Crollo (Parte 1)

Quando Sofia si svegliò, si portò un braccio sul viso, tentando di regolarizzare il respiro.

Aveva sognato le arai o meglio, non aveva sognato loro ma il dolore che le avevano provocato. Si toccò il petto con la mano libera, con quella che non era impegnata a coprirle gli occhi, sospirando per il cuore che le batteva all'impazzata.

Era quel dolore che aveva sognato, quello Kyros che, tra tutti i dolori che le avevano inferto quei mostri, era stato il peggiore.

Possibile che non si fosse mai accorta di nulla? Che non si fosse mai accorta, in tutti quegli anni,dell'amore così diverso dal proprio che il ragazzo nutriva nei suoi confronti? Lei c'era cresciuta assieme.

Era convinta di conoscere Kyros. Si vantava di conoscerne i pensieri persino prima che potesse formularli ma la verità era che aveva passato una vita con qualcuno senza conoscere neanche la metà di lui.

Kyros.

Sorrise mentre il suo volto, con i capelli che si confondevano con la sabbia e gli occhi furbi, le apparivano nella mente e poi prese un respiro. Lei non gli aveva mai chiesto di proteggerla e quell'enorme, enorme idiota, l'aveva fatto comunque.

Quando una lacrima le corse lungo lo zigomo, finendole nell'orecchio, la asciugò velocemente,abbandonando il braccio lungo al corpo e voltando il capo.

Daphne era addormentata accanto a lei nel letto, raggomitolata su sé stessa. Aveva preso la maggior parte del materasso, relegando Sofia ad una porzione ridicola sulla quale sdraiarsi ma quando la guardò, col viso libero dalla maschera di dolore e terrore del giorno prima, sorrise, scostandole una ciocca di capelli scuri via dalla fronte.

Era stata Daphne a chiederle di dormire nello stesso letto e Sofia non aveva fatto domande, si era limitata ad aprire le braccia e accoglierla contro di sé. Daphne aveva pianto silenziosamente fino a che non si era addormentata, stremata e Sofia aveva tenuto gli occhi sbarrati mentre la abbracciava, con il petto che si riempiva di una furia sempre più cieca.

Se non fosse stato per Percy, la sera prima, non aveva idea di cosa avrebbero fatto a Daphne od alle altre ragazze. Od a lei.

Strinse i pugni al pensiero,sollevandosi di scatto a sedere quando un ginocchio le premette sulla schiena, schiacciandola al pavimento mentre due mani le allargavano il sedere ed altre tentavano di separarle le caviglie che teneva strenuamente incrociate.

Sentì il disgusto risalirle lungo la gola e si alzò di scatto dal letto, portandosi le mani sulla nuca mentre camminava nella cella troppo piccola, tra i due letti.Respirò, tentando di ignorare il cuore che le batteva nelle orecchie e le mani che le lasciavano segni invisibili sul corpo.

Si portò una mano al petto, puntandogli occhi sulle sbarre della sua cella. Non aveva idea di che momento fosse della giornata. Sapeva soltanto che lo stretto corridoio che la separava dal mondo esterno, fosse fiocamente illuminato dalla luce che entrava dalla porta principale.

Era in una cella ma era a Roma, lontana da quelle persone che avevano tentato di farle del male.

Chissà quante altre ce ne saranno qui, disse un'arai nella sua testa.

Sofia strinse i pugni con forza,portandosi una mano al petto mentre la stanza incominciava a girare attorno a lei, ed il cuore prendeva a batterle all'impazzata nelle orecchie. Ansimò, strinse ancora di più i pugni nella speranza di sentire quel dolore, di smetterla di concentrarsi sulla voce delle arai che ancora le tuonava nella testa o delle mani che, ruvide, le graffiavano dolorosamente il corpo senza che lei riuscisse a scacciarle via.

- Annabeth – sibilò una voce e quando si voltò di scatto verso le sbarre, il cuore saltò un battito prima di regolarizzarsi con inaspettata facilità.

Le orecchie si liberarono del battito impazzito e lei aprì i pugni, respirando il profumo di mare a pieni polmoni, osservandone le sfumature verdi mentre si avvicinava alle sbarre in due veloci falcate, senza riuscire a trattenersi, quasi fosse una forza che valicava la propria ad attrarla verso il figlio di Poseidone e gli occhi che sapevano di onde.

Gli toccò le dita con le quali Percy stringeva le sbarre, aprendovi i palmi sopra e rabbrividì mentre lo guardava negli occhi. Un insetto chiuso nell'ambra, ecco cos'era diventata. A crogiolarvisi all'interno convinta di poterne uscire a suo piacimento, senza neanche rendersi conto che, a quel punto, non avesse più una scelta.

- Percy – esclamò, sforzandosi di trattenere un sorriso. – Che ore sono?

Il ragazzo sorrise, muovendo le dita contro la sua pelle quasi impercettibilmente, strappandole un fremito. – Appena l'alba. Stai bene? – la osservò con più attenzione, con gli occhi che si fecero più attenti mentre la guardava in volto, lanciando uno sguardo alle sue spalle.

Sofia seguì la sua direzione, osservando Daphne per qualche secondo che, raggomitolata su sé stessa, continuava a dormire.

- Lei come sta? – domandò Percy senza smettere di sussurrare per evitare di svegliarla.

Sofia si concesse qualche altro istante per guardarla, voltandosi poi verso di lui. – è crollata dal sonno non appena abbiamo poggiato la testa sul cuscino – mentì. – Tu stai bene? – chiese e Percy le sorrise, scoprendo i denti con una sfumatura incredibilmente dolce ad illuminargli ancora di più lo sguardo.

- Si che sto bene e, guarda – disse, facendo scomparire una mano dietro la schiena prima di riportarla davanti ai suoi occhi, stringendo un mazzo di chiavi.

