupidi spartani – sputò con rabbia, raddrizzando la schiena, sperando così di poter nascondere il suo orgoglio ferito.
- E allora perché sei scappata? Senza neanche rimanere per testimoniare al processo ed incastrare una volta per tutte quei bastardi? Perché hai avuto paura, ecco perché. Sei una codarda e sei fuggita via.
Sofia aprì la bocca, oltraggiata. – Chiedo scusa, Testa d'Alghe, io codarda? Io?! – esclamò, alzandosi di scatto dalla sua poltrona. – Ho iniziato una guerra contro la tua stupida gente per poter proteggere la mia! Ho preso una spada, con le mani legate e senza mai aver visto una guerra, pur di proteggere il mio popolo! – urlò. – Mi sono inimicata tutti i figli di Ecate purché distogliessero l'attenzione da Euleia, mi sono buttata in prima fila, lottando contro un guerriero con alle spalle anni di esperienza pur di proteggere tutti voi e farvi vincere quello stupido malsano gioco! E tu mi dai della codarda? Codarda! A me?! – Anche Perseo a quel punto, si era alzato ed il fatto che il suo volto fosse così rilassato, le diede ancora più fastidio.
Avrebbe voluto tirargli un pugno su quel suo stupido naso almeno, si disse, così avrebbe cambiato espressione. – Io, codarda! Miei dei! Sono fuggita da sola, affrontando un bosco pieno di mostri, un branco di arpie e di maledettissime a.. –. La lingua le si arrotolò nella bocca quando provò a pronunciarne il nome e ringhiò ancora di più per la frustrazione. – Ho fatto tutto io! Io! Io in prima linea. Io ho surclassato mio fratello, rubandogli la voce e l'affetto di mio padre, io ho iniziato lo scontro con gli spartani, io mi sono inimicata i figli di Ecate per proteggere Euleia. Io ho ideato il piano. Io ho lottato contro Pono! Io! Io! Io! – urlò.
Ma Perseo era ancora lì, a pochi passi da lei, a guardarla come se non pensasse assolutamente nulla. In piedi, fermo senza essere neanche un po' turbato.
Lei, lei, lei. Sempre Sofia. Ogni volta Sofia.
- Non è colpa tua.
La voce di Perseo riecheggiò nel cortile o, forse, solo dentro di lei, colpendola dritta al cuore.
- Che cosa hai detto? – ringhiò, allungandosi verso di lui con i pugni serrati per la rabbia.
E Perseo, ancora e fastidiosamente, rimase perfettamente fermo ed imperturbabile. – Non è colpa tua, Annabeth. Non è colpa tua se sei uno stratega migliore di tuo fratello. Non è colpa tua se il tuo migliore amico è morto sull'Acropoli di Atene.
- Stai zitto – sibilò, costringendosi a guardarlo, lottando contro gli occhi che la imploravano di potersi spostare da qualche altra parte.
- Non è colpa tua se il tuo migliore amico è morto sull'Acropoli.
- Stai zitto! – urlò, mentre il cuore iniziava a batterle con violenza dentro al petto.
Le sembrò che la stessa mano gelida che glielo aveva stritolato la notte prima, fosse tornata, privandola del fiato e della forza.
Come poteva dire non fosse colpa sua? Santippo li aveva traditi per colpa sua. Kyros era morto per colpa sua, per proteggerla e lei neanche si accorta lui la amasse.
Ansimò, il petto che si muoveva incontrollato alla ricerca d'aria.
- Non è colpa tua se hai voluto proteggere Euleia. È grazie a te che nessuno le ha fatto del male. Non è colpa tua se è morto Hosios.
- Basta! – gridò, prendendosi la testa con le mani, allontanandosi da lì, allontanandosi da Perseo il più possibile, muovendo pochi passi nel cortile.
Le arai le strinsero il cuore senza pietà anche in quel momento. Glielo sgretolarono tra i loro artigli di gelido odio.
