CAPITOLO II - Berf
Berf strappò alcune foglie di netto. Sentiva le lacrime nascondersi negli occhi gialli. Infide. Arricciò le labbra e tornò a guardare la luna. La notte stava finendo.
Arianna non c'era.
La promessa che lei aveva fatto rimbombava nelle orecchie del ragazzo - del licantropo - sempre più remota. Per un folle istante si chiese se non lo avesse solo immaginato. Tutto. Il sapore dei baci di lei, il profumo di miele e primavera. Poteva averlo immaginato?
Era quasi l'alba. Berf sapeva cosa succedeva a quelli come lui quando il sole sorgeva, quando i raggi gialli li colpivano. Non voleva succedesse. Non in quel momento, comunque. Non era in sé.
Doveva dimenticare Arianna. Doveva dimenticare tutto.
Le lacrime si fecero più prepotenti ed ogni centimetro degli occhi pizzicava. Non avrebbe pianto.
Il sole nasceva. L'amore moriva.
Sentiva l'istinto del lupo in agguato, le zanne premevano contro le gengive sanguinanti. Non avrebbe resistito per molto. Il lupo lo invocava. La bestia avrebbe vinto.
Riordinò veloce gli scacchi - non voleva perderli, nonostante tutto... erano l'unica prova che Arianna fosse mai esistita. Che lo avesse amato. Era stato uno sciocco a pensare che lei potesse rinunciare a se stessa per lui. Nessuno lo avrebbe fatto. Nemmeno lui.
Infilò i pezzi bianchi e neri nella vecchia scatola di cartone sbiadita. Accarezzò un po' più a lungo la regina bianca - il pezzo preferito di Arianna. Aveva il sapore dei suoi baci sulla lingua. Sapevano di cose buone. Come il profumo di sua madre prima che sprofondasse nella terra.
Poi l'istinto lo fece scattare, i muscoli del corpo fremettero. I nervi tornarono a galla. Si volse con un gesto sinuoso e le zanne - la migliore delle armi - spuntarono da dietro le labbra rovinate, perforate. Gli deformavano il viso... il muso.
«Aspetta!».
Era una creatura.
Aveva le ali.
Era una fata della notte.
Aveva i capelli verdi.
Non era Arianna.
Berf ringhiò. La strada che aveva intrapreso non poteva essere interrotta. L'umanità stava perdendo, il sole stava sorgendo.
«Tu sei Berf?» insistette la creatura dalla chioma color dell'erba. Era molto coraggiosa. O molto incauta.
Lui ringhiò più forte. Era lui, voleva rispondere. Ma il lupo tornava insaziabile, prepotente, preponderante. Solo Arianna sapeva farlo sparire. Solo Arianna aveva fatto tornare l'umanità quella volta che...
Arianna non c'era. Gli mancava l'aria. Come poteva respirare?
La fata si teneva sospesa a mezz'aria, forse percepiva la puzza della paura. Forse era solo una vigliacca. Come tutte le fate della notte. Tutte tranne Arianna.
«Mi chiamo Marisa» continuò, le ali si agitavano come temessero di finire in gabbia. Anche lei non poteva mantenere quella forma a lungo sotto i raggi del sole «Arianna mi ha detto di trovarti. Ha detto che mi avresti aiutata».
Arianna.
Quel nome ebbe l'effetto di una doccia ghiacciata per Berf. Il sole sorgeva. Il lupo invocava il sangue. Caldo. Vischioso.
«D...ov...e...A...ria...n?» fu tutto quello che riuscì a biascicare tra un ringhio e l'altro. Sentiva l'umanità farsi sempre più piccola in lui.
Arianna.
Il lupo era l'animale più calmo del branco quando la sua famiglia gli era vicina.
Arianna.
«Una guerra sta per scoppiare» Marisa schioccò la lingua nervosamente «Io non dovrei essere qui... Arianna è molto più che una semplice pedina... Lei...».
I raggi del sole trasformavano Berf nel mostro degli incubi umani. I raggi del sole bruciavano le ali delle fate. Non erano nate per vivere nella luce del mezzogiorno. Marisa si ritrasse appena, sbatacchiando agitata a mezz'aria. Impaurita da Berf, dal lupo, dal sole implacabile.
«Io non dovrei essere qui» ripeté e sembrava che dovesse convincersene «Se vuoi saperne di più... domani. A Pontgoing. A mezzanotte».
Un'altra promessa.
Arianna.
La fata gli lanciò un ultimo sguardo angosciato. Intimorito.
Berf sentiva gli artigli spuntare, sentiva le pupille stringersi, sentiva i baffi allungarsi, il naso appiattirsi, le labbra arricciarsi, la spina dorsale piegarsi.
La fata dai capelli verdi era lontana. Il lupo ululava sotto il sole del mezzogiorno.
***
«Berf! Ero preoccupata!» gracchiò la vecchia, appena lui entrò nella piccola casupola di fango e pietre.
«Non c'era nulla di cui preoccuparsi, nonna» sbottò il ragazzo, ingoiando saliva e sangue.
Pregò che fosse il suo.
«Aspettavi ancora quella fata?» lei lo studiava con i suoi stessi occhi gialli, con la sua stessa calma. Non attese alcuna risposta «Non devi perdere tempo con quella. Tu sei nato fortunato».
Berf si stropicciò gli occhi. Aveva una ferita sulla mano sinistra. Si chiese come se la fosse procurata. Anche sua nonna se lo chiese, ma non glielo disse. Il ragazzo poteva vedere gli occhi gialli di lei studiare i lembi di pelle squarciati.
«Potrei... allontanarmi per un po'» biascicò Berf, cercando di evitare lo sguardo indagatore di nonna Vricia.
«Dove?».
Scrollò le spalle.
Era ovvio dove.
Pontgoing era il primo avamposto umano.
Era ovvio dove.
Gli umani uccidevano quelli come lui
Era ovvio dove
Arianna.
«Il mio trisnonno c'è morto, per colpa degli umani. Non ci morirà mio nipote» disse aspra. Gli diede le spalle.
Per lei la conversazione era finita. Pure per Berf.
Non poteva impedirgli di andare. Sarebbe andato.
Salì in camera in silenzio. Doveva dormire prima che fosse notte, prima che potesse intraprendere la strada per Pontgoing. Mancava ancora qualche ora al tramonto. Chissà come era finito nella buca. Al riparo dal sole la forma umana era tornata. Per fortuna. Oppure no. Forse qualcuno lo aveva aiutato. Ma non sapeva chi. Non ne aveva idea.
Si chiese se potesse davvero fidarsi della fata dai capelli verdi. Ma non aveva importanza. Doveva rischiare. Lo avrebbe fatto.
Arianna.
***
Questo capitolo è arrivato secondo al concorso di danetta-chan
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