NOVE

Siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni;

e nello spazio e nel tempo d'un sogno

è racchiusa la nostra breve vita.

(William Shakespeare)

In qualche modo sapevo di essere all'interno di un sogno. Era come se la mia testa fosse leggera, ma il corpo pesante. Non saprei descrivere precisamente questa sensazione, mai avevo provato qualcosa del genere.

Mi trovavo in camera mia, una camera diversa dal solito. Sulla scrivania erano sistemati dei testi scolastici e appesi alle pareti si trovavano poster di band famose. La musica che proveniva dallo stereo sparava a tutto volume la voce gracchiante di un cantante rock.

«Eveline!», mi richiamò mia madre dal piano inferiore.

Abbassai il volume della musica e scesi di sotto.

«Puoi dirmi cosa ne pensi? Non capisco se c'è troppo sale», disse sollevando un mestolo sporco di sugo.

Il vapore usciva da alcune pentole sui fornelli e il timer del forno ticchettava segnalando che mancavano dieci minuti al termine della cottura; dall'odore sembrava arrosto.

Poggiai le labbra sul mestolo e storsi la bocca per il disgusto: «Direi invece che ce n'è troppo».

«Sicura?», domandò assaggiando a sua volta, «Forse sono le mie papille gustative che non funzionano più come una volta», disse alzando le spalle.

«Mamma», mormorai, «ma tu hai appena mangiato del cibo?», chiesi sapendo che fosse una cosa inconcepibile.

Lei si stizzì e andò verso il tavolo che era apparecchiato per sei persone con il nostro miglior servizio di piatti e bicchieri.

«Viene qualcuno a cena?», domandai ancora più confusa.

«Smettila di farmi perdere tempo, piuttosto vai a cambiarti», mi rimproverò.

Salita in camera, mi chiesi cosa stesse succedendo. Nella mia mente non riuscivo a separare ciò che era reale da ciò che non lo era.

Indossai il vestito blu appeso nell'anta dell'armadio fatto di un tessuto morbido e comodo e tornai di sotto. Le pentole erano svanite e il cibo fumava sui vassoi in tavola.

Suonò il campanello; i primi a entrare furono Kyle e Sarah, poi fece il suo ingresso Jason, che portò un mazzo di fiori lilla molto profumati per ringraziarci dell'invito. L'atmosfera era meravigliosa e mi sentivo bene. L'idea che fosse impossibile non mi sfiorò neanche un attimo. Nella realtà, Kyle non avrebbe di certo potuto rubare il purè dal piatto e Sarah non avrebbe mai mangiato un grissino dicendo di essere affamata. D'un tratto, tutto ciò che in un'altra vita sarebbe stata la normalità, mi stava scomodo. Jason continuava a sorridere mentre parlava con mia madre e lei era cortese nei suoi confronti. Non gli aveva fatto domande imbarazzanti o battutine sul nostro rapporto, come invece sapevo avrebbe fatto nella vita reale. Mi poggiai al muro e sospirai per mantenere il controllo. Tutto ciò non era altro che un mio desiderio sciocco e banale.

Ci sedemmo a tavola per cenare e solo allora mi accorsi del posto vuoto davanti al mio.

In quell'istante, il campanello suonò ancora una volta.

«Eveline, potresti andare tu? Io sono occupata», chiese mia madre mentre tagliava l'arrosto.

Strisciai la sedia sul pavimento e mi avviai verso l'ingresso.

«Buonasera».

Connor sorrise allungando una rosa, molto simile a quella che mi aveva regalato durante la serata di musica al parco, anzi forse era proprio quella. Era vestito in modo elegante, ma a differenza di Jason, il cui vestito sembrava appartenere a qualcun altro, era perfetto.

«Che ci fai qui?».

«Sono stato invitato da tua madre, pazzesco, vero?».

Entrò in casa, salutò con calore tutti quanti e si sedette.

Quando li raggiunsi, ancora leggermente scossa, il cibo venne servito nei piatti. Non aveva alcun sapore, non sapeva di niente. Allo stesso tempo, le conversazioni a cui partecipai, più per cortesia che per vero interesse, erano insignificanti.

«Ptss», mi richiamò Connor che sorrideva sornione come se avesse qualcosa in mente, «che ne dici di andarcene da qui?», sussurrò in modo che solo io potessi sentirlo.

«Ma come?», domandai accennando eloquentemente agli altri ospiti.

Non potevamo semplicemente andarcene come se nulla fosse.

«Stai a guardare», fece l'occhiolino e si schiarì la gola, «Laura, vogliate scusarmi ma devo proprio andare», annunciò alzandosi, «la cena è stata ottima e la compagnia non è stata da meno, ma i miei genitori mi hanno espressamente vietato di fare tardi».

«Oh, ma certo, caro. Eveline, perché non lo accompagni?», suggerì tornando subito a parlare con Sarah.

Aprii la bocca per mettere in evidenza la stranezza di ciò che stava succedendo, ma Connor mi spinse delicatamente verso la porta e poi sul vialetto, esibendosi in un inchino lezioso.

«Davvero i tuoi vogliono che rientri presto?», domandai.