Dava le spalle a Perseo quindi, quando parlò ancora e lo sentì esattamente dietro di lei, si costrinse a non voltarsi. – E non è colpa tua se quei.. se loro.. – il ragazzo sembrò quasi prendere un respiro prima di parlare ancora. – Non è colpa tua se quei bastardi hanno provato a farti del male. È solo colpa loro, Annabeth –. Delle dita esitanti le toccarono la spalla nuda e Sofia tremò sotto quella gentilezza, stringendosi con forza i capelli tra le mani. – Non è colpa tua, Annabeth – disse. – Non è colpa tua – ripeté forse perché, in qualche modo, sapeva che ci sarebbe voluto più tempo perché lei arrivasse a credervi sul serio.
Sofia crollò e, a quel punto, non provò neanche più a nasconderlo. Perché la sua famiglia era stata sterminata, Hosios era morto, lei era stata quasi violentata e le maledizioni delle arai, ancora le si ripercuotevano nel corpo e nel cuore senza lasciarle tregua, ricordandole che, a dispetto di ciò che avrebbe potuto dire Perseo, la colpa era sua eccome. Ma lei, a far finta di poter sopportare tutto quel peso, non ce la faceva proprio più e, chissà in che modo, Perseo aveva capito.
- Annabeth – quando lei si voltò, lasciandosi andare contro il suo corpo caldo, seppellendo il capo contro la sua spalla, colse Perseo in contro piede per qualche istante prima che lui potesse stringerla a sé, avvolgendola tra le braccia mentre piangeva.
Sofia respirò il profumo mare, quello di casa, beandosi del calore del corpo del ragazzo e delle braccia gentili che non le avrebbero permesso di cadere, almeno non in quel momento, tenendo lontane le arai dal suo cuore.
Perseo le affondò le dita sulla nuca, accarezzandola piano mentre la stringeva, avvolgendola mentre Sofia si aggrappava spasmodicamente al suo chitone.
- Come puoi dire non sia colpa mia? – borbottò, allontanandosi di scatto di Perseo. Provò a muovere dei passi via da lui ma il ragazzo le tenne il volto tra le mani senza smettere di guardarla negli occhi. – è successo tutto a causa mia e..
- No, Annabeth – le sorrise il ragazzo, asciugandole le lacrime via dalle guance. – Sono cose che valicavano il tuo controllo, che non avresti mai potuto prevedere. Ecco perché non è colpa tua – e quando provò a ribattere, Perseo la interruppe dolcemente. – Ci piace pensarlo ma non siamo invincibili. Non siamo noi gli dei. Quel compito lasciamolo a loro. Noi cerchiamo solo di cavarcela il meglio possibile – disse, prima di tirarsela contro al proprio petto ancora una volta, avvolgendola tra le braccia forti.
Sofia respirò il suo profumo mentre si aggrappava al suo chitone, prendendo un respiro più profondo degli altri prima che Perseo potesse lasciarla andare una volta per tutte.
Si asciugò il volto con i palmi delle mani, ignorando quanto si sentisse ridicola in quel momento, a piangere davanti a chi avrebbe dovuto essere il suo peggior nemico. Ma Perseo era così gentile, così familiare con gli occhi che sembravano incastonare l'essenza del mare e la voce che le ricordava le onde che si infrangevano sulla battigia, che era impossibile non sentirsi sempre un po' a casa con lui.
Quello stesso pensiero la spaventò a morte, costringendola a fare istintivamente un passo indietro.
- Dovrai venire a Roma con me – disse poi il ragazzo come se nulla fosse, privandola del suo stesso respiro.
A Roma? Nel cuore dell'architettura?
- Perché? – domandò, osservandolo con le palpebre assottigliate nel tentativo di scovarne i segreti.
Perseo sorrise. – Perché periodicamente dobbiamo farlo. È l'unico modo per mantenere l'alleanza con Roma e salvaguardare il dualismo degli dei.
