Fatale (parte 3)
*** c'è una parte particolarmente delicata da leggere in questo capitolo. La contrassegnerò con questi tre asterischi così che non solo voi siate eventualmente preparati a leggere ma così che possiate anche saltarla se non ve la sentite.
- Oh miei dei – borbottò Stefano quando, una volta sistemata Sofia su un lettino dell'infermeria, le tolse finalmente il bendaggio di foglie che le aveva fatto Monika.
- Cosa? – fece Sofia, sollevando il capo per poter guardare la coscia.
Oltre il chitone, poteva vedere la carne aperta, persino gli strati di pelle ed il bianco dell'osso.
La testa riprese a girarle ma decise di dare la colpa al dolore che, con una nuova potenza, prese a correrle nuovamente lungo il corpo intero. – Oh miei dei.
Stefano, accanto alla sua gamba, prendendole un lembo del chitone tra le dita, le regalò un sorriso. – Ecco, appunto.
L'infermeria in quel momento, pullulava di semidei e schiavi che, sui lettini, venivano assistiti da velocissimi figli di Apollo. Persino i figli di Demetra si erano attrezzati per aiutare, correndo da una parte all'altra dell'enorme stanza.
- Stefano! – gridò un figlio di Apollo con i capelli castani, correndo verso il loro lettino. Non doveva avere più di quattordici anni e Sofia si costrinse a sbattere le palpebre ripetutamente nel tentativo di metterlo a fuoco. – Pono ha bisogno di aiuto! È stato pugnalato diverse volte e..
- No.
Stefano era il capo della casa di Apollo, era persino più giovane di Sofia ed aveva sempre un sorriso gentile ad illuminargli occhi chiari. I capelli biondi rilucevano talmente tanto sotto al sole che parevano essere stati accarezzati dal dio Apollo in persona e, forse, poteva anche essere stato così. Si fermava spesso a parlare con gli schiavi anche se nessuno gli dava mai troppa corda ma in quel momento, quando rifiutò di dare le sue cure a Pono, Sofia vide il capo che era.
E dovette vederlo anche suo fratello, perché si limito ad annuire, facendo un passo all'indietro.
- Che nessuno, nessuno Marco, della nostra casa, aiuti Pono. Dite ai figli di Demetra di dargli nettare ed ambrosia. Ma non riceverà le cure mediche dei figli di Apollo. Ci sono schiavi che hanno ferite peggiori delle sue. Sono stato chiaro? – domandò retoricamente, assottigliando lo sguardo.
E Marco annuì un'altra volta, correndo via.
- Pono è il guerriero più anziano che abbiamo al Campo. È il capo perché due anni fa è solo stato fortunato – borbottò, – deve ringraziare i capi non vengano eletti attraverso delle elezioni. Neanche i suoi fratelli voterebbero per lui – le disse.
Sofia cercò di metterlo a fuoco ma non importava quanto sbattesse le palpebre, Stefano rimaneva comunque una macchia indistinta al suo fianco.
- Dov'è?
Sofia riconobbe il profumo del mare prima della sua voce e quando Perseo si avvicinò al suo capezzale, lei si sentì libera di poter respirare a pieni polmoni.
Il profumo salmastro fu come una carezza sul corpo stanco e dolorante.
- Perseo.. – mormorò il figlio di Apollo.
- Oh miei dei – fece quello di Poseidone.
- Ma perché avete tutti la stessa reazione quando vi avvicinate alla mia ferita – borbottò quella di Atena e, se avesse potuto, avrebbe anche roteato gli occhi al cielo. A quel punto però, non era neanche certa di avere le palpebre aperte.
Perseo, sorridere, lo sentì comunque. – Osservata da un altro punto di vista, potrebbe anche sembrare un'opera d'arte. È un mormorio di fascinazione – la prese in giro il ragazzo, strappandole quasi un sorriso.
- Va bene. Adesso la inizio a medicare. Annabeth non muoverti. Percy, dalle qualcosa da stringere – ordinò il figlio di Apollo e Sofia corrugò la fronte.
Aveva notato non fossero in tanti a chiamarlo Percy. Forse, lui e Stefano dovevano essere amici.
Perché poi, lei avrebbe dovuto avere qualcosa da stringere?
Ma quando il figlio di Apollo iniziò a medicarla ed un calore, inizialmente sopportabile, iniziò a propagarlesi per tutto il corpo, Sofia capì. Più Stefano continuava a curarla, più il calore che sentiva crebbe inimmaginabilmente. Le parve che il corpo intero le stesse andando a fuoco e, per un solo secondo, pensò anche di scappare via.
Ma poi si ricordò delle istruzioni di Stefano e quando cercò qualcosa da stringere, quella che trovò fu una mano. Strizzò gli occhi, stringendo le dita di Perseo talmente tanto forte che per un solo istante si sentì anche in colpa poi, il dolore un dolore lancinante le scosse la gamba e smise di sentirsi in colpa per serrare la bocca ed evitare di maledire Stefano.
Quando il figlio di Apollo finì, a lei sembrò di poter finalmente respirare e, una volta riaperte le palpebre, mettere a fuoco le sembrò più facile. Il ragazzo biondo al suo fianco era pallido in volto ma l'espressione era comunque concentrata mentre la esaminava.
– Grazie – gli disse e Stefano sorrise, accarezzandole una spalla.
- Grazie a te. Sei stata un'ottima paziente –. Il tocco della sua mano era piacevolmente caldo. – Vado ad aiutare gli altri. Tu rimani un po' a riposo, va bene?
Poi rivolse un'occhiata a Perseo davanti a lui prima di andarsene.
Fu solo a quel punto che Sofia si rese conto stesse ancora tenendo la mano del figlio di Poseidone.
Quando si voltò verso di lui, fece per toglierla da quella del ragazzo ma Perseo la trattenne delicatamente. Forse era il dolore o forse era la medicazione del figlio di Apollo che continuava a stordirla ma non si oppose.
Lo osservò in volto. Gli occhi verdi puntanti sulla sua gamba.
- Sei carino quando sei preoccupato – borbottò senza riuscire a trattenere un piccolo sorriso, – aggrotti le sopracciglia in modo buffo.
