SETTE
Il mistero dell'amore è più grande
che il mistero della morte.
(Oscar Wilde)
Quando mi svegliai l'aria odorava di frittelle, bacon, uova e caffè. Mi stiracchiai indolenzita e scesi in cucina stando attenta a non ruzzolare giù per le scale. Il tavolo della cucina era apparecchiato per un intero reame, cosa che mi lasciò alquanto perplessa.
Il succo d'arancia era versato in un bicchiere, il caffè fumava ancora all'interno della brocca di vetro e le frittelle erano coperte di sciroppo cremoso, la pancetta sfrigolava nella padella e le uova cuocevano sul fornello accanto.
«A che devo tutto questo?», chiesi con gli occhi luccicanti alla vista di quella meraviglia e l'acquolina in bocca.
Mia madre, che fischiettava allegra girando le fettine di carne con una pinza in metallo, si girò e sorrise: «Buongiorno, tesoro, dormito bene?», chiese ignorando la mia domanda.
«Sì, bene, ma credo di non essermi ancora svegliata», mormorai sedendomi a tavola.
«Ma che sciocchezza», esclamò spegnendo il gas e aggiungendo uova e bacon al resto delle leccornie, «una madre non può viziare la propria figlia?», domandò prendendo posto davanti a me.
«Beh, per quanto mi riguarda hai il permesso di viziarmi ogni giorno».
Presi con la forchetta un'abbondante porzione di uova e un gran morso di pane tostato. Poi mi bloccai rendendomi conto che probabilmente una madre qualunque non avrebbe avuto motivi nel viziare la propria figlia, ma io conoscevo bene la mia e il suo sguardo ammaliatore significava una sola cosa: avrebbe preteso qualcosa in cambio. La vera domanda era cosa?
«Quindi», iniziai pulendomi la bocca con un fazzoletto, «hai fatto tutto questo solo perché mi vuoi bene?».
«Ma certo, Eveline», rispose sorridente.
Feci una smorfia poco convinta ma continuai a mangiare. Maledizione a lei e alla sua dote culinaria e maledizione a me e al mio amore per il cibo!
«Anche se... forse ci sarebbe una cosa che potresti fare per me», la sentii sussurrare.
«E cosa? Sentiamo», chiesi alzando gli occhi al cielo. Lo sapevo.
«Voglio conoscere il tuo ragazzo», buttò fuori tutto d'un fiato, «ti pregooo», continuò allungando in modo spropositato l'ultima lettera.
Sembrava proprio una bambina, ma non era affatto tenera.
«Mamma», la ammonii, «ti ho detto che Jason non è il mio ragazzo. Siamo solo amici e in realtà so pochissimo di lui quindi, mi dispiace, ma dovrai accontentarti di conoscerlo in queste veci».
«Va bene», mise il broncio iniziando a sparecchiare.
«Ehi, ma che fai? Non ho finito di fare colazione», esclamai.
«Beh, dovrai accontentarti di ciò che hai già mangiato, golosona. Non siamo una famiglia ricca e questi saranno avanzi buonissimi».
Visto che la temperatura era scesa parecchio in quegli ultimi giorni e non avrei partecipato a chissà quale evento che richiedesse abiti d'alta moda, decisi di indossare qualcosa di semplice e comodo. Non vedevo l'ora di scendere in piazza e annusare l'odore dei vecchi libri. Magari ne avrei trovato addirittura qualcuno da comprare. Adoravo l'idea di possedere una biblioteca come quella del cartone La Bella e la Bestia, ma mi ero sempre accontentata dell'unica mensola appesa alla meglio in camera mia. Pochi libri ma tanto preziosi che avevano viaggiato insieme a me ovunque. Inconsciamente strinsi la copia di Romeo e Giulietta fra le dita, prima di metterla dentro la borsa e controllare di aver preso tutto.
Suonarono al campanello e mi precipitai di sotto. Era Jason che, come concordato in precedenza, era passato a prendermi, per cui meglio che non rimanesse troppo a lungo con mia madre. Chissà cosa avrebbe potuto dirgli.
«Ciao», lo salutò appena aperta la porta, «io sono Laura, la mamma di Eveline, sono molto contenta di conoscerti, mia figlia mi ha parlato molto di te».
«Okay, Jason, direi che possiamo andare», dissi in fretta prendendolo per un braccio e spingendolo fuori.
«È stato un piacere conoscerla», annunciò lui, ma ormai avevo chiuso la porta.