Ma certo. Suo padre gliene aveva parlato spesso. Gli dei di Roma altro non erano se non delle personalità più bellicose di quelli greci. Era necessario che Roma e Grecia fossero in pace perché gli dei non impazzissero, divisi tra due mondi. – E tu ci vai in quanto capo del Campo?
Perseo annuì, gli occhi luminosissimi sotto la luce del sole. – E come pretore.
Sofia tentò di nascondere le sue emozioni a riguardo. Giasone, quelli che sembravano secoli prima, l'aveva chiamato pretore e lei non aveva poi avuto modo ed occasioni per poter indagare di più a riguardo.
Perseo però, sembrò leggerle facilmente i pensieri.
- Quando avevo diciassette anni, il dualismo greco e romano stava per portarci ad una guerra. Gli dei erano impazziti. Ci aizzavano gli uni contro gli altri. Si infilavano nei nostri sogni, dicendoci di combattere contro i nostri nemici.
Sofia se lo ricordava quel periodo. Persino le due personalità di sua madre avevano iniziato a litigarle nella testa fino a che, improvvisamente, tutto non si era fermato. Era stato un periodo duro per Atene. Tenere i ranghi serrati e rassicurare la popolazione non era mai stato più difficile. Almeno fino a quando il dio Apollo non aveva scagliato su di loro un'epidemia e la gente aveva iniziato a morire ogni giorno.
- Me lo ricordo – azzardò a dire.
- Afrodite ti appariva in sogno? – le domandò Perseo. – è stato a quel punto che Era –. Sofia finse di ignorare lo scatto nervoso che ebbe il labbro superiore di Perseo al solo pronunciare quel nome. – Ha fatto in modo che io e Giasone potessimo scambiarci. Lui qui, al Campo Mezzosangue ed io a Roma.
- Ecco dove hai imparato lo sguardo da lupo.
Perseo sorrise. – Esatto. Verrai a Roma con me, quindi? Non che tu abbia scelta. La punizione per Pono è stata quella di rimanere al Campo invece di venire nell'impero per i Giochi – contorse il viso, senza nascondere l'evidente fastidio. – è meglio far calmare un po' le acque.
Sofia scosse le spalle. Odiava l'idea che le sue stesse azioni dovessero sottostare alla mercé di un pazzo e di chiunque lo seguisse ma poteva andarle peggio.
Sarebbe comunque andata a Roma.
- Sei pronta? Dovremmo tornare al Campo, adesso – disse Perseo un secondo prima che Sotiria, alle spalle di Sofia, potesse protestare.
- Fai fare a questa povera ragazza almeno un bagno, per gli dei, Percy! – lo rimproverò e Sofia, voltandosi verso la donna, fece anche finta di non aver notato il rossore che, dalle guance di Perseo, era arrivato fino all'attaccatura dei capelli.
Effettivamente, le sarebbe davvero piaciuto darsi una rinfrescata.
- Non c'è problema, davvero! – sorrise Sofia. – Posso lavarmi al Campo e..
- Non se ne parla proprio, Annabeth, ti prego! – Sotiria rimproverò anche lei, mettendosi le mani sui fianchi. – L'acqua è già pronta. Fila a lavarti prima che ti porti di peso, Annabeth cara – disse.
Sofia sorrise, camminando verso la donna mentre osservava Perseo da sopra la spalla. – Immagino non si possa proprio disubbidire alla mamma, ho ragione?
Il ragazzo si portò una mano alla nuca, sorridendo imbarazzato. – Immagino di no.
Lo stesso pegaso nero che Perseo aveva cavalcato il primo giorno in cui Sofia era arrivata al Campo, era fermo davanti al porticato della casa di Sotiria, muovendo gli zoccoli ed il bel muso quando le persone gli passavano accanto, quasi le volesse salutare. Poi, si voltò verso di loro, nitrendo infastidito.