Sofia sbarrò gli occhi, allontanandosi di un passo dalle sbarre mentre Percy faceva scattare velocemente la serratura, tirando la porta verso di lui. – Perché? – domandò Sofia, osservandolo incredula sul ciglio della cella che il figlio di Poseidone aveva appena aperto per lei.

- Perché sta per spuntare il sole e da quassù c'è una vista pazzesca. In più ti ho portato la colazione – disse con un sorriso, recuperando da terra una fetta di pane ricoperta di miele ed una ciotola che profuma d'orzo.

Sofia non riuscì a trattenersi. Sorrise mentre faceva un passo in avanti, colmando la distanza che li separava e prendendogli il cibo dalle mani delicatamente. Tenne l'orzo ma si avvicinò lentamente al letto di Daphne, lasciandole accanto, sul cuscino, il pane ricoperto di miele.

Il volto era rilassato anche se aveva ancora i segni delle lacrime della sera prima. Sperò stesse almeno facendo bei sogni.

Percy chiuse la porta alle sue spalle quando Sofia lo raggiunse, senza preoccuparsi di dare una mandata di chiavi e lasciandole, addirittura, a terra lì vicino. – Visto che lo sapevo che il cibo non l'avresti tenuto – disse, inchinandosi prima di ritornare al suo fianco. – Ho portato un'altra fetta di pane con miele. Non hai più scuse – disse, porgendole la sua colazione con un sorriso furbo e gli occhi luminosi e quel gesto -per gli dei- riuscì a persino a rubarle un sorriso.

Si portò velocemente la mano libera davanti alla bocca, girando il volto e celandolo alla vista di Percy che ovviamente l'aveva vista comunque e sorrise mentre continuavano a camminare lungo il piccolo corridoio verso l'uscita che raggiunsero dopo pochi attimi.

Sofia sbatté le palpebre, abituandosi alla luce del sole che, seppur tenue, era ancora troppo forte per i suoi occhi abituati al buio della cella. – Tu hai mangiato? – domandò, voltandosi verso Percy che, con un'espressione contrariata, le porse aggressivamente il pane ricoperto di miele.

- Si – poi scoppiò a ridere. – Miei dei, Annabeth! Mangia, andiamo! – la incalzò, costringendola a trattenere l'ennesimo sorriso mentre lei prendeva il pane con la mano libera, scoprendolo ancora caldo, addentandolo.

Chiuse gli occhi senza riuscire a trattenere un gemito di piacere per la bontà del cibo offertale, sbarrando poi gli occhi. – Ma.. ma come..

Percy rise, scuotendo la testa. Gli occhi scintillarono sotto la luce del sole. – Ancora devo capirlo come facciano i romani a produrre del pane e degli miele così incredibilmente buoni. Ancora devo capirlo.

Quando iniziò a camminare, Sofia lo seguì senza smettere di gustarsi il pane. Il profumo del miele era talmente intenso che quasi non sentì quello di alloro ed ulivo di Roma che iniziava a svegliarsi, o quello di mare che accompagnava sempre Percy.

Il retro delle celle dava su una siepe alta abbastanza perché l'unica cosa che Sofia riuscisse a vedere oltre di lei, fosse il cielo, ma sembrava che l'intenzione di Percy fosse quella di fare il giro dello stabile per portarla chissà dove. Quel pane, per quanto la riguardava, era buono abbastanza che avrebbe anche potuto portarla a morire e lei non si sarebbe neanche lamentata. Come ultimo pasto, non avrebbe potuto avere niente di meglio.

Poi scosse la testa, ingollando l'ennesimo morso della sua colazione. Doveva prestare attenzione. Andiamo Annabeth, concentrati e fu a quel punto che si fermò di scatto, rafforzando la presa attorno al pane ed alla ciotola con l'orzo, per evitare che potessero caderle a terra.

Lei era Sofia. Sofia.

Era ateniese. Era figlia di Pericle e della dea Atena ma era stata deportata a Sparta.

Sofia.

Lei era Sofia, non Annabeth.

- Annabeth? – la chiamò Percy a qualche passo di distanza da lei, guardandola con la fronte corrugata in confusione. – Tutto bene? – domandò e Sofia lo osservò, stringendo con forza la sua colazione nel tentativo di tornare alla realtà che le era stata tolta via di dosso con quella facilità.

Le sorrise e Sofia raddrizzò le spalle, sollevando il mento.

Non importava quanto Percy sarebbe stato gentile con lei. Non importava di quante colazioni o quanti sorrisi Perseo avrebbe potuto regalarle. Era un capo spartano e lei era una delle sue schiave e così sarebbe stato. Loro erano nemici e lei era in costante pericolo, in balia di eventi che non avrebbe potuto controllare facilmente.

Finché lui sarebbe stato uno spartano figlio di Poseidone e lei un'ateniese figlia di Atena, loro sarebbero stati nemici. Era dagli inizi della loro stessa storia che ne era stata stabilita la loro rivalità.

Loro erano nemici da quando Atena e Poseidone si erano contesi Atene da prima che la città ne prendesse il nome, da quando sua madre aveva maledetto Medusa. Erano stati alleati durante la guerra di Troia, tornando rivali quando Poseidone aveva maledetto Ulisse e sua madre aveva invece deciso di aiutarlo.

- Annabeth? – la richiamò Percy -Perseo- avvicinandosi a lei di un solo passo. – Tutto bene?

Sofia lo guardò per un istante in più prima di annuire, raggiungendolo con lo stomaco ormai chiuso e quel pane col miele, che aveva trovato delizioso fino a pochi secondi prima, ormai dimentico tra le sue dita.

Percy -Perseo- le sorrise e lo stomaco -infame- brontolò con prepotenza. – Oggi ti regalo Roma – le disse, voltandosi poi verso destra, spingendola istintivamente a fare lo stesso.