«Che ti è preso?», domandò guardandomi con le sopracciglia aggrottate.
Distolsi lo sguardo dai suoi occhi chiari.
«Credimi, ti ho salvato da una lunga serie di domande imbarazzanti», risposi incamminandomi verso il centro della città.
«Tua madre è bellissima, sembra una nostra coetanea» commentò.
«Usa molte creme» mentii, cambiando subito argomento.
Molte famiglie guardavano curiose fra le bancarelle colorate mentre i commercianti proponevano racconti inediti di scrittori sconosciuti. Alcune associazioni sponsorizzavano attività di beneficenza e altre ancora, organizzate dagli studenti e dai genitori della città, avrebbero usato il ricavato nella scuola in cui mi ero iscritta per il restauro della palestra.
«Wow, guarda qua!», esclamò Jason strabuzzando gli occhi mentre prendeva in mano un vecchio fumetto giapponese, uno di quelli che si leggono al contrario e sfogliò le prime pagine.
«L'ho cercato ovunque, non posso credere che sia finalmente fra le mie mani!», disse e io scoppiai a ridere.
«Non prendermi in giro, Eveline, i manga sono vera arte!», disse fingendosi offeso.
«Oh, mio Dio», fu il mio turno di esclamare.
Davanti a me, in tutta la sua magnificenza, c'era una copia di Romeo e Giulietta messa in una teca di vetro ed esposta dietro il bancone. Il prezzo indicato era talmente alto che non mi sarebbe bastata un'intera vita di lavoro per pagarlo.
«Che stupidaggine, perché mai uno dovrebbe pagare così tanto per un libro che si può trovare a un prezzo molto più economico?», chiese Jason seguendo il mio sguardo.
«Dev'essere speciale, magari ha qualche autografo o dedica», ipotizzai fingendo di non essere affatto attratta da quel libro.
«Non so, per me una copia vale l'altra, l'importante è leggere. Ho visto un altro manga in quella bancarella, torno subito», disse allontanandosi.
Girovagai senza meta e sbirciai fra i libri, ma come una bussola che punta sempre a nord, anch'io mi trovavo, volta dopo volta, davanti al libro di Shakespeare. Come si può creare una storia struggente di questa portata? Come può un uomo essere capace di provocare tutte queste sensazioni in un lettore?
«"D'ora in avanti tu chiamami Amore e io sarò non più Romeo, perché m'avrai così ribattezzato"», citò qualcuno alle mie spalle.
«Ciao, Eveline, è una mia impressione oppure sei in qualche modo ossessionata da questa storia?», bisbigliò sfiorandomi i capelli.
Deglutii cercando di non far notare gli improvvisi brividi gelidi che mi attraversarono la spina dorsale come una scossa. Improvvisamente, gli abiti che portavo mi sembrarono scialbi e orrendi, ma sapevo che era lui a farmi questo effetto, seppure lo odiassi.
«Allora, non mi saluti?», continuò e anche se si trovava alle mie spalle sapevo che aveva il suo solito ghigno divertito sulle labbra.
«Continui a citare Shakespeare, perciò non credo di essere l'unica ossessionata. Cosa ci fai qui?».
Finalmente mi girai per guardarlo. I capelli scuri erano spettinati, la camicia leggera sbottonata fino a metà petto e i jeans scuri a vita bassa lasciavano intravedere una linea di pelle chiara dell'addome piatto.
Deglutii e sollevai lo sguardo. Mossa sbagliata. In questo modo incontrai i suoi occhi, due pozzi neri molto più vicini di quello che mi aspettassi. Ma non avrebbe dovuto stare fuori dal mio spazio vitale? E perché continuava ad avvicinarsi?
«Eveline, guarda qua», esclamò Jason spuntato dal nulla, accorgendosi troppo tardi della presenza di Connor.
Grazie alla sua apparizione, la distanza fra noi divenne di nuovo sopportabile e ricominciai a respirare, accorgendomi di aver trattenuto il fiato fino a quel momento.
Guardai con finta curiosità il fumetto che Jason mi mostrava e feci degli stupidi commenti sullo stile delle vignette, giusto per non tradire la confusione di cui ero protagonista.
«Ci sono un sacco di racconti in quella bancarella, perché non vieni a vederli?», domandò Jason passando lo sguardo da me a Connor.
Sapevo che mi stava dando la possibilità di liberarmi del ragazzo dagli occhi neri, ma lo volevo davvero?
«Arrivo fra poco», promisi.