- Lo so, lo so, campione – disse Perseo al fianco di Sofia, avvicinandosi al pegaso ed accarezzandogli il muso. – Si, ti darò un sacco di mele come torniamo al Campo –. Perseo stette ad ascoltare ancora e, a giudicare dal rossore che gli colorò l'intero volto, il suo pegaso non doveva esserci andato troppo leggero. – No, non lo è, stupido cavallo – borbottò, mentre quello muoveva il muso, nitrendo in un modo che somigliava spaventosamente ad una risata.
Il sole era alto su una Sparta ricca di persone che si affaccendavano da una parte all'altra della città. I carri, trainati dai cavalli, sfrecciavano lungo le strade a velocità pazzesche, alcuni centauri brancolavano fuori dalle locande, troppo ubriachi per reggersi sulle zampe mentre le ninfe passeggiavano lungo le bancherelle gestite dai satiri.
Sofia scoprì presto che, non solo la casa di Sotiria fosse un'eccezione tra le altre case, decisamente molto più piccole e con molte meno finestre, ma anche fosse nel pieno centro della città, affacciandosi sulla via che portava alla piazza principale. Si chiese se costruire una casa lungo una delle vie principali e non sulla piazza principale, non fosse poi stata una mossa strategica per evitare che la donna, ogni mattina, dovesse varcare la soglia della sua porta ed osservare inesorabilmente quell'orribile statua di Ares incatenato al centro della piazza.
Sofia si ricordava di aver pensato, sin da quando era bambina ed aveva studiato le carte della città, che gli spartani dovessero avere un macabro senso di idolatria. Il loro scopo era quello, in qualche modo, di trattenere la protezione del dio Ares sulla città, incatenandolo nella piazza principale di Sparta.
A lei pareva sono una scultura di cattivissimo gusto.
- Lo so – borbottò Perseo, leggendole nel pensiero per l'ennesima volta, spingendola a voltarsi verso di lui. – è la statua più brutta che abbia mai visto.
Sofia non riuscì a trattenere una risata, portandosi una mano davanti alla bocca per soffocarla, evitando di guardare gli occhi ilari di Perseo che l'avrebbero solo fatta ridere di più.
- Assolutamente oscena. Menomale mio figlio ha pensato bene di non costruirci casa proprio difronte – disse Sotiria, arrivando alle loro spalle, reggendo un sacco in tela tra le mani. – Delle provviste per il viaggio.
Sofia sorrise, prendendolo. – Grazie – fece, sincera.
- Mamma, il Campo Mezzosangue è a neanche un'ora da qui su Creekos. Non c'era bisogno di farci delle provviste – protestò Perseo, senza riuscire però a trattenere un sorriso.
La donna scacciò quelle parole muovendo la mano come si stesse allontanando dal volto un insetto. – Allora le mangerete domani mentre andate a Roma. Vi ho messo anche del nettare e dell'ambrosia. Non si sa mai.
Sofia sorrise alla donna che, quando le rivolse la sua attenzione, le prese le mani tra le proprie. – Riguardati, Annabeth cara, va bene? E vieni a trovarmi quando vuoi, d'accordo? Le porte di casa mia saranno sempre aperte per te.
Sofia evitò di guardare Perseo al suo fianco o di dire a Sotiria che, in quanto schiava, poteva ritenersi fortunata se Perseo non l'avesse ancora uccisa per essere scappata via.
Si limitò a sorriderle, stringendole le mani tra le proprie mentre la pareva quasi che il cuore le stesse per scoppiare. – Grazie per tutto quello che hai fatto per me – sorrise, toccandosi i capelli legati in una treccia con nastri dorati che le cadevano morbidamente lungo la schiena. – Anche per l'acconciatura. Farò in modo che Perseo ti restituisca tutto – le promise, alludendo al nastro che la donna le aveva fatto passare sulla fronte.
Sotiria mosse la mano con una leggera smorfia, – Non pensarci nemmeno. Fate buon viaggio, va bene? – gli augurò poi, rivolgendo la sua attenzione a Creekos a quel punto che, voltato verso di lei, mosse la testa in un leggero nitrito.