Sofia sbarrò gli occhi e la bocca, poggiando a terra la colazione perché sapeva, lo sapeva perfettamente che le sarebbe caduta.

I colori tenui del cielo si aprivano sulla Città Eterna, sfiorandola delicatamente mentre Roma, sotto ai raggi del sole, pareva splendere di luce propria. Dal colle di Villa Quincia, Roma si spiegava immensa davanti ai suoi stessi occhi, così grande che se provava a spingere lo sguardo il più lontano possibile, Roma continuava ad esistere con la sua incredibile bellezza. Riusciva a vedere il colonnato del Foro Traiano ed il maestoso profilo del Tempo della Pace che, candido, si innalzava sopra tutti gli altri. Più avanti, vide persino la curva imponente del Circo Massimo ed i tetti bianchi di case, di innumerevoli templi e di infinite colonne che si ergevano verso al cielo e sotto ai primi raggi del sole.

Roma la avvolse. La avvolse con una potenza diversa da quella con la quale era solita avvolgerla il mare. Il mare era un abbraccio caldo e confortevole come quello di Aspasia quando, da bambina, i ragni le salivano sul letto, facendole paura. Nella sua naturale bellezza, il mare le ricordava che davanti a lui fossero tutti più piccoli, persino lei ed i suoi problemi e quella consapevolezza le aveva sempre regolarizzato i battiti del cuore mentre ne osservava la superficie, inebriandosi del suo profumo e del suono delle onde che si infrangevano sulla battigia.

Ma Roma. Roma era un pugno dritto allo stomaco, a ricordarle che tutto quello al quale aspirava, tutto quello che avrebbe sempre voluto per Atene, Roma lo aveva già e persino più bello.

Persino il suo hybris era messo a tacere davanti alla potenza di Roma che era lì, eterna e bellissima, come monito di tutto ciò in cui credeva e di tutto ciò per cui lottava.

Roma era un'esplosione d'architettura che non aveva bisogno del sole per brillare ed immersa tra il profumo di alloro ed ulivo ed il canto dei primi uccelli, era semplicemente immensa, enorme e lei non aveva neanche il tempo di preoccuparsi di come si sentisse perché poteva solo guardare mentre tutto il resto attorno a lei, si fermava. Perché Roma era lì davanti a lei, per lei, a brillare di luce propria e Sofia non provava più niente se non un incredibile calore al petto al quale non era più abituata.

Sofia non provava più niente se non un'assurda, incomprensibile ed inaspettata felicità.

- Issione – disse, continuando a guardare Roma davanti a lei. – Era il re dei Lapiti. Alcuni aedi dicono persino fosse un figlio di Ares. Quando sposò Dia, la figlia di Deioneo, durante i festeggiamenti del suo matrimonio, invece di onorare il rito del dono, fece scavare una fossa davanti alle mura della sua casa che poi riempì con rovi e carboni ardenti, gettandoci dentro Deioneo. – Solitamente, Percy era parte integrante dei suoi racconti. Sofia era abituata ad essere interrotta spesso, a dover farsi strada tra i suoi commenti e le esclamazioni di sorpresa od indignazione mentre lei raccontava qualcosa ma in quel momento, nonostante lei si aspettasse di sentirlo parlare, Percy non disse nulla. – Normalmente, gli dei l'avrebbero punito. Il rito dei doni è fondamentale, importante quanto quello di accogliere un viandante quando chiede aiuto alla tua porta di casa per cui, Deioneo avrebbe dovuto ricevere una punizione esemplare ma Zeus, forse perché un po' ci si rivide nell'errore di Deioneo, decise di perdonarlo, concedendogli la purificazione ed invitandolo a banchettare sull'Olimpo. – Seguì il percorso di un uccello che sorvolò su Roma ad ali spiegate, strappandole un sorriso. – Issione però, fece un altro errore. Convinto che Era volesse vendicarsi per tutti i tradimenti subiti da Zeus, tentò di corteggiarla davanti al padre degli dei, scatenandone la furia. Zeus tramutò una nuvola, Nefene, in modo che potesse prendere le somiglianze di Era ed Issione, troppo ubriaco per accorgersi della differenza, corteggiò lei. – Si portò una mano allo stomaco, sfiorando con le dita il profilo del suo coltello sotto al velo. – Zeus li colse in flagrante e, a quel punto, decise finalmente di punire Issione. Lo consegnò al dio Ermes perché lo torturasse fino a fargli a dire "I benefattori devono essere onorati" ma quello non fu abbastanza per Zeus, che lo legò ad una ruota infuocata, fatta di serpenti, costringendolo a rotolare nel cielo per l'eternità. – Istintivamente, sollevò gli occhi verso il cielo limpido, colorato dalle prime luci dell'alba che, lentamente, lasciavano posto alla luce del giorno. –Si racconta che solo una volta la ruota di Issione si sia arrestata, quando Orfeo ha suonato il suo flauto per aprire le porte degli Inferi ed andare a riprendersi la sua Euridice. Per una sola volta in tutta l'eternità, Issione ha smesso di soffrire grazie alla musica –. Non smise di guardare Roma ed il suo cielo, non smise di ascoltarne il canto o di sentirne il profumo perché, davanti alla Città Eterna, lei era sorprendentemente felice. – C'è chi crede che dentro ognuno di noi ci sia una ruota di Issione, che gira a ritmo del nostro dolore, della nostra paura – Sorrise. – Oggi si è arrestata la mia – disse, prima di poter valutare il peso delle sue parole, lasciando che le sfuggissero dalle labbra con la stessa leggerezza degli uccelli che solcavano il cielo di Roma.

Percy non rispose al suo fianco ma, con la coda dell'occhio, Sofia lo vide sorridere.

***

Sofia aveva passato anni a studiare le mappe e le planimetrie del Circo Massimo che suo padre le portava dopo ogni viaggio a Roma.