«Sentito, ragazzino? Vai a giocare, i grandi devono parlare», lo schernì Connor e poi, quando Jason non fu più a portata d'orecchio, continuò: «allora esci con James, eh?».
Ignorai il suo sarcasmo e m'incamminai verso una nuova bancarella: «Non sto con nessuno e giusto perché tu lo sappia, il suo nome è Jason. So che ti è difficile credere nell'esistenza di altre persone al mondo oltre a te, ma questa è la dura realtà».
«Sì, sì, John, Jack, Josef... è uguale, per quanto mi interessi», ribatté muovendo una mano con fare annoiato. Poi mi rubò da sotto gli occhi il libro di cui stavo leggendo la trama e aspettò che lo guardassi, prima di continuare a parlare: «Che ne dici se lasciamo qui il tuo amichetto a girare come un cagnolino abbandonato, mentre noi andiamo a divertirci un po' da qualche altra parte?», ammiccò inumidendosi le labbra.
Sarei dovuta scoppiare a ridere oppure innervosirmi... allora perché sentii le ginocchia cedermi e il sangue affluire in superficie tingendomi le guance?
«Non ho nessuna intenzione di fare nulla con te», esclamai invece, «e poi sono qui con Jason, non lo lascerò da solo perché tu vuoi svignartela. Vai tu se vuoi, io ho tutta l'intenzione di girovagare fino a tardi».
Detto questo raggiunsi il mio amico.
«Quel tipo non mi piace affatto», mormorò Jason a bassa voce guardando Connor con insistenza.
«Già, non dirlo a me, non lo sopporto proprio», annuii.
Per l'ora di pranzo, Jason aveva fra le braccia intere buste colme di libri, mentre io non ne avevo preso nemmeno uno. Quella copia era ancora impressa nella mia mente.
Decidemmo di andare a mangiare qualcosa e magari tornare più tardi alla fiera per continuare a cercare. Neanche a farlo apposta, Jason scelse il ristorante con cui ero stata insieme a Connor. Almeno questa volta avrei scelto io cosa mangiare e non un tale arrogante dagli occhi scuri. Lo stomaco brontolava per la fame quando ci sedemmo al nostro tavolo e la cameriera ci portò il menu.
«Non farla morire di fame, ragazzo, potrebbe decidere di mangiare te», rise Connor appena entrato dall'ingresso.
Aveva il braccio sulle spalle di Anghela e sorrideva in modo irritante. Non per essere paranoica, ma quante erano le probabilità che ci trovassimo nello stesso ristorante e nello stesso momento?
Per fortuna tornò la cameriera che interruppe lo scambio di sguardi furenti fra i due ragazzi. Anghela sembrava annoiata da tutta la situazione; mi guardò per un istante, prima di stringere la vita di Connor e incitarlo a raggiungere il tavolo. Esattamente quello accanto al nostro.
I due presero posto a fianco a noi e immediatamente Connor morse un grissino gustandolo nel modo più fastidioso possibile. Anghela lo fissò annoiata, tamburellando nel frattempo le unghie pitturate di rosso sulla tovaglia macchiata di ketchup.
«Eveline, puoi anche smetterla di fissarmi», sorrise Connor poggiando i gomiti sul tavolo, «non è educato, soprattutto se stai al tavolo con un altro fanciullo».
Io non lo stavo fissando, mi ero semplicemente incantata verso la sua direzione. È diverso!
«Stronzo», sussurrai distogliendo lo sguardo.
Evidentemente mi sentirono tutti, perché Anghela ridacchiò tentando di nascondere quel sorrisetto con la mano, Jason trattenne il fiato e Connor, il diretto interessato del mio insulto, si gelò sul posto.
«Che hai detto?», chiese con voce roca alzandosi e venendo verso di me.
Mi sovrastò in tutta la sua statura, aspettando una risposta e stringendo i pugni. Ma io ero stanca dei suoi sbalzi d'umore, ero stufa che prima mi proponesse di uscire e che qualche secondo dopo si arrabbiasse per motivi futili e ingiustificati.
«Ho detto che sei uno stronzo!», urlai alzandomi a mia volta.
«Connor, non essere imprudente, non vorrai dare spettacolo, immagino...», disse Anghela guardando il menu.
Non pareva avesse realmente timore di attirare l'attenzione, piuttosto ciò che aveva detto sembrava facesse parte di un copione per una parte che non sopportava, ma che era obbligata a interpretare. Le persone all'interno del ristorante si girarono per osservare la scena e un gruppo di ragazzini prese addirittura il telefono per filmarci, sperando in uno scontro.