Perseo sbuffò un verso di scherno, sollevando lo sguardo su di lei. – Prendi un po' di ambrosia – le disse invece, afferrandone dal tavolo accanto al letto, un cubetto. Le lasciò la mano solo per mettergliela sul palmo e Sofia scosse il capo quando il calore piacevole della pelle di Perseo la abbandonò.
Si spinse sul letto per potersi sedere con la schiena poggiata al muro, ignorando il capogiro quando sollevò la testa dal cuscino sul quale era posata.
- Non avrei mai dovuto darti ascolto – borbottò Perseo e mentre lei stava per buttare giù il cubetto di ambrosia, quello per poco non le andò di traverso. – Lasciarti da sola con Pono. Ovviamente lui sarebbe stato armato.
Sofia sorrise, sollevando le spalle. – Sono ancora viva.
Perseo non le rispose subito. La guardò come se stesse cercando di leggere qualsiasi cosa le stesse passando per la testa in quel momento, anche il più piccolo pensiero. Gli occhi verdi erano comunque gentili e, pur fissi nei propri, non riuscirono a farla sentire in imbarazzo. – Tu lo sapevi, vero? Avevi previsto tutto – e Sofia sperò non avesse capito. Sperò davvero che Perseo si stesse riferendo ad altro. – Non era mai stato nei tuoi piani far prendere la Bandiera ad uno degli schiavi. Sapevi che non sarebbero riusciti a resistere alla magia dei figli di Ecate ed hai puntato sulla confusione e l'istinto da Cacciatrice di Talia per riuscire a prendere la Bandiera.
Il cuore di Sofia sprofondò talmente in basso che, per qualche secondo, le parve anche di non averne più uno.
Era andata esattamente così. Dopo anni senza allenarsi, era certa che gli schiavi non sarebbero stati in grado di gestire gli attacchi semidivini e, se i figli di Ecate si aspettavano il caos, non si sarebbero di certo aspettati dei semidei pronti a prendere la Bandiera mentre loro erano troppo impegnati a contenere gli schiavi impazziti.
Sapeva anche che, mossi da un subdolo sadismo, non gli avrebbero fatto vedere prati fioriti ed arcobaleni cavalcati da pegasi e la confusione sarebbe passata in secondo piano al divertimento del prendersi gioco di uomini inermi.
Ma non sapeva che Aphia sarebbe stata dalla parte sbagliata della foresta. Né che Hosios avrebbe resistito agli attacchi dei figli di Ecate e che l'avrebbe sentita urlare.
Perché era quello che doveva essere andato male nel suo stupido piano perfetto. Hosios aveva resistito e qualcuno, nella squadra avversaria, aveva usato il suo amore per Aphia per allontanarlo dalla Bandiera, probabilmente convinti che se fossero stati gli schiavi a guidare la spedizione, lui sarebbe stato in prima linea.
Gli avversari non si aspettavano i semidei nascosti.
Sofia non si aspettava che Hosios sarebbe morto.
Abbassò lo sguardo. Per qualche motivo, non voleva incrociare quello di Perseo per nulla al mondo.
- Sei una stratega, Annabeth. Una stratega nata – le disse con la voce che sapeva di onde e di estate. – Il tuo piano ha funzionato perfettamente ma non potevi prevedere la morte di Hosios. Quello valica le abilità di chiunque, a parte quelle degli dei – fece e, quando sollevò gli occhi dal suo grembo a quelli di Perseo, Sofia lo vide persino sorridere.
- Dov'è?! – Sofia riconobbe l'urlo furioso da prima che potesse vedere qualsiasi volto. – Dov'è lei? – gridò Aphia ed il suo dolore riportò Sofia dritta nella sofferenza che con tanta fatica Stefano le aveva portato via.
Le spezzò il cuore, letteralmente e si chiese se mai sarebbe stata in grado di ricucirlo.
Era colpa sua.
Perseo poteva tentare di giustificarla, ma il piano era il suo. E lei avrebbe dovuto prevedere simili evenienze.
Aphia aveva attirato su di sé l'attenzione dell'intera infermeria e quando la vide, si mise a correre verso la sua brandina. Se non ci fosse stato Perseo a fermarla quando tentò di lanciarlesi sopra, Sofia non avrebbe potuto fare niente. In realtà, non avrebbe neanche voluto.
Si sarebbe presa esattamente ciò che si meritava.
- Lasciami andare! – strillò, dimenandosi inutilmente tra le braccia di Perseo. – Lasciami andare, lurido spartano! – aggiunse anche, quando si rese conto chi la stesse tenendo ferma.
Un paio di spartani lì attorno fecero per avvicinarsi, rimproverando Aphia ma a Perseo bastò poco per rassicurarli. – Va tutto bene – disse, sollevando Aphia da terra. – Portatela via – fece poi, la voce macchiata di dispiacere mentre due spartani bloccavano la ragazza per le braccia e lei si dimenava.
- Era il tuo piano! – urlò. – Mi avevi promesso che tutto sarebbe andato bene! – gridò, senza più riuscire a trattenere le lacrime. – è tutta colpa tua!
Ed il cuore di Sofia, a quel punto, si spezzò in pezzi troppo piccoli perché le sarebbe mai stato possibile riuscire a ricomporli.
Nonostante Perseo avrebbe voluto lei rimanesse in infermeria, ammettendole anche non troppo implicitamente che non volesse, almeno fino a che fosse stata così debole, averla nella stessa stanza con Aphia, Sofia non aveva voluto sentire ragioni.
Non l'aveva toccata mentre camminavano, anche se Sofia aveva qualche volta vacillato, rischiando di cadere sul lastricato più di una volta e l'aveva salutata con un sorriso appena erano arrivati davanti alla porta dell'alloggio.
Il dormitorio era silenzioso a parte per i respiri delle altre ragazze e, nel buio pesto, Sofia estrasse il suo coltello da sotto al velo per farsi un po' di luce, raggiungendo poi il suo letto.
Guardò Euleia, addormentata placidamente lì vicino e sorrise e, quando si sedette sul letto, continuò a guardarla ancora per un po', fino a che il suo respiro calmo non riuscì a regolarizzare anche il proprio.