Accoccolata sotto alla stata di sua madre nel Partenone, sulla spiaggia con Kyros e Paralo che giocavano tra le onde o raggomitolata tra le coperte del letto nella sua stanza, alla luce di una torcia, Sofia passava ore intere a studiare l'architettura del Circo Massimo, gli sviluppi che aveva avuto nel corso dei secoli.

Si era anche fatta raccontare dai suoi zii, le storie degli imperatori romani che avevano ordinato la costruzione del più grande Circo al mondo, teatro dei giochi in onore degli dei o delle varie vittorie dell'esercito romano.

Aveva passato anni ad immaginarsi come sarebbe stato stare ai piedi della struttura architettonica più grande del mondo e, persino dopo un viaggio dentro una quadriga troppo piccola e che l'aveva costretta a stare accovacciata su sé stessa, tenendosi ad una maniglia per non cadere durante il viaggio da Villa Quincia a lì, una volta che fu davanti al Circo Massimo, si dimenticò persino del dolore alle ginocchia.

Aveva passato anni ad immaginarsi i colori della facciata della struttura e le tre file di archi che la componevano. Aveva passato anni ad immaginarsi l'impatto che avrebbe avuto trovarsi davanti a una costruzione tanto immensa quando quella del Circo Massimo ma mai, mai nella sua vita avrebbe potuto immaginare un impatto così forte.

Il Circo Massimo si ergeva con prepotenza, arroganza ed infinita bellezza contro al cielo azzurro di Roma, allungandosi fino alla sponda del Tevere che, se Sofia tentava di spingervi contro lo sguardo, non riusciva neanche a vedere.

Il Circo Massimo era circondato da un filare di alberi sul lato ovest, ponendosi quasi a conclusione del percorso intervallato di taberne e templi dei Fori Imperiali dal lato est.

Il Circo Massimo era nel cuore pulsante di Roma, teatro dell'incredibile viavai di persone che gli passeggiava attorno o vi entrava per poter assistere ai giochi che si sarebbero tenuti lì a breve. Perché in quel momento, Roma era un caos di urla in latino, carri che sfrecciavano velocissimi sui lastricati, pegasi che atterravano in mezzo alle strade con centurioni perfettamente bardati e commercianti che, con le botteghe che davano sull'esterno, ma che erano parte integrante della struttura del Circo Massimo, strillavano i prezzi e ciò che vendevano.

Con gli occhi sbarrati, minuscola davanti alla magnificenza del Circo Massimo, Sofia era immobile nel cuore di Roma, senza riuscire a fare altro se non lasciarsi travolgere dalla grandezza di ciò che aveva difronte.

- Annabeth..

- Lo sai che il Circo Massimo è lungo seicento metri e largo centoquaranta? Ed inizialmente, l'euripo – disse, indicando col dito un punto indefinito davanti al Circo Massimo che proseguiva fino al Tevere, – era un canale che circondava l'intera struttura e che è poi stato tolto per realizzare un'altra cavea e quindi una fila in più di spalti. Dentro il Circo, nel suo centro esatto, dovrebbe esserci anche una spina che mio padre mi ha detto essere decorata non solo da templi, ma anche da un obelisco arrivato direttamente dall'Egitto – continuò a raccontare, spingendo lo sguardo verso la facciata del Circo come se potesse andare oltre le mura solo così, catapultandosi direttamente davanti alla spina che stava descrivendo. – E poi, nella spina, ci sono anche sette delfini da cui sgorga acqua e che sono usati per contare i giri della corsa delle bighe. Li hai mai notati? – disse, voltandosi di scatto verso Percy solo in quel momento che, non solo la guardava, ma sorrideva anche. – Dentro, la grandezza deve essere ancora più spettacolare. Chissà come ci si deve sentire a stare al centro del Circo. Addirittura a corrervi! – esclamò, voltandosi nuovamente verso la facciata del Circo prima di indicarla con un dito. – Poi, vedi? La facciata ha solo tre ordini, quello inferiore ha altezza doppia e le arcate. L'ultimo ordine, no. Guarda – disse, sollevando il dito verso l'ultima parte della facciata del Circo Massimo.

Poi si prese altri secondi ancora per poter osservare lo spettacolo davanti a sè prima di scuotere il capo, voltandosi verso Percy. – Scusa. Cosa c'è? – gli domandò, col cuore talmente gonfio che a malapena riusciva a trattenersi dal sorridere.

Percy aprì la bocca per rispondere ma Giasone, a qualche passo da loro, attirò l'attenzione su di lui. – Grecus! – disse, con una scintilla canzonatoria nello sguardo azzurro. – Dobbiamo andare!

Percy mosse il capo nella sua direzione una sola volta, un attimo prima che Giasone, seguito dai due soldati del Campo Mezzosangue e Regina, la ragazza che Sofia aveva conosciuto il giorno prima, potessero muoversi.

- Dentro sarà ancora più bello – le disse Percy, spingendola a distogliere lo sguardo da Regina che, a quel punto, era ormai sparita tra la folla di romani che si accalcava all'entrata del Circo Massimo.

Poi si incamminarono per poter raggiungere gli altri.

Sofia si aspettava che, in quanto pretore, Percy avesse una corsia preferenziale rispetto a quella incredibilmente intasata del popolo ma, mentre camminavano, evitando commercianti od altri membri di una futura folla urlante ed assetata di gare, Sofia osservò l'incredibile numero di centurioni che pattugliavano i confini del Circo Massimo.

Alcuni erano stati fortunati abbastanza da esser protetti dall'ombra proiettata dalla struttura ma altri invece, sotto quella che doveva essere un'armatura pesantissima, erano costretti sotto al sole.