«Devi smetterla di comportarti come un completo imbecille e rovinare tutto! Non capisci che in questo modo ferisci le persone? Smettila di fare battute su chiunque e ovunque e inizia a chiederti se sei veramente figo come credi di essere», continuai furente.
La sua espressione di intenso furore si tramutò lentamente in compiacimento e infine in divertimento e finta indifferenza.
«Certo che sono figo, non c'è dubbio su questo», rispose sorridente, «inoltre, io non rovino niente, sei tu stessa a farlo. Se prima avessi accettato di venire con me, stai certa che ti saresti divertita».
Ecco di nuovo i brividi sulla schiena. Odiavo l'effetto che aveva su di me.
«Sei solo un bambino, tu sei...», non mi vennero però le parole per insultarlo al meglio, quindi decisi di andarmene e finirla lì.
Era solo un ragazzo presuntuoso, arrogante, spocchioso, idiota e non aveva nessuna scusa per questo.
«Eveline», mi chiamò Jason correndo verso di me e portandosi dietro le pesanti buste di libri.
«Scusa, ma non mi sento molto bene, forse è meglio se ritorno a casa», mentii.
Jason mi prese per un braccio e mi guardò stringendo le labbra.
«Non capisco perché ti faccia trattare in questo modo. Devi smetterla di vederlo, è la soluzione migliore. Insomma, io non lo conosco, ma so che genere di ragazzo è. Non ti porterà a niente di buono, quindi fidati di me e stagli alla larga. Per lui sei solo un gioco, un passatempo», disse.
A quel punto mi allontanai indignata pensando: "Ma come ti permetti di dirmi quello che devo o non devo fare? E perché credi di sapere ciò che sono in grado di sopportare o meno? Tu non mi conosci per niente. Non sai quello che ho passato o quello che ancora dovrò subire. Sai che ti dico? Se è questo ciò che pensi di me è meglio non vederci più. Non ho bisogno di persone che controllino la mia vita".
Prima che le lacrime potessero rigarmi le guance rosse per la rabbia, mi voltai.
«Eveline, scusa, non intendevo...».
«So esattamente cosa "non intendevi", Jason», lo interruppi, «ma come credi che mi senta?».
Non aspettai risposta e mi allontanai incamminandomi verso casa a testa bassa e chiedendomi per quale ragione ultraterrena dovessi soffrire per non uno, ma ben due ragazzi che non mi capivano affatto.
Stavo in camera mia a guardare fuori dalla finestra quando mia madre mi chiamò per raggiungerla al piano di sotto.
«Tesoro, c'era questo pacco fuori la porta quando sono tornata», disse indicando una confezione regalo sul tavolo.
Sul bigliettino attaccato con lo spago c'era scritto "Eveline" in una grafia maschile molto ordinata.
«Ho visto Jason che si allontanava da qui, sembrava triste, è successo qualcosa?».
«No, nulla», mentii. Poi le chiesi per cambiare argomento: «Cosa avete fatto oggi?».
«Siamo andati al lago per un esercizio. Con noi è venuta anche Sarah, le è dispiaciuto non poterti accompagnare alla fiera come avevate organizzato, ma Kyle aveva bisogno del suo aiuto. Magari vi vedrete un'altra volta».
«Certo», risposi.
In un certo senso, ero sollevata che non fosse venuta con noi. Tornai in camera sorpresa che mia madre mi avesse lasciato andare tanto facilmente. Doveva essere parecchio stanca se non mi aveva chiesto di più riguardo la mia giornata.
Mi sedetti sul letto e guardai il pacchetto. Sospirai leggendo il bigliettino: Per farmi perdonare della brutta giornata e perché spero, domani, di meritarti più di oggi.
Scossi la testa e scartai il regalo.
«Oh, mio Dio!», esclamai portandomi le mani davanti alla bocca spalancata.
Non potevo crederci. Mia madre aveva detto di aver visto Jason vicino casa. Mi aveva comprato la copia di Romeo e Giulietta e io... oh no, io l'avevo trattato malissimo e lui si era sentito così in colpa da spendere tutti i suoi risparmi per me. Strinsi forte al petto il libro e sorrisi. Quel gesto significava che teneva a me più di quanto immaginassi, ma soprattutto che avrei dovuto fare qualcosa per farmi perdonare.
Posai il libro sul comodino e spensi la luce. Quella notte feci sogni sereni, in cui occhi scuri si contrapponevano ad altri, chiari e gentili.
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