Perseo sorrise. – Dice di non preoccuparti. Ci porterà al Campo sani e salvi. Grazie mamma – fece poi il figlio di Poseidone, chinandosi su Sotiria per poterle lasciare un bacio sulla guancia. – Ci vediamo presto, va bene?
La donna si puntò le mani sui fianchi, mettendo su quella che doveva la sua migliore espressione corrucciata. – Voglio ben sperare, Percy. Ed anche tu, Annabeth, va bene? – si raccomandò nuovamente, strappandole un sorriso.
Sofia sorrise, annuendo, avvicinandosi poi a Creekos. Si aggrappò alla sua criniera, issandosi facilmente sul dorso. – Grazie, Sotiria – ripeté, facendosi istintivamente più avanti quando Perseo saltò sul pegaso dietro di lei.
Si odiò quando trattene il fiato non appena il corpo del ragazzo aderì completamente alla sua schiena, toccando istintivamente il velo dell'invisibilità che Sotiria le aveva restituito dopo averglielo lavato.
Lo maledisse per non avere un'armatura che l'avrebbe schermata dall'essere in contatto col suo corpo caldo o che avrebbe, magari in qualche modo, smorzato quel profumo di mare che si portava sempre dietro. Era forte al punto tale da inebriarla.
Chiuse gli occhi per un solo istante, ripiombando dritta nella mensa del Campo Mezzosangue, con i satiri che suonavano la musica del dio Dionisio. Lei pensava al suono delle onde per non impazzire ma, quando era il profumo stesso del mare in grado di soggiogarla, inebriarle i sensi, come avrebbe potuto fare?
Sofia raddrizzò la schiena, odiando il modo in cui i loro corpi combaciavano così perfettamente. Stava precisamente contro di Perseo e, forse in una altra occasione, persino in un'altra Grecia, lui sarebbe stato in grado di poggiarle senza fatica il mento sopra il proprio capo.
Un incastro perfetto. E fastidioso.
Persino le gambe aderivano alle proprie, almeno fino a che Perseo non si spostò all'indietro, abbastanza per evitare che potessero toccarsi ancora e lei si maledisse quando si ritrovò a rimpiangere il calore del suo corpo od il profumo del mare così forte.
Sofia prese un respiro, guardandosi attorno. Sparta pullulava di satiri, ninfe e centauri. Donne che passeggiavano tra le strade, bambini che si rincorrevano con piccoli gladi di legno e soldati. C'erano talmente tanti soldati, con le armature che scintillavano sotto ai raggi del sole, che Sofia non riuscì a trattenere un brivido.
C'erano più soldati che civili. A cavallo, persino a piedi, reggendo le lance tra i pugni, tronfi mentre, non badando a chiunque fosse davanti a loro, si liberavano la strada a suon di calci e spintoni.
Sparta non aveva delle mura alte e forti come quelle di Atene. Era un campo aperto, con la Polis esposta ai mostri ed agli eserciti nemici.
Forse era per quello che c'erano tutti quei soldati o forse perché, l'unico modo per sentirsi vivi e rispettati in quella città, era indossando un'armatura.
- Ci vediamo presto, mamma – salutò il figlio di Poseidone e Sofia se lo immaginò facilmente sorride. Ma non il suo solito sorriso furbo, uno ampio, sincero, che gli arrivava fino agli occhi verdi.
- Voglio ben sperare, Perseo!
E Sofia ebbe tempo di rivolgerle un ultimo saluto prima che, con un grido, Perseo potesse incalzare Creekos a correre via, spiccando poi il volo.
Sofia era già salita su un pegaso ad Atene. Anzi, a dire la verità, più di una volta si era ritrovata a solcare i tetti della sua città sopra di uno. Con Kyros e Paralo,sgattaiolavano nelle stalle e ne prendevano tre il più velocemente possibile, evitando di farsi vedere dal custode prima di issarsi involo.