«Certo che no, io non ho genitori», disse perdendo per un attimo il sorriso.

«Allora, dove andiamo?», chiesi con troppo entusiasmo provando a cambiare argomento.

«Vuoi andare da qualche parte?».

«Pensavo che tu volessi portarmi da qualche parte».

«Io veramente mi sono allontanato dagli altri solo per un motivo».

Poi Connor si avvicinò fissandomi intensamente: «Perché lì, con il tuo ragazzo e tua madre a guardarci, non avrei potuto fare questo», sussurrò e dissolse la distanza fra noi unendo le sue labbra morbide alle mie.

Mi svegliai di soprassalto. Guardai intorno nella stanza con la strana sensazione di essere osservata, ma forse avevo semplicemente paura che qualcuno potesse leggermi in faccia ciò che avevo appena sognato. Mi tirai su e sospirai. Ci voleva una doccia fredda.

L'acqua mi scivolava sulla pelle, scrosciando giù fino a colpire la ceramica del piano. Stavo massaggiando i capelli con lo shampoo nel momento in cui l'acqua smise di scendere. Il getto diminuì d'intensità fino a che l'ultima goccia fece un sommo e sonoro "plic". Poi più niente.

«No... ti prego, no!», esclamai cercando in tutti i modi di far ripartire l'acqua.

Uscii avvolgendomi nella spugna soffice dell'asciugamano e andai verso la cucina. Per le scale incontrai mia madre che mi guardò trattenendo un sorriso.

«È una nuova maschera di bellezza? Devo essermela persa», mi prese in giro riferendosi ai capelli ricoperti di schiuma.

«Deve essersi rotto qualcosa nell'impianto idraulico, magari si è forato un tubo o...».

«O magari mi sono dimenticata di pagare la bolletta», terminò lei in poco più di un sussurro.

«Oh, fantastico!», alzai le braccia al cielo e sospirai.

Se il buongiorno di vede dal mattino, quella non sarebbe stata affatto una bella giornata.

«Che ne dici di venire con me a fare la spesa?», domandò mia madre dopo essersi cambiata.

«Certo, non si sa mai che ti dimentichi di comprare qualcosa», risposi acida.

«Sei ancora arrabbiata con me? Andiamo, Eveline, sai che sono stata impegnata in questo periodo».

Sospirai: «Sì, hai ragione, scusa, vado a cambiarmi, faccio in un attimo».

Salii le scale ed entrai nella mia camera. Scelsi di indossare dei pantaloni di tessuto morbido che avevo messo molte altre volte. Mai prima di quel giorno era capitato però che si ingarbugliassero ai piedi, facendomi inciampare e sbattere il polso sullo spigolo del letto. Mi morsi il labbro per trattenere le lacrime.

«Ci mancava solo questa», borbottai quando il dolore fu passato, certamente mi sarebbe rimasto il livido, «comunque grazie, chiunque ha in mano la mia vita sta facendo un ottimo lavoro oggi!».

Quando arrivammo al market, mi sorpresi della fila alla cassa. Di solito non trovavamo all'interno più di tre o quattro persone, ma evidentemente il cartello dei saldi appeso in vetrina aveva attratto nuovi clienti.

«Io vado alla frutta e tu ai pasti pronti?», propose mia madre porgendomi un cestino.

Ci separammo per fare prima decidendo di incontrarci direttamente alla cassa.

Mentre stavo scegliendo cosa comprare, qualcosa attirò la mia attenzione. Connor mi sorrideva dall'altra parte della vetrina. Mi fece cenno di raggiungerlo fuori, ma girai la faccia e continuai con la spesa. Il flash del sogno di quella notte mi tornò in mente; il suo vestito, il bacio... lo scacciai prima che potesse diventare qualcosa di troppo serio.

«Se non ti conoscessi bene, direi che mi stai evitando», esordì lui apparendo all'improvviso alle mie spalle.

M'irrigidii e mantenni salda la voce: «Infatti non mi conosci. Comunque sì, ti sto evitando».

«Si può sapere per quale motivo?», domandò prendendo dal mio cestino una confezione di cereali e rimettendola al suo posto. Ne prese dallo scaffale un'altra e me la porse, come se niente fosse. Feci finta di esserne seccata, ma in realtà preferivo quelli che aveva scelto rispetto agli altri, solo che non li avevo visti.

«Perché non ti sopporto», risposi allontanandomi.

«Non hai mai provato a farlo».

«Fare cosa?».

«Sopportarmi, non hai mai provato a sopportarmi, sai, potrei rivelarmi una piacevole compagnia», chiarì.

«Ah, ma davvero?», chiesi sarcastica, «Sei tu quello che fa finta di niente e si comporta come se nulla fosse. In più non rispondi alle mie domande».

«Non è vero», sostenne guardando da un'altra parte.

Mi fermai in mezzo alla corsia vuota e mi girai per sfidarlo: «Bene, allora rispondi a questo: perché sai tante cose su me e mia madre? Come fai a conoscere l'esistenza dei vampiri? Come facevi a sapere che mia madre aveva bisogno di cure e che la schiuma da barba era la soluzione? Perché conosci i Calende e ciò che fanno? E come...», interruppe le mie infinite domande mettendomi una mano davanti alla bocca.