In varie esclamazioni di avvertimento e sorpresa, una portantina trainata da quattro pegasi atterrò vicino alla fila all'ingresso e, in un solo istante, una decina di centurioni, in un gran clangore di armi che superarono persino il vociare di Roma, si affrettarono a circondarla. Nell'accorrere verso il patrizio, un centurione urtò uno degli ultimi uomini urlanti che facevano la fila. Sofia lo vide muoversi a malapena con la coda dell'occhio ma quello fu abbastanza perché quello che doveva essere un amico al suo fianco, potesse esprimere il suo disappunto. – Non l'hai visto per caso?! – ringhiò, spingendo il soldato a bloccarsi ad un passo dal formare la protezione perfetta per il patrizio dentro la portantina. L'uomo si mosse in avanti, avvicinandosi al centurione in un unico movimento che, a quel punto, si era fermato e voltato verso di lui.

Sotto l'elmo piumato, Sofia non riuscì a leggerne l'espressione.

- Non l'hai visto per caso? – domandò l'uomo ancora una volta. – C'era una persona davanti a te e tu per poco non la lanci a terra.

Una delle prime cose che Sofia aveva notato, una volta essere arrivata a Roma, era il caos che pareva contraddistinguerla. Persino in un giorno normale come quello prima, Roma era il cuore pulsante della caoticità.

Lei e Percy erano ad almeno cinque metri dall'ingresso principale ed ancora più lontani dalla fine della fila e dallo scontro che stava per nascere tra un centurione ed un popolano eppure, Sofia era stata in grado di sentire tutto perfettamente.

Fu solo a quel punto che se ne accorse. Il caos di Roma si era, quasi e paradossalmente, acquietato.

La fila di uomini urlanti era quasi interamente rivolta verso il popolano ed il centurione e persino il resto della gente che passava nei paraggi, si era fermata od aveva iniziato a camminare più lentamente mentre osservava la scena.

Un commerciante, dietro al bancone della bottega accanto al quale erano lei e Percy, si era fermato con un sacchetto di spezie a mezz'aria tra lui e la ninfa col vestito colorato alla quale lo stava dando.

Erano tutti fermi, i centurioni, la plebe, i carri che avevano solcato il lastricato fino a quel momento. Persino i respiri sembravano essersi arrestati, in perfetta sincronia col mondo improvvisamente immobile.

Sofia si portò una mano sullo stomaco, sfiorando con le dita la lama del suo coltello.

Persino il vento aveva smesso di soffiare.

Percy, al suo fianco, imprecò, iniziando a muovere il primo passo in avanti mentre lei infilava la mano sotto al velo attorno alla vita, acchiappando il coltello.

Sofia conosceva quel momento, l'istante prima che scoppiasse il caos, quando c'era talmente silenzio che, alle volte, le era parso persino di sentire il sangue scorrerle sotto la pelle.

Era la staticità prima di uno scontro.

- Che succede qui? – tuonò una voce che Sofia non conosceva. Come se qualcuno avesse ripreso a muovere i fili, Roma riprese il suo normale corso.

Il bottegaio diede le spezie alla ninfa, il vento riprese a scorrere, il popolo a camminare.

Sofia individuò il capo scuro dello stesso centurione che, la sera prima, aveva portato via Daphne dalle grinfie dei romani lussuriosi. Se lo ricordava bene perché, prima di decidere non ci fosse niente da temere, ci aveva messo più tempo del previsto.

Non era stato facile trovare una logica al volto gentile, quasi bambinesco con la stazza così imponente del corpo avvolto da una toga.

Sofia infilò il coltello sotto la cintura, sciogliendo i muscoli che si accorse solo in quel momento di aver teso, guardandosi attorno.

Quel centurione aveva spezzato il momento prima della scontro ma lo sguardo furioso del bottegaio od il gesto di scongiuro di una donna che passava lì vicino, Sofia li notò ugualmente.

Non aveva spezzato il momento, aveva solo fatto un nodo, comunque troppo piccolo e precario perché qualcuno non potesse nuovamente scioglierlo.

- Franco! – lo chiamò Percy ed il ragazzo spostò lo sguardo su di lui, abbozzando un piccolo sorriso prima di sollevare un pollice in alto nella sua direzione.

Quel ragazzo non pareva ricoprire un grado diverso da quello del resto dei soldati attorno al Circo Massimo, ma si ricordava delle due lance incrociate sull'avambraccio che simboleggiavano la sua eredità come figlio di Marte. Non era improbabile che fosse quello a garantirgli tanta autorità e rispetto davanti agli altri.

- Andiamo – disse Percy, attirando l'attenzione di Sofia su di lui che lo seguì oltre una porta a malapena visibile dietro un'arcata, piombando poi nella semi-oscurità di una cavea.

Le torce, appese alle pareti di pietra, erano abbastanza per illuminare l'ambiente ed il viavai di persone che si apprestavano a salire sugli spati.

Le urla eccitate degli spettatori le arrivavano chiaramente anche da lì, mentre altri corridoi che si aprivano evidentemente verso il centro del Circo, non solo lasciavano filtrare la luce naturale ma le permisero anche di vedere uno scorcio di pubblico e sabbia dorata.

Non riuscì a trattenere né il sorriso che le stirò le labbra né il sospiro di fascinazione mentre ascoltava le voci della peble romana e le urla.

Gareggiare al centro del Circo doveva essere un'emozione incredibile e riuscire persino a vincere, davanti a quella folla che avrebbe poi urlato il suo nome, aveva dell'incredibile. Persino per lei, che non era abituata a farsi vedere, quell'idea le solleticava lo stomaco e la testa. Si ricordava di quanto fosse stato bello a Micene, di quanto fosse stato forte l'impatto della folla che inneggiava il suo nome dopo che lei e Percy avevano sconfitto il drakon. E quella folla, composta dalla plebe romana, era decisamente più imponente di quella micenea.