A Sofia era sempre piaciuto vedere le cose dall'alto forse perché, da lì, tutto le sembrava sempre in prospettiva. Le sembrava sempre tutto un po' più piccolo, a partire dai suoi problemi. Con il vento che le scuoteva i capelli e gli occhi socchiusi per la velocità che faceva prendere al suo pegaso mentre solcavano i cieli, lei non si era mai sentita più libera di così. E per lei, avere la possibilità di solcare i cieli di Atene, facendo finta di poter andare ovunque e non di dover tornare nascosta tra le mura dell'Acropoli, era la più grande conquistata.
Ma andava bene fino a che poteva rubare quelle gare nei cieli assieme a Kyros e Paralo e fino a che aveva la possibilità di guidare Atene in sordina assieme a suo padre ed Aspasia.
Un'altra cosa che era sempre piaciuta a Sofia, era la sua indipendenza. Era il suo pegaso, la sua rotta, il suo vento e la sua libertà e fu per quello che, trovarsi così a suo agio con un'altra persona alle sue spalle, con Perseo alle sue spalle, con le braccia che sfioravano le proprie mentre si teneva alla criniera di Creekos per non cadere, le diede così tanto fastidio.
Però Perseo profumava. Non aveva mai quell'odore che si portavano sempre dietro Kyros e Paralo, o persino suo padre, per non parlare di quello dei soldati che sorvegliavano la sua casa e le mura della città; un odore di sudore più o meno lieve, misto a quel sentore di uomo che le aveva fatto decidere, sin da quando era bambina, che mai nella vita se ne sarebbe mai trovata uno.
Perseo aveva sempre quel profumo di mare e la voce che sapeva di onde. E le braccia abbronzate per le ore passate sotto al sole estivo e gli occhi che luccicavano con un sorriso malandrino che li faceva brillare come due gemme.
Ed in quel momento, seduti sul dorso di Creekos, obbligati com'erano a toccarsi, lei si odiò per quanto le piacesse quel contatto, quel calore e per quanto, persino il proprio corpo, stesse rispondendo così naturalmente a quello del semidio.
Perseo accarezzò il collo del pegaso,che virò dolcemente verso destra, toccandole il fianco mentre lo faceva, ignaro dello stomaco di Sofia che si contorse in una morsa,costringendola a muoversi sul dorso di Creekos, dondolando leggermente. Si chiese cosa fosse successo se si fosse voltata a quel punto, stampandogli un bacio dritto sulle labbra e lasciando che a quel punto, le braccia di Perseo potessero toccarla, stringendola solo per il piacere di farlo e non per la casualità del reggersi a Creekos.
Si chiese anche il perché avesse quell'improvvisa necessità che mai, mai nella sua vita aveva sentito fino a quel momento. Lei che aveva stupidamente limitato gli abbracci persino col suo stesso padre, riservando a Paralo solo qualche sporadica carezza ed a Kyros i contatti necessari al loro allenamento, costretta a quel punto a non pensare troppo a quanto le sarebbe piaciuto un altro abbraccio di Perseo.
Era stato bello stare contro al suo petto, respirare il suo profumo con quell'intensità e fare finta che, almeno per pochi secondi, non ci fosse nessuno al di fuori di loro due.
Non è colpa tua, le aveva detto e,seppur per poco, lei ci aveva creduto.
Non è colpa tua.
"C'è già Atlante a reggere il cielo, bambina". Suo padre glielo diceva sempre con un sorriso, che non avrebbe dovuto caricarsi il peso del mondo sulle spalle.
Hybris. Orgoglio. Ambizione. Lei poteva essere migliore persino degli dei. Ed era stata bravissima a controllarlo. Al punto tale da far sterminare tutta la sua famiglia e far morire Hosios.