«Forse sarebbe meglio che non urlassi a tutto il mondo queste informazioni, non credi anche tu?», disse a denti stretti.

Mi allontanai liberandomi dalla sua presa e lo guardai storto.

«Per passare ad argomenti più interessanti», iniziò evitando di nuovo di rispondere e darmi spiegazioni, «ti è piaciuto il regalo?».

«Quale?», domandai.

Lui finse di leggere un'etichetta, poi spostò nuovamente lo sguardo insistente su di me.

«Ah, quel regalo, certo che mi è piaciuto. Jason, a differenza tua, sa come farsi perdonare».

Connor strinse gli occhi a due fessure e parlò con voce roca: «È stato lui a dirti di avertelo regalato?».

«No, ma non ho bisogno che me lo dica», sostenni allontanandomi perché parlare con lui mi metteva sempre un velo di oppressione addosso. Mi deconcentrava.

Raggiunsi mia madre alla cassa e mi guardai indietro. Connor era sparito.

Di pomeriggio chiamai Jason al cellulare. C'eravamo scambiati i numeri durante la fiera, ma mai avevo avuto il coraggio di richiamarlo. Insomma, lo avevo trattato malissimo, ma ripensando a ciò che mi aveva detto avevo capito che stava solo cercando di proteggermi da Connor. Forse aveva usato parole sbagliate, anzi era proprio così, ma le sue intenzioni erano state delle migliori. Inoltre mi aveva fatto il più bel regalo possibile per farsi perdonare, l'unica cosa che avrei potuto fare era scusarmi.

Quindi decidemmo, parlando al telefono, di incontrarci un'ora dopo al parco nel posto in cui ci eravamo conosciuti.

Kyle era in cucina con mia madre quando scesi per avvisarla dei miei impegni.

«Ciao, Eveline, come stai?», chiese sorridendo.

Indossava una polo bianca e dei jeans a vita bassa, mentre la giacca beige era appesa nello schienale della sedia.

«Molto bene, grazie, sono contenta che sei qui, volevo chiederti una cosa».

«Dimmi pure», replicò sorpreso.

«Pensi che Sarah sarebbe disposta ad accompagnarmi a fare spese uno di questi giorni? Sai, fra un po' inizierò la scuola e ho bisogno di nuovi vestiti», annunciai in imbarazzo.

Volevo apparire al meglio, ma i miei gusti riguardo l'abbigliamento andavano dal nero al grigio scuro.

Mia madre mi guardò sconsolata. Ne avevamo già parlato e, senza offesa, se avessi ascoltato i suoi consigli sarei andata in giro con autoreggenti e minigonne. Sarah mi era sembrata più acqua e sapone, proprio quello che mi ci voleva.

«Credo che ne sarebbe entusiasta, in effetti fare shopping da sola l'annoia da morire. Glielo chiedo e ti faccio sapere, okay?», rispose Kyle.

Lo ringraziai e salutai entrambi uscendo di casa. I parcheggi del parco erano quasi tutti vuoti. Jason si trovava esattamente dove avevamo concordato e non appena mi vide sorrise felice e mi abbracciò.

«Pensavo avresti cambiato idea all'ultimo. Eri così arrabbiata l'altro giorno...», disse fra i miei capelli mossi dal vento.

«Sì, lo ero in effetti», annunciai, «ma ho capito che tutto ciò che hai detto era per il mio bene e poi come avrei potuto tenere il broncio dopo il regalo che mi hai fatto?».

Gli diedi una piccola spinta e sorrisi entusiasta.

Lui mi guardò stranito con le sopracciglia aggrottate e le labbra strette: «Scusa, ma di che regalo stai parlando?», domandò smarrito.

«Dai, il volume di Romeo e Giulietta», gli ricordai, «e il biglietto in cui parlavi di come volessi scusarti», sostenni.

Il suo sguardo però rimase confuso.

A un certo punto, mi tornarono in mente le parole di Connor quella mattina al negozio quando mi aveva chiesto se mi fosse piaciuto il regalo. Improvvisamente mi resi conto che non era stato lui, ma il regalo era di Connor! Mai avevo preso in considerazione che potesse trattarsi di lui, saltando immediatamente alla conclusione che si trattasse di Jason. Che stupida, ma certo, era lui quello che conosceva la mia ossessione per quella storia e era ancora una volta lui stesso a cui piaceva. Avrei dovuto sentirmi in debito con Connor proprio come era capitato per il mio amico, ma non fu così.

Una furia cieca m'invase. Non m'importava se avesse speso dei soldi per me, io non mi sarei fatta comprare. Il rispetto si merita, non si conquista con un regalo, anche se è il migliore del mondo. Connor aveva superato il limite. Una cosa era fare l'arrogante, un'altra era comportarsi come se un regalo bastasse a mettere tutto a posto.

«Eveline», sussurrò Jason allontanandosi di un passo.

Lo stavo spaventando, ma non m'importava. Ero furiosa. Connor avrebbe capito che era meglio non prendermi in giro mai più.

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