Mosse naturalmente un passo in avanti, verso il corridoio che l'avrebbe portata all'esterno e Percy, al suo fianco, rise. – Siamo nella tribuna assieme all'imperatore –. Sofia si voltò di scatto verso di lui, gli occhi aperti in fascinazione. – Avrai una vista perfetta – le assicurò.

- Perseo!

Una voce superò persino i passi concitati e le urla delle plebe che si affrettava ad andare sugli spalti e che già era all'esterno, spingendo lei e Percy a fermarsi. Nella cavea poi apparve Regina.

Sofia sollevò il mento nella sua direzione, raddrizzando le spalle mentre la guardava. Poteva leggere la tensione nelle spalle nonostante gli strati di toga che la proteggevano.

Non piaceva a Regina. Neanche un po'.

- Le schiave devono andare nelle celle.

Sofia corrugò la fronte senza osare voltarsi verso Percy nella speranza di avere qualche risposta in più.

- Che cosa?! – esclamò il ragazzo al suo fianco. – Perché?

Regina sollevò le sopracciglia, facendo saettare lo sguardo da Percy a lei in un secondo. – Nuovi ordini, Perseo. Tu sei in ritardo e lei deve andare nella direzione opposta. Mi assicuro io arrivi nelle celle. Ci vediamo fuori.

Percy esitò con lo sguardo fermo su Regina, un attimo prima di voltarsi verso di lei.

C'era qualcosa che non andava. Era evidente dal modo in cui Percy aveva reagito e dalla mancanza di spiegazioni da parte di Regina.

Sofia si portò istintivamente una mano sullo stomaco, sfiorando il coltello nascosto sotto ai veli.

- Vi faranno uscire più tardi, allora. Nel frattempo.. – fu come se la lingua gli si arrotolasse sulle parole che avrebbe voluto dirle. Come se non potesse dirgliele o... no, no. Quando Sofia lo guardò negli occhi verdi, capì. Sapeva che "stai attenta" o "stai al sicuro" erano espressioni che avrebbero infastidito l'orgoglio di Sofia e, a quell'evidenza, lei non riuscì a trattenere un sorriso, muovendo poi il capo in assenso e recuperando il controllo sul suo volto.

- Non mi perderei la mia prima volta dentro al Circo Massimo per nulla al mondo – gli disse ed il ragazzo sorrise, spostando poi lo sguardo su Regina.

- Noi ci vediamo fuori, allora.

Sofia non sentì Regina rispondere, probabilmente aveva semplicemente mosso il capo in assenso e, solo a quel punto, rivolgendole un'ultima occhiata, Percy camminò verso l'esterno. Sofia si concesse di seguirlo con lo sguardo per qualche istante, corrugando poi la fronte quando, in un impercettibile secondo, vide sporgersi oltre le pareti, alla fine del corridoio che ormai si affacciava sull'esterno, una testa bionda che sparì nel momento in cui Percy si voltò.

Era stato un attimo, talmente fugace che Sofia si chiese anche se se lo fosse immaginato, scuotendo la testa prima di voltarsi verso Regina che, con lo sguardo che non aveva perso la solita sfumatura di durezza, la aspettava al centro della cavea.

Mossero un paio di passi, una al fianco dell'altra prima che Regina decidesse di parlare. – Ti sei abituata a Sparta? – le domandò, cogliendola in contropiede mentre, all'interno della cavea, evitavano abilmente centurioni e folla impazzita dirigendosi verso le celle.

Sofia quasi sorrise prima di ricordarsi che, chi aveva davanti, era un pretore di Roma e, dal primo momento in cui l'aveva vista, continuava a studiarla senza sosta. – Per quanto sia possibile abituarsi a Sparta – ammise però lei, osservandola di sottecchi per un istante prima di riportare l'attenzione davanti a sé.

- Sparta è Sparta. Non credo ci sia un altro modo per poterla definire.

Sofia sollevò le sopracciglia in assenso. – Credo di si.

- Per alcuni è più facile sopravvivere, però. C'è chi si ritrova a marcire nella schiavitù per anni prima di poter vedere la luce del sole. Tu sei già a Roma.

Sofia si portò una mano allo stomaco, sforzandosi di mettere un piede dopo l'altro sul terreno dissestato dalla cavea. – Le ultime arrivate vengono sempre portate a Roma. Io sono una delle ultime arrivate – fece ovvia, sfiorando con l'indice la lama del suo coltello.

Maledisse lo starle camminando a fianco che le impediva di poter leggere l'espressione di Regina. – Tu sei diversa dalle altre, Annabeth – disse però la ragazza. – Stai avendo un'intera conversazione in latino e non hai vacillato per neanche un secondo. A questo punto, non credo neanche ti sia accorta di star parlando una lingua che non è la tua –. Sofia sbarrò gli occhi, nascondendo però la sorpresa nel constatare Regina avesse ragione. – Le altre ragazze non muovono un passo se prima non guardano te. Credo neanche sappiano di starlo facendo ma lo fanno comunque ed è bastata una sola tua occhiata perché Perseo mandasse Franco ad salvare una delle tue protette, inscenando poi il teatrino ridicolo di ieri sera per tenere gli occhi di tutti gli altri lontani da te.

Sofia aspettò una reazione da parte del suo corpo. I muscoli tesi, magari od il cuore che aumentava i battiti eppure, nonostante la parole di Regina, il tono della sua voce era privo di particolari sfumature, come se in quel momento non stesse parlando davvero con lei ma stesse solo riflettendo ad alta voce.

- Chi sei, Annabeth? – le domandò anche se, era evidente, quella non fosse davvero una domanda.

E fu solo a quel punto che Sofia si voltò verso di lei, osservandola sotto la luce fioca delle torce appese alle pareti.

A quel punto, avevano superato la parte della cavea piena di persone, inoltrandosi in un punto del Circo dove regnava decisamente più calma che gli permetteva di parlare normalmente.

Chi era lei?

