Prologo


Il giovane nuotava nelle profondità marine, avvicinandosi sempre di più al fondale sabbioso. Ormai da molto tempo la luce era totalmente scomparsa, tanto era sceso, e solo la magia lo teneva al caldo e gli impediva di implodere come un sacchetto di patatine.

Intorno a lui guizzavano innumerevoli pesci dall'aspetto incredibile, che mai avrebbe immaginato di vedere in vita sua, e dissimili da qualsiasi altro della loro specie: grossi, pallidi e cechi, che sfuggivano alla sua presenza quando lo sentivano