- Amore, apri gli occhi.
Sofia corrugò la fronte. Chi mai si sarebbe permesso di chiamarla amore? L'unica persona che l'aveva mai svegliata da quando era arrivata al Campo era stato Perseo e, comunque, lui non l'avrebbe mai chiamata così.
- Forza, bambina mia, fammi vedere i tuoi occhi.
E Sofia, a quel punto, si prese un paio di secondi di ripresa mentre il corpo si tendeva come una corda di lira.
- Bambina, apri gli occhi.
Non poteva essere. Non poteva.
Ma quando Sofia si voltò di scatto, mettendosi a sedere e sbarrando le palpebre, suo padre era esattamente davanti a lei, bellissimo e sorridente come lo ricordava. Gli occhi non erano contornati da rughe, la pelle era liscia, distesa ed il sorriso così ampio che quasi le parve illuminasse il dormitorio buio.
Il padre reggeva una torcia per farsi luce e le era mancato così tanto che il cuore di Sofia si spezzò in mille pezzi.
- Padre! Padre, ma com'è possibile? – domandò, portandosi le mani al volto incredula, allungandole poi verso l'uomo senza avere il coraggio di toccarlo.
Aveva visto Pericle morire davanti ai suoi stessi occhi. Aveva visto lo spartano infilzargli la spada nella schiena. – Ma è un sogno? Come fai ad essere qui?
Il padre sorrise e gli occhi scuri brillarono, esattamente come facevano sempre. – Non sono morto, bambina mia. Sono venuto a portarti via. Ce ne andiamo da qui. È finita. Sei al sicuro adesso.
E Sofia, a quel punto, non riuscì più a trattenere le lacrime. Solitamente era Aspasia quella a cui riservava i momenti in cui si permetteva di crollare ma, davanti al padre che non era mai morto, la tristezza, il dolore e la paura che tanto attentamente aveva nascosto fino a quel momento, vennero fuori in un pianto. Gettò le braccia al collo del padre, seppellendo il volto contro la sua pelle mentre lui la stringeva a sé.
Non aveva il solito profumo. Sapeva di sudore e qualcos'altro di incredibilmente familiare e che, in quel momento, non riuscì a cogliere.
- È tutto vero? Non è un sogno? – gli domandò, smettendo di abbracciarlo solo per potergli prendere il volto tra le mani, osservandolo a lungo.
Non pareva ferito. Anzi, lo trovava incredibilmente meglio del solito.
Il padre scosse la testa senza smettere di sorridere. – No, bambina. Quello spartano mi ha ferito ma non sono morto. Dei guaritori mi hanno aiutato dopo che gli spartani hanno lasciato Atene e quando mi hanno raccontato cosa avessi fatto, ho subito capito ti avrei trovata qui.
Sofia sorrise, ignorando le lacrime che le bagnavano le guance, sorridendo mentre guardava il padre negli occhi. – è stata una benedizione di mia madre, ne sono convinta.
Fu a quel punto che Pericle mise su un'espressione addolorata. – Tua madre è morta, purtroppo. Ma deve aver pregato gli dei perché mi salvassi io.
Sofia corrugò la fronte, scuotendo poi la testa. Parlava di Aspasia? Pericle non aveva mai parlato di lei come se fosse sua madre.
E quel profumo.. lei lo conosceva quel profumo.
Scosse la testa.
No. Quello era suo padre. Era ancora vivo ed era venuto a salvarla. Non c'erano altre spiegazioni. Potevano andarsene via assieme, salvare Atene.
- Andiamo via, adesso – le disse e Sofia annuì, lasciando che il padre potesse continuare a tenerla per mano. Aprì la porta silenziosamente e quando furono finalmente all'esterno, Sofia si guardò attorno. Erano fuori, avvolti dagli alberi e dalle stelle ma non riusciva a respirare l'aria pulita alla quale si era abituata una volta messo piede fuori dal dormitorio. Quella stanza si riempiva dell'odore e del calore corporeo delle schiave ed ogni volta che uscivano da lì, non importava quanto caldo vi fosse, l'esterno sembrava sempre più fresco e profumato.
Fu a quel punto che Sofia si fermò, lasciando andare delicatamente la mano del padre che mosse un altro paio di passi in avanti prima di fermarsi e quando ricominciò a piangere, neanche provò a trattenere le lacrime.
- Tutto bene? Annabeth – la chiamò, mettendo su quell'espressione preoccupata che, per un istante, le rivolgeva sempre quando parlavano di battaglie, sostituendola poi con quella scintilla di orgoglio nello sguardo scuro. – Tutto bene, Annabeth? Cosa succede?
E quando si avvicinò a lei, Sofia lo abbracciò con un solo braccio, piangendo contro la sua pelle che sapeva di sudore e -adesso lo sapeva- cicuta.
- Annabeth.. – mormorò il padre e lei pianse un po' più forte prima di serrare le palpebre e, col coltello che aveva lentamente estratto da sotto al velo, pugnalare il padre in un fianco.
Pericle gridò, spingendola via mentre la sua immagine vacillava davanti agli occhi ormai aperti di Sofia.
Strinse l'elsa del suo coltello tra le mani e Pericle si portò un palmo sopra alla ferita, abbassando la testa. Fu quando la rialzò che il suo volto diventò quello di Nestor e l'esterno del dormitorio, il bagno.
***- Tenetela ferma! – gridò una voce che non conosceva.
- Tenete ferma la puttana!
Eh no, quella la conosceva eccome. Gli aveva piantato la sua spada dritta nel braccio.
Non doveva essere a marcire in infermeria almeno per quella notte?
Prima che potesse reagire però, qualcuno la avvolse con forza tra le braccia e lei lanciò un grido, rifiutandosi di abbandonare la presa sul suo coltello. Colpì chiunque la teste tenendo ferma con una testata e, a giudicare dalla prontezza con la quale la lasciò andare, dovette rompergli qualcosa.
Un uomo, con una maschera scura e deformata in volto, le apparì davanti agli occhi e lei sussultò per la sorpresa quando qualcuno la colpì con un calcio alla schiena talmente tanto forte da farla cadere in avanti.
Chi aveva alle spalle?
Tentò di voltarsi ma chiunque fosse fu più repentino a puntarle un ginocchio sulla schiena, schiacciandola contro al terreno.
- Lasciami andare! – gridò.
- È inutile che urli, stupida – la canzonò la voce ruvida di Pono. – Credi che non siano abituati a sentire tutto questo?
- Dammi le braccia! – ordinò l'uomo che le era piombato davanti con la maschera, tirandola per quello che ancora reggeva il coltello.
Pono le sollevò il chitone e Sofia urlò, agitando le gambe all'impazzata.
- Ma tu guarda – sentì l'uomo sorridere e dovette trattenere un conato di disgusto, intrecciando le gambe. – Aprile le gambe – ordinò poi, forse al ragazzo al quale aveva spaccato il naso. – Nestor, vuoi favorire tu per primo?
Il cuore di Sofia le esplose nel petto, insordendola.
No.
Oh miei dei.
No.
Le lacrime le oscuravano la vista ma quando l'uomo mascherato le tirò il braccio che teneva il coltello, lei lo pugnalò senza pensarci troppo, conficcandogli la lama dritta nell'avambraccio.
Lo vide urlare ma non riuscì a sentirlo e non riuscì neanche a sentire lo schiaffo di Pono, forte abbastanza da girarle il capo, distraendola dal suo coltello che rimase conficcato nel braccio dello spartano.
Pono scivolò più avanti lungo la sua schiena, bloccandola tra le scapole e schiacciandole il capo a terra con una mano.
A quel punto aveva il bacino libero ma scoperto com'era dal chitone e con due mani che provavano a separarle le caviglie per aprile le gambe, la soluzione migliore sarebbe stata tenerle ben chiuse, piuttosto che tentare di liberarsi in qualche modo.
Qualcuno le diede una pacca sul sedere e lei tentò di aprire la bocca il più possibile al fine di recuperare l'aria che le mancava dal petto ed urlare.
Non aveva idea di dove fosse lo spartano pugnalato o di quanto sarebbe stato un problema.
Non aveva neanche idea di quante persone la stessero attaccando.
Non sapeva più niente.
Pono si aggiustò su di lei, accarezzandole la tempia col pollice e quello le provocò più disgusto delle mani che, alle sue spalle, tentavano di aprirle le gambe.
Sentì altre due mani che le allargavano i glutei e tentò di serrare anche quelli, chiudendo le palpebre orribilmente offuscate dalle lacrime.
Forse era Nestor. Forse era il secondo ragazzo che aveva pugnalato.
Voleva solo tornare tra le braccia di suo padre a respirarne il profumo di ulivo e pergamena. Bearsi del suo sorriso e degli occhi rassicuranti.
Non era giusto.
Quante ragazze, come lei, erano state sottratte alla loro famiglia? Quante ragazze erano state spogliate di tutto ciò che erano per il sadico divertimento degli spartani?
Non se ne accorse subito ma erano riusciti ad aprirle la gambe e lei, col volto schiacciato a terra, si accorse di non poter fare nulla.
Assolutamente nulla.
Non aveva dei poteri che avrebbero potuto tirarla fuori da quella situazione. Non aveva armi nascoste.
Non aveva neanche più il suo raziocinio.
L'unica cosa che aveva erano degli spartani che la tenevano bloccata al pavimento con le gambe aperte, impedendole di muoversi completamente.
Qualcuno la toccò. Fu più di una mano a toccarla e lei riuscì solo a rabbrividire dal disgusto.
Forse era un bene non riuscire a sentirli. Magari, sarebbe equivalso a sopportare quel dolore solo per metà.
Si accorse Pono le avesse lasciato la testa solo quando la mano che l'aveva tenuta bloccata, le raggiunse la bocca, accarezzandole le labbra che Sofia teneva aperte nel tentativo di incanalare più aria.
E la sentì, su di lei, la pressione tra i glutei.
Pono le infilò due dita in bocca, muovendole contro il palato ed i denti, spingendole fastidiosamente verso la gola.
Sentì due mani aprirle maggiormente i glutei e la pressione farsi sempre più dolorosa.
Poi una carezza di vento, arrivata da chissà dove, le asciugò le lacrime.
Sofia sbarrò gli occhi prima di mordere le dita Pono con talmente tanta forza che il suo urlo di dolore le squarciò le orecchie.
- Pono! Per tutti gli Inferi! – esclamò una voce sconosciuta dietro di lei.
- Mi sta mordendo! – urlò l'uomo. – Staccatela!
E Sofia, in tutta risposta, serrò la mandibola con ancora più forza.
Pono gridò.
Se avesse voluto colpirla, per la posizione in cui era, avrebbe necessariamente dovuto alzarsi. Erano le dita della mano destra che Sofia mordeva ed il suo volto era girato sulla sinistra.
- Pono, per tutti gli dei! Tienila ferma!
Pono lo mandò al Tartaro senza troppi complimenti, spostandosi più indietro su di lei e tirandola con sé.
La pressione ai glutei scomparve, persino le mani che glieli tenevano aperti.
Stupidamente, col busto sollevato all'indietro, nessuno pensò a tenerle le braccia e Sofia roteò il busto, unendo i pugni per poter colpire Pono al volto, lasciandogli le dita in quell'istante e sputandogli via il sangue dritto in faccia.
L'uomo cadde di lato per la sorpresa e lei fu rapida a scivolare all'indietro, incespicando sul pavimento mentre si alzava. Le gambe cedettero ma lei si gettò sulla porta del dormitorio, impedendosi la caduta.
- Fermatela!
Il fascio di luce dei bagni investì il suo dormitorio quasi completamente ma lei era troppo concentrata a correre per accorgersi se qualche schiava fosse sveglia.
La porta non si poteva chiudere all'interno e quando la spalancò, gettandosi fuori dal dormitorio, ruzzolò sulle ginocchia, scattando in piedi senza sentire dolore.
- No!
Si voltò verso la voce degli spartani, continuando a correre prima di scontrarsi contro un corpo con abbastanza forza da schiantarvisi a terra assieme.
Quando provò ad alzarsi, qualcuno la tenne per un polso.
– Lasciami stare! – gridò, divincolandosi.
- Ma che succede? – Riconobbe la voce di Talia solo dopo. – Bastardi – sibilò e gli occhi si illuminarono di elettricità.
Ancora seduta a terra, la figlia di Zeus aprì una mano davanti a sé e l'aria sfrigolò.
Sofia sentì distintamente i capelli sollevarsi dalla schiena ed attorno al volto, attirati dal potere che evocava Talia.
- Fermatela!
Sofia si voltò. La luce fioca del bagno era abbastanza per illuminare l'uscio ed i due spartani che lo attraversarono poi, un fulmine si scaricò lì, a pochi passi da lei, illuminando il Campo Mezzosangue a giorno ed accecandola.
Il tuono che lo seguì fu talmente forte che il terreno tremò ed il boato le parve in grado di scuoterle tutte le ossa.
Sentì le fronde degli alberi muoversi attorno a lei e poi un braccio gentile le avvolse le spalle.
Ci fu silenzio, un solo istante prima che diverse luci potesse sbucare dagli alberi, seguiti dai semidei del Campo Mezzosangue.
Adesso si che si vedeva tutto bene. Il limitare del bosco, gli alberi attorno a loro, il dormitorio delle schiave, i semidei in tenuta da notte che reggevano le fiaccole ed i corpi carbonizzati di due degli spartani che avevano provato a farle del male.
Un mormorio nervoso si levò dalle fila dei semidei mentre alcune schiave, timidamente, facevano capolino fuori dalla porta, tornando poi velocemente indietro, forse per l'orrore dei cadaveri a pochi passi da loro.
- Forza, Annabeth. Ti tengo io – le promise Talia, stringendosela al petto mentre la aiutava ad alzarsi, continuando a farlo anche quando furono finalmente in piedi.
Sofia dilatò il petto e l'aria le bruciò la pelle.
Non aveva mai respirato l'odore della carne umana bruciata.
- Se per caso, per qualcuno di voi bastardi non fosse stato ancora chiaro fino a questo momento – il petto di Talia vibrò contro al capo di Annabeth mentre le sue parole tuonavano nell'aria. – Questo è esattamente quello che succede quando qualcuno prova a violentare un essere vivente –. Il Campo era nuovamente sprofondato nel silenzio. – Muore fulminato.
Poi, Sofia svenne.
***
Quando aprì gli occhi, l'esplosione di luce dritta sulle pupille la costrinse a serrarli nuovamente, portandovi sopra un braccio per ulteriore protezione. Poi, corrugò la fronte.
Nel dormitorio delle schiave, qualsiasi fosse l'ora, che fosse giorno o notte, c'era sempre buio. Non c'erano finestre. L'unica fonte di luce era il bagno e, eventualmente quando veniva aperta dall'esterno, la porta.
Ma ovunque fosse lei in quel momento, non parevano esserci quelle stesse regole.
Quindi c'erano due opzioni, o era morta e stava aspettando di essere traghettata nell'Ade da Caronte -il che sarebbe stato un problema perché non aveva dracme con cui pagare il pedaggio- o.. respirò più profondamente. Poi lo fece di nuovo, sollevandosi di scatto a sedere, aprendo gli occhi nonostante la luce fortissima.
Lei lo conosceva quel profumo. Era quello del mare.
Si guardò attorno. Delle coperte candide la coprivano fino alla vita e delle leggere tende color corallo attorno a lei, placidamente mosse del vento, fungevano da pareti.
Forse era stato tutto un sogno.
La morte della sua famiglia, il Campo Mezzosangue, Perseo. Forse era stato tutto un sogno e lei era ancora ad Atene. Forse, persino i due anni di epidemia erano stati un sogno e lei e la sua famiglia erano al sicuro, lontani centinaia di leghe da Sparta.
Poi vide il chitone logoro all'altezza della coscia, esattamente dove Pono l'aveva colpita la notte prima durante Caccia alla Bandiera, che lei non aveva avuto il tempo di cambiare e quando si portò una mano alla guancia, la ritrasse subito per il dolore. Pono l'aveva schiaffeggiata, nel tentativo di tenerla ferma mentre lui ed altri spartani.. scosse la testa.
Si passò la lingua sui denti e, ancora, le parve di sentire il sangue dell'uomo mentre lei gli mordeva le dita.
Sarebbe stata disposta a staccargliele a morsi purché la lasciasse andare illesa.
No, non era un sogno anche se avrebbe voluto.
La sua famiglia era morta, lei era stata portata al Campo Mezzosangue, a Sparta, e la notte prima, avevano cercato di violentarla, fino a che lei non era riuscita a scappare e Talia non aveva fulminato due dei suoi aggressori.
Il ginocchio di Pono la schiacciò nuovamente contro il pavimento gelido del bagno e due mani le spalancarono le gambe con forza. Sentì le dita ruvide sulla pelle mentre gliela colpivano, tirandogliela. In quel momento, riuscì a sentirli perfettamente i sospiri eccitati, gli incitamenti a fare in fretta.
Si liberò delle coperte, scattando in piedi col cuore che, nel petto, le batteva all'impazzata. Vi portò una mano sopra, tentando di respirare senza riuscirvi.
Aveva ancora quelle mani sul corpo, sui glutei. Forse ne portava anche i segni.
Corse fuori da quella stanza che le sembrava comunque troppo piccola, colpendo le tende con una mano per scacciarle via.
Aveva bisogno d'aria, aveva bisogno di respirare e corse verso quello che le parve un balcone, passando attraverso due colonne, sbucando su un patio di legno che si apriva sul mare.
Mare?
Sofia spalancò gli occhi, camminando verso la balaustra prima di poggiarvi le mani contro, sporgendosi il più che poté nel tentativo di assicurarsi fosse tutto vero e non fosse improvvisamente impazzita.
Strizzò le palpebre, respirando profondamente e lasciando che il profumo delle onde potesse allargarle piacevolmente il petto.
Vide il sole baluginare sulla superficie piatta del mare ed il verde luminoso che, dolcemente, si infittiva in un blu sempre più scuro mano a mano che si allontanava dallo sguardo.
Il vento le scosse i capelli, accarezzandole la pelle dolorante.
Sul cielo azzurro era evidente che il sole fosse fortissimo ma, mitigato dal vento del mare, Sofia non riuscì proprio a sentirlo.
C'era fresco lì, su quella balaustra che le ricordava casa e che si apriva su quella distesa d'acqua enorme che le strinse il cuore nel petto per l'emozione.
Forse era morta.
Si, era morta.
Pono, alla fine, l'aveva uccisa e lei era già stata giudicata dal tribunale degli Inferi e, per chissà quale divina volontà, era finita nei Campi Elisi.
Era l'unica spiegazione.
- Sono il preferito della dea Iride. È per questo che ho la Casa vista mare.
Sofia non riuscì a spaventarsi.
Forse avrebbe dovuto ma quella voce sapeva di onde.
Le stesse che, incredibilmente, si ritrovava davanti agli occhi. E poi, una parte di lei, quella ancora razionale, sapeva non fosse morta e che una Casa vista mare, in tutta Sparta, poteva averla solo ed esclusivamente una persona.
- Scusami se ti ho portata qui. Dopo ieri sera, ho pensato che un po' di profumo di Atene ti avrebbe fatto bene – disse Perseo, la voce a quel punto più vicina a lei. Abbastanza da farle credere fosse solo ad un paio di passi di distanza.
Sofia provò a prendere un altro respiro. Tentò di dilatare il petto tanto profondamente quanto l'aveva fatto prima e chiuse gli occhi quando Pono la schiacciò nuovamente a terra. Sentì l'odore dell'acqua stagnante, del sudore degli uomini che tentavano di violentarla. Sentì le ossa di Pono premerle contro la pelle e le quattro mani che, ruvide e forti dietro di lei, le spalancavano le gambe ed i glutei.
Tentò di respirare ancora.
Aveva il mare davanti a sé, Perseo dietro.
Avrebbe dovuto sentire solo quello. Il profumo del mare ed il suono delle onde ma sentiva solo sudore e cicuta. Sentiva solo il coltello che penetrava nel fianco di suo padre prima che tornasse ad essere il figlio di Ecate.
L'avevano costretta a pugnalare il suo stesso padre pur di spezzarla. L'avevano spinta a credere fosse lui, che fosse ancora vivo prima di ucciderlo una seconda volta.
E lei era ancora lì, inerme mentre la schiacciavano al suolo e, solo per pura fortuna, non avevano fatto di lei tutto ciò che potevano.
Era ancora lì, nella sua casa ad Atene, mentre il padre veniva pugnalato alle spalle senza neanche la dignità di un combattimento corretto.
Vide Hosios mentre quello spartano gli spaccava la testa e si rivide persino quando conficcava la spada dentro al braccio di Pono.
Era tutto per colpa sua. L'invasione di Atene, la morte di Hosios e quello che le era successo nei bagni la sera prima.
Avrebbe dovuto prevederlo.
Lei era la figlia della dea della saggezza e della strategia militare.
Santippo l'aveva sempre odiata e lei avrebbe dovuto prevedere che, pur di smettere di vivere nascosto nella sua ombra, li avrebbe traditi.
Avrebbe dovuto prevedere che qualcun altro, oltre lei, fosse a conoscenza della storia tra Aphia e Hosios. Sopratutto chi sapeva manipolare la mente con la facilità con la quale lo facevano i figli di Ecate. Soprattutto perché Aphia ed Hosios erano al Campo da due anni. Com'era possibile che nessuno, in tutto quel tempo, non si fosse accorto degli sguardi e delle carezze rubate?
Avrebbe dovuto prevedere che dopo i suoi continui affronti, avrebbero provato a vendicarsi.
E se lei non era stata in grado di prevedere cose così basilari come quelle, con quale presunzione continuava a convincersi che avrebbe potuto liberare gli schiavi del Campo? Che avrebbe potuto trovare il modo per farli fuggire da quel luogo infernale?
Sua madre Atena glielo aveva detto in un sogno anni prima. Tutti i semidei ne avevano uno. Tutti i semidei avevano un difetto fatale che, se non controllato, li avrebbe portati alla rovina.
Ed era stata colpa sua. Solo colpa di Sofia. Perché se fosse stata meno arrogante, meno superba, forse avrebbe ascoltato i consigli di Santippo senza snobbarlo. Forse avrebbe ascoltato gli spartani prima di Caccia alla Bandiera ed ascoltato le loro strategie e, forse, avrebbe impedito il massacro della sua famiglia, la morte di Hosios e non si sarebbe ritrovata inerme, spoglia di tutto ciò che aveva, schiacciata contro al pavimento mentre le aprivano le gambe.
Ecco dove l'avevano portata le sue convinzioni. Ecco dove l'aveva portata la sua superbia, a ritrovarsi schiacciata a terra senza via d'uscita.
Ed era tutta colpa sua.
Lei che voleva salvare tutti.
Sofia, la figlia di Pericle, la figlia di Atena.
A malapena riusciva a proteggere sé stessa.
- Annabeth –. Perseo cercò di richiamare la sua attenzione ma lei non riuscì a voltarsi verso di lui o ad ascoltarlo più del necessario.
Era colpa sua.
Era tutta colpa sua.
Così piccola, inutile ed indifesa.
- Ho recuperato il tuo coltello – le disse, facendolo scivolare verso di lei sulla balaustra in legno del balcone, ma Sofia non riuscì a prenderlo. Anche quello era stato inutile. – Ci sarà un processo a mezzogiorno. Dovresti venire – ma per Sofia furono solo parole a vuoto.
Sembrava così calmo, Perseo.
Come faceva a respirare? Non si sentiva schiacciato anche lui?
Voleva solo andare via.
La casa di Poseidone era un'esplosione di spazi ampi ed aperti. L'aveva visto dalla sua camera, circondata da sole tende e da quell'enorme balcone che si apriva spettacolarmente sul mare.
Ma lei era ancora schiacciata sul pavimento.
Voleva solo tornare ad Atene.
Lì, forse, sarebbe stato più facile respirare. E, sempre forse, ci sarebbero state meno persone alle quali avrebbe potenzialmente potuto rovinare la vita con la sua superbia.
Si era convinta d'essere migliore della madre.
Migliore di una dea.
Stupida.
Stupida, Sofia. Stupida.
Aprì la bocca, tentò di respirare ma parve l'aria non raggiungesse mai i polmoni mentre arpionava la balaustra, conficcando inutilmente le unghie nel legno. Le sfregò sulla superficie, le guardò macchiarsi di sangue senza riuscire a sentire niente se non il ginocchio di Pono sulla schiena ed il petto orribilmente schiacciato contro il pavimento freddo che sapeva di sudore e terrore, il suo.
Provò ad urlare ma non uscì nulla. Neanche un suono oltre a quello del cuore che non batteva forte abbastanza.
Pono la stava schiacciando a terra con troppa forza.
Il freddo le penetrò fin dentro le ossa ma il peso dell'uomo era troppo forte perché riuscisse anche a tremare.
Vide Nestor che, tenendosi un fianco con una mano, sorrideva prima di scomparire dalla sua visuale. Erano le sue le mani che le avevano allargato il glutei mentre Pono le premeva il volto a terra.
Sentì le mani tra le natiche, il sangue del ragazzo scorrerle sulla pelle mentre la toccava ruvidamente senza che lei potesse fare nulla per opporsi.
Le dita di Pono le accarezzarono le labbra prima di infilarlesi in bocca, correndole lungo i denti, il palato e poi spingendosi verso la gola.
Sofia venne scossa da uno spasmo mentre le dita di Pono si infilavano più a fondo nella sua bocca e si tenne alla balaustra mentre, sporgendosi verso l'esterno, vomitava.
- Annabeth!
Perseo le tenne la fronte ed i capelli e lei, mentre vomitava, non ebbe la forza od il tempo di mandarlo via.
Non doveva toccarla.
Non doveva toccarla nessuno.
Venne scossa da un ennesimo spasmo mentre continuava a vomitare e Pono a soffocarla infilandole due dita in gola.
Sentì le mani di Nestor allargarle i glutei, quelle di qualcun altro riuscire finalmente ad aprirle le gambe, lasciandola completamente scoperta ed inerme alla loro vista. Completamente nuda ed in balia dei loro impulsi ed istinti.
Basta.
Vi prego, basta.
L'aveva pensato.
Se lo ricordava, adesso. Aveva anche implorato ma non aveva avuto il coraggio di dirlo.
Basta.
Vi prego, basta.
Sentì la pressione dello spartano contro di lei. Forse, violandola da lì, loro avrebbero avuto più piacere ed il suo dolore sarebbe stato maggiore.
Magari, sarebbe stato quello e piacergli più di qualsiasi altra cosa. Il dolore più grande che avrebbe provato lei.
Lo sentì mentre uno spartano tentava di farsi spazio dentro di lei e Nestor le tirava la pelle con forza per agevolarlo.
Lo sentì mentre imprecava eccitato, esortando lo spartano a sbrigarsi perché voleva vedere. Voleva farlo anche lui.
- No! – si allontanò da Perseo senza riuscire neanche a spingerlo.
Sempre troppo debole. Sempre troppo inerme ed incespicò sulle gambe molli, reggendosi alla balaustra per evitare di cadere.
Ansimò, portandosi le mani tra i capelli nel tentativo di respirare senza riuscirci.
Rantolò, sollevando gli occhi sul volto di Perseo e fece un passo indietro, raddrizzando la schiena.
Quel dolore, quella preoccupazione, lei li aveva già visti sul volto di suo padre mentre lo spartano lo pugnalava alle spalle. E li rivide su Perseo che, inerme, a due passi di distanza da lei, non sapeva cosa fare.
Si portò una mano al petto. Si concentrò sui suoi occhi verdi per evitare di vedere il bagno ed il pavimento freddo ed il sorriso di Nestor prima di andare dietro di lei e tirarle la pelle.
Si concentrò sul suo profumo che sapeva sempre di mare pur di allontanare quello di sudore e paura che, invece, appartenevano a lei.
- Annabeth.. – e bastò un attimo perché quell'espressione contratta dal dolore potesse venir sostituita dalla mascella serrata e gli occhi assottigliati per la furia. – Torno fra poco – disse, prima di scomparire alla sua vista.
Sofia sentì la porta chiudersi pochi secondi dopo e, solo a quel punto, crollò sulle ginocchia, portandosi le mani al volto mentre piangeva.
Non si era soffermata troppo a vagare per la Casa di Perseo.
Non le interessava e, comunque, non aveva tempo.
Aveva cercato del cibo nell'andrion, accanto alla stanza doveva aveva dormito, inutilmente.
Era scontato che Perseo mangiasse con il resto dei semidei ma la sua testa aveva smesso di ragionare come avrebbe voluto da troppo tempo, ormai.
Non si fermò a guardare indietro mentre scendeva velocemente i gradini del cortile, correndo accanto ad una fontana enorme prima di saltare a piè pari i due che la dividevano dalla porta d'ingresso in pesante legno.
Non le interessava.
Non le interessava più nulla. O, forse, l'unico motivo per il quale stava fuggendo a gambe levate era perché le importava troppo e non sapeva come fare per poter essere d'effettivo aiuto. Ma ogni volta che provava a pensarci, si sentiva schiacciata sul pavimento senza via d'uscita.
Sentiva i mormorii eccitati degli spartani, il ginocchio che la premeva a terra, la puzza di sudore, di sangue, di acqua ristagnante.
Sentiva persino la puzza del suo stesso terrore.
Per un attimo, aveva anche gongolato all'idea che Pono potesse temerla. Lei e la sua emancipazione e l'influenza che neanche si era accorta di avere sulle altre schiave. Forse, per poco era stato così ma dopo che Hosios era morto per colpa sua e che era stata schiacciata al pavimento con tutta quella facilità, come mai avrebbe potuto essere la luce di speranza per le altre?
Lei non valeva niente. Non valeva niente lei, la sua parola, le sue idee.
Era tutto sbagliato.
Lei doveva tornare ad Atene. Cercare di salvare il suo popolo da lì o, forse e meglio ancora, non avrebbe dovuto fare proprio un bel nulla.
Sarebbe potuta rimanere ad Atene e far finta che niente fosse accaduto.
Poteva vivere sul molo, assieme ai pescatori, scegliere di non essere la figlia di quella profezia.
Acchiappò i lembi del velo dell'invisibilità con le dita dopo esserselo legato attorno al collo con un nodo, e poi se lo calò sul capo, scomparendo. Il coltello era nascosto sotto il secondo velo ed aprì la porta della casa di Poseidone lentamente, di un minuscolo spiraglio per evitare che qualcuno potesse notarla.
Ignorò il cuore che le batteva nel petto con prepotenza, fino alle orecchie, e prese un respiro prima di iniziare a correre il più velocemente possibile.
Non c'erano troppi semidei nel rettangolo delle Case ma era certa che, una volta uscita da lì, ne avrebbe incontrati decisamente di più.
Li sentiva mentre si allenavano, mentre le spade di legno cozzavano tra di loro o mentre le frecce si conficcavano nell'obbiettivo, abbandonando gli archi con un sibilo.
Sentiva le incitazioni degli allenamenti, gli sbuffi per la fatica ed iniziò a correre un po' più velocemente, sperando che i calzari sul terreno non attirassero l'attenzione di nessuno, neanche delle ninfe lì vicino.
Corse, superando la Casa Grande e due semidei che camminavano lì vicino in quel momento.
Le parve di vedere, sul portico, Chirone ma era troppo rapida perché i suoi occhi riuscissero a mettere a fuoco quella macchia scura ed indistinta.
Corse lungo il pendio della Collina Mezzosangue, cercando di raggiungerne la cima il più in fretta possibile.
Scivolò sul prato con i calzari, arpionando la terra con le unghie per potersi rialzare velocemente e poi, arrivò al pino sulla cima della Collina, accanto al drago Peleo che, placido, dormiva sotto alle sue fronde.
Ferma a qualche passo da lui, il drago sollevò il capo, annusando poi l'aria con attenzione.
Non poteva vederla ma era ovvio potesse sentirla.
Sofia poteva vedere la barriera dei figli di Ecate in controluce, esattamente davanti a lei. Serviva a tenere fuori dal confine del Campo i mostri, dentro i confini del Campo gli schiavi, i mortali.
Peleo abbassò l'enorme muso, puntandole le pupille verticali addosso. Le parve anche che, sotto alla luce, scintillassero. Non la vedeva ma la sentiva e quando, in un verso gutturale, strisciò una delle enormi zampe posteriori sull'erba, sbuffando fumo dalle narici, Sofia strinse i pugni.
Lei però non era né una schiava né una mortale.
Era una semidea.
Attraversò la barriera mentre iniziava a correre giù, lungo la Collina Mezzosangue, nel tentativo di lasciarsi il più lontano possibile il Campo una volta per tutte. Corse così velocemente che, forse, il velo le scivolò via dal capo ma non riuscì a preoccuparsene mentre si infilava nel bosco che limitava il sentiero principale.
Con i cavalli ci avevano messo ore dal porto di Giteo.
Lei avrebbe dovuto cercare di metterci lo stesso tempo.
Ignorò le gambe che pulsavano per lo sforzo od il fiato corto.
Continuò a correre tra gli alberi.
Ignorò i rami che le graffiavano le braccia e le gambe nude fino a che non inciampò, forse su una radice scoperta, ruzzolando brutalmente sul terreno.
Non ebbe idea per quanto tempo rotolò a terra, portandosi istintivamente le mani attorno al volto per proteggersi almeno gli occhi ma si fermò, schiantandosi con la schiena contro al tronco di albero. L'impatto le mozzò il fiato e lei annaspò, portandosi una mano sul petto nel tentativo di riuscire a respirare ancora.
Si sdraiò con la schiena sul terreno duro, osservando le fronde degli alberi rigogliosi che la proteggevano dal sole e dagli spartani e poi si toccò il volto, osservandosi le mani una volta che se le portò davanti agli occhi .Erano piene di graffi ed aveva le dita insanguinate.
Forse era stata la caduta o forse tutti i rami dai quali aveva cercato di proteggersi mentre correva.
Mosse piano le gambe. Se le sentiva ancora.
Inarcò la schiena, prendendo più aria possibile prima di espirare, rendendosi conto ne fosse ancora capace.
Andava tutto bene.
Era fuggita via.
Non aveva idea di quanto avesse corso o di quanto lontana fosse dal Campo però non sentiva più nulla.
Era avvolta dal silenzio del bosco e sorrise, sollevando la schiena e poggiandola all'albero dietro di lei.
Per la prima volta da quella notte, nessuno la schiacciò più a terra.
Angolo Autrice:
Ciao bambini miei!
Oggi sto aggiornando non solo ad un orario decente ma anche di domenica. La verità è che ho preso wattpad come scusa per smettere di studiare e, una volta pubblicato qui, sono pronta a vestirmi per andare a trovare la mia bellissima nonnina, il che mi rende particolarmente felice.
Spero tanto voi stiate bene. Come procede questo periodo?
Tornando al capitolo, è la sera stessa ed il mattino dopo la disastrosa Caccia alla Bandiera. Percy aggrotta le sopracciglia in modo buffo (tributo umile allo Scontro Finale, ovviamente ma chi è con lo aveva notato, suvvia) e Pono ed altri spartani tentano di vendicarsi di Annabeth nel modo peggiore possibile, prima giocando con la vita del padre e poi con la sua.
Quel pezzo è davvero duro ed è per quello che ho messo l'avviso.
La Cicuta è la pianta sacra ad Ecate ed è per questo che Annabeth la sente sul padre (che poi era Nestor) e le risulta stranamente familiare anche se non capisce subito.
L'episodio la butta nuovamente giù. Aldilà dell'età, Annabeth è comunque un essere umano e sfido chiunque a non lasciarsi condizionare da un evento simile come quello che vive lei. Si sente inutile e non in grado di poter proteggere gli schiavi come si era promessa anzi, per colpa sua (ciò che pensa lei), uno è anche morto e chissà cos'altro bolle in pentola, giusto?
Spero tanto che il capitolo, per quanto duro, vi sia piaciuto.
Io vi voglio tanto bene e spero stiate il meglio possibile ed al sicuro.
Un bacio,
Eli:)
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