Era buffo perché una parte di sé, a quella ragazza con lo sguardo duro, avrebbe davvero voluto dire tutto. Forse perché, dietro al mento sollevato in sfida, lei aveva colto la fronte corrugata in preoccupazione e lo sguardo che si perdeva spesso, troppo lontano perché qualcuno potesse raggiungerlo.

Si chiese se anche lei, dall'esterno, desse la stessa impressione e fu per quello che le raccontò tutto. Dall'epidemia, al tradimento di Santippo fino alla morte dei suoi fratelli e dei suoi genitori. Le raccontò persino della morte di Kyros, o di quando Nestor aveva provato a toccarla nel padiglione della mensa. Le raccontò delle lezioni che dava agli spartani e della disastrosa Caccia alla Bandiera, proseguendo con l'attacco nei bagni e con la sua fuga e le arai prima che potesse ritrovarsi a casa della madre di Percy. Le raccontò anche del drakon di Micene e, per la prima volta, disse esplicitamente a qualcuno quanto fosse stato assurdo che un drakon stesse attaccando una città invece di proteggerla. Le raccontò delle sue preoccupazioni, dei suoi dubbi per gli schemi degli dei che non riusciva a comprendere e le raccontò anche del terrore nel non riuscire a proteggere le altre schiave.

E durante tutto il suo racconto, Regina non fece altro che ascoltarla e basta. Non la interruppe neanche una volta, non le suggerì quello che pensava in merito a ciò che le aveva detto, si limitò a guardare un punto fisso davanti a sé, lontanissimo mentre Sofia parlava.

- Qui a Roma non riuscite a contenere la plebe. Ho visto cos'è successo lì fuori, prima – disse, indicando istintivamente la parete che dava all'esterno. – La gente protesta. Sono arrabbiati ma è esattamente una delle cose che manca alla Grecia, dove si è talmente abituati a farsi sottomettere che nessuno fa nulla – scosse la testa, mesta. – Io ci provo ma alla Grecia manca il coraggio.

Regina continuò a non rispondere ma riprese a camminare. Era evidente, dal modo in cui teneva lo sguardo fermo e le spalle rigide, che stesse semplicemente pensando a cosa risponderle. Fu questione di secondi prima che arrivassero in una stanza più luminosa rispetto alla cavea e che, su un lato della parete rocciosa, presentava una fila di celle e due centurioni che, palesemente annoiati, raddrizzarono improvvisamente la schiena, facendo finta di controllarle un po' meglio solo per l'arrivo di Regina.

Lei non li degnò neanche di uno sguardo. Si limitò a tenere gli occhi scuri puntati sulla parete opposta prima di voltarsi verso Sofia, guardandola dritta negli occhi. – O forse, gli manca solo un buon leader.

Sofia controllò la fronte che stava istintivamente per corrugarsi a quelle parole, osservando Regina.

- Io devo andare. Non so cosa succederà oggi ma solo uno stupido si accorgerebbe tu non sappia combattere – poi sollevò il mento, indossando il suo sguardo. – Ci vediamo dopo, Annabeth – si limitò a dirle, prima di sparire via in un gran turbine di toghe.

Uno dei centurioni le concesse un solo secondo per osservare il punto da dove Regina era sparita, aprendo poi la porta dell'ultima cella con un cigolio, prima di ordinarle di entrare, senza lasciarle neanche il tempo di riflettere su un peso tutto nuovo che aveva al petto.

Quando la porta le venne chiusa alle spalle, Daphne si fiondò tra le sue braccia.

Sofia sussultò per la sorpresa, indietreggiando di un paio di passi mentre la stringeva, chiudendo gli occhi. – Stai bene? – le domandò e Daphne annuì contro la sua spalla, allontanandosi da lei. – Dove sono le altre?

La cella era troppo buia perché potesse vederle gli occhi ma quando Daphne parlò, la voce era ferma. – Sono nella cella qui accanto. Mi sono preoccupata. Ci hai messo tantissimo prima di arrivare – le confessò la ragazza, strappandole un sorriso.

La cella era buia ma, in un angolo in fondo, Sofia riuscì comunque a vedere un improvviso guizzo di luce e fece un passo lateralmente. – Come ti chiami? – si limitò a chiedere, osservandolo l'angolo da cui era partito tutto.

Non sapeva bene cosa aspettarsi. Sicuramente però, non si sarebbe aspettata una ragazzina di soli tredici anni, con la pelle più scura della notte ed i capelli ricci che le cadevano sulle spalle di uno splendido color cannella. Ma la cosa più stupefacente erano gli occhi. Non si aspettava di certo di poterne vedere il colore,avvolte com'erano dalla penombra eppure, quelle due pozze riempite dell'oro più puro, parevano quasi brillare di luce propria.

Era come se una parte dell'oro imperiale, direttamente dalle scorte dell'imperatore, fosse contenuta all'interno delle iridi di quella ragazzina.

- Sono Hadiya, piacere di conoscerti – le disse.

Sofia sollevò il mento. – Io sono Annabeth. Mi sai dire perché siamo qui?

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- Non esiste – sibilò Sofia, lanciando uno sguardo furioso alle sbarre della cella. – Loro non sono pronte per combattere.

- Noi due si – disse Hadiya. Gli occhi dorati brillarono anche nella penombra della cella e Sofia sbatté un piede a terra per la frustrazione.

- All'Ade! Non hai idea di cosa possa esserci là fuori e qualsiasi minaccia sia, sarà calibrata comunque per più persone e noi siamo solo in due, Hadiya! È un suicidio! – ruggì Sofia, tentando di mantenere la voce più bassa possibile per evitare di attirare l'attenzione delle guardie.

Si sforzò per poter leggere l'espressione della ragazzina davanti a lei, per cercare di carpire qualche informazione in più ma, avvolta com'era nella penombra che sembrava quasi inghiottirla completamente ogni volta che sbatteva le palpebre, non aveva niente a cui aggrapparsi.