Le arai, la notte precedente, non avevano semplicemente fatto altro che ricordarle quanto male avesse fatto nel corso della sua vita a casa del suo maledetto difetto fatale. Aveva scoperto che, nel corso della sua vita, lei aveva fatto così male a così tante persone, che quello quasi l'aveva uccisa.
Scosse il capo, sfiorando il corpo di Perseo mentre lo faceva, osservando la Grecia sotto di sé e corrugando la fronte. Spostò la testa all'indietro per la confusione, colpendo, a quel punto, la spalla di Perseo.
- Che succede? – domandò il ragazzo, sfiorandole il braccio col proprio mentre lei assottigliava le palpebre, tentando di vedere più chiaramente,
Creekos aveva iniziato la discesa verso una città che, ovviamente, non era il Campo Mezzosangue.
Prima di tutto, mancava tutto. Aldilà del drago Peleo, che era difficile non notare, il laghetto, il bosco, il rettangolo delle case, le pareti azzurre della Casa Grande non si vedevano da nessuna parte. Quindi, o erano improvvisamente spariti nel nulla e, in quel giorno di sua assenza avevano fatto una ristrutturazione completa del Campo o quella sequela di tetti candidi, le mura alte e persino quell'enorme anfiteatro che riusciva a vedere anche a quella distanza, non erano il Campo Mezzosangue.
Si irrigidì, contraendo i muscoli delle braccia e delle gambe, maledicendo Perseo, così vicino al proprio corpo, che le impediva di raggiungere il coltello con facilità.
- Dove stiamo andando? – domandò, voltandosi quanto più poteva per poterlo vedere in viso. – Dov'è il Campo Mezzosangue?
Non riuscì a vederlo come avrebbe dovuto. Riuscì solo a scorgere il naso, un lato delle labbra ed uno dei due occhi luminosi sotto ai raggi del sole, ma lo vide comunque sollevare un angolo della bocca in quella sua espressione furba. – Ho fatto una deviazione – rispose naturalmente mentre Creekos iniziava a scendere sempre più velocemente verso i tetti di quelle case, costringendola a reggersi con più forza alla sua criniera per evitare di cadere. – Questa è Micene.
Angolo Autrice:
Ma ciao fanciulli!
Come va? Volevo aggiornare ieri notte perché sono andata al mare ed ero particolarmente felice però, alla fine, non avevo idea di come dividere un capitolo troppo lungo, mi sono innervosita ed ho rimandato ad oggi.
Alla fine, ho deciso di dividere questo capitolo in tre parti. Ho sempre l'impressione che qui su Wattpad risulti più facile leggere capitoli corti piuttosto che capitoli chilometrici quindi, questo capitolo che originariamente era uno abbastanza lungo, è stato diviso in tre eheheh fatemi comunque sapere che ne pensate, se preferite di più capitoli lunghi oppure capitoli corti.
In ogni caso, tornando a noi, Annabeth è mezza morta ed il soffio di vento (AKA Atena) l'ha portata davanti alla casa di nientepopodimeno che Sally Jackson! In quanti avevano capito da subito fosse lei?
Ovviamente, anche suo nome cambiato in Sotiria.
In questo capitolo c'è decisamente più Percabeth. Percy tocca esattamente i punti deboli di Annabeth fino a che non crolla e si lascia andare con lui. Adesso, ci sono voluti quattro libri per un abbraccio degno di questo nome tra Percy ed Annabeth ma, per quanto la mia storia cerchi di ispirarsi il più possibile alla loro assenza, c'è comunque da tenere in considerazione che Percy ed Annabeth sono più grandi rispetto all'età nei libri quindi, certi pensieri del tutto legittimati per dei ragazzini, per due ragazzi di quasi diciotto anni risulterebbero un po'.. non so, forzati quasi? Quindi, ecco spiegato il perché dell'abbraccio, semplicemente.
Percy ha deciso di portarla a Micene. Ovviamente ne vedremo delle belle.
Grazie mille per i vostri messaggini.
Mi rendete sempre un sacco felice.
Vi voglio bene,
Eli:)
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