Per quanto l'avesse capito da sola, mettendo assieme i pezzi che avevano la forma di Percy spaesato e quelle celle, non era stato difficile capire che le avrebbero mandate a combattere. Sperava di poter entrare nel Circo Massimo da tutto la vita ma le sarebbe anche piaciuto uscirne.  

Non aveva intenzione di morire per colmare la sete di sangue del popolo romano.

Grazie agli dei, né Daphne né le altre ragazze parlavano latino, per cui non avevano sentito lei e Hadiya discutere dell'orribile situazione nella quale si trovavano. Daphne si era addormentata contro la parete della loro cella, la testa seppellita tra le ginocchia e Sofia, lanciandole una sola occhiata, sperò potesse godersi quel pacifico sonno per quanto più tempo possibile.

Non aveva idea se le ragazze accanto a loro fossero riuscire ad unire i pezzi esattamente come aveva fatto lei, ma doveva portarle in salvo.

Doveva farle uscire vive da lì.

- Senti, Annabeth – sibilò la ragazzina, facendo un passo verso di lei. Gli occhi dorati scintillarono di collera. – Neanche io ho intenzione di morire qua dentro, chiaro? Ma tu sai combattere, io anche. Non vedo altre soluzioni.

Sofia ignorò il fatto che quella ragazza avesse, in qualche modo, intuito lei sapesse difendersi. Decise di lasciare quel problema a più tardi e, adesso che Hadiya aveva fatto un passo in avanti, la luce fioca delle torce riusciva ad illuminarle meglio il volto.

Nonostante la giovanissima età, i tratti erano evidentemente provati per il tempo passato in schiavitù ma gli occhi, gli occhi ardevano come due tizzoni lasciati sul fuoco. Quella ragazzina era talmente piena di vita che, per un attimo, quella consapevolezza la disarmò mentre la osservava, notando solo dopo un cipiglio corrugato nella fronte. Poi, incredibilmente, dal terreno affianco ai calzari consumati di Hadiya, spuntò un piatto realizzato in oro talmente puro che Sofia riuscì a capirlo pur senza avere alcuna conoscenza a riguardo.

Hadiya imprecò e, accanto al piatto, saltò fuori, direttamente dal terreno, una gemma di un rosso talmente inteso che proiettò il suo incredibile colore persino sulla parete della cella.

Sofia spostò immediatamente lo sguardo su Hadiya che però, doveva essere diventata davvero brava a nascondere le sue emozioni.

- Che cosa succede lì? – esclamò una guardia.

Sofia sentì i suoi passi avvicinarsi alla cella.

Solo un cieco non avrebbe visto quelle ricchezze sul terreno.

Non fece in tempo a muovere un solo passo in avanti che Hadiya, davanti a lei, schioccò le dita. Normalmente, quel suono non le avrebbe fatto alcun effetto anzi, forse neanche l'avrebbe notato ma quando fu Hadiya a farlo, lo schiocco le rimbombò nelle orecchie, facendole tremare persino le ossa.

Il centurione apparve davanti alla cella e le guardò per qualche istante prima di appurare non ci fosse nulla di strano e tornare alla sua postazione.

Sofia guardò il punto in cui il centurione era appena scomparso per interminabili istanti, senza neanche riuscire a sbattere le palpebre.

Nel giro di qualche secondo, quella ragazzina con gli occhi dorati, non solo aveva evocato un piatto interamente fatto d'oro ed un rubino, ma aveva anche manipolato la Foschia come se nulla fosse.

- Va bene – disse, voltandosi poi verso Hadiya, osservandola con attenzione. – Ricominciamo – fece, allungando una mano verso di lei. Forse, raccontare a Regina la verità, omettendo il segreto più grande che custodiva, l'aveva privata dell'autocontrollo di cui era disposta. O forse, semplicemente, avere davanti a lei una persona che nascondeva qualcosa di tanto grande quanto faceva lei, la convinse potesse farlo. – Io mi chiamo Sofia e sono la prima figlia di Atena –. In quel momento, riuscì a raddrizzare le spalle, scrollando le braccia per l'improvvisa leggerezza che la colse. – Tu chi sei?

Gli occhi dorati della ragazza la guardarono senza che alcun pensiero preciso potesse passarvi sopra, ma allungò una mano, stringendo la sua. – Io sono Hadiya, figlia di Plutone e so come uscire da qui da prima che i romani potessero anche solo pensare ci portarmici.  


Angolo Autrice:  

Ciao fiorellini! 

Non mi ero dimenticata di voi assolutamente ma ho finito gli esami, mi laureo tra due settimane e quindi sono stata un po' più impegnata a partecipare alla vita mondana ed a godermi i giorni da donna libera ahahahaha 

In ogni caso, ecco qui il nuovo capitolo! Era, come sta succedendo sempre, un capitolo unico che ho dovuto dividere, quindi preparatevi per il prossimo perché sarà il delirio. In ogni caso, anche questa parte di capitolo è fondamentale. Prima di tutto, Annabeth si apre con Percy, gli racconta della ruota di Issione (particolare non indifferente) e poi, quando parla con Reyna, è come se premesse l'interruttore dentro di sé che la fa parlare anche con Hazel (che ovviamente si chiama Hadiya, un nome in uso nell'antico Egitto. Ho scelto un nome egiziano per coerenza perché, al tempo, le caste erano perfettamente divise, quindi era più logico che la mamma di Hazel le avesse dato un nome secondo le sue origine piuttosto che uno latino). Al prossimo capitolo, ovviamente si approfondirà anche la loro chiacchierata, oltre che i disordini della plebe che sto anticipando da due capitoli ahahaha 

Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto.  Io vi ringrazio tanto per il vostro supporto e vi mando un bacio enorme. 

Vi voglio bene, 

Eli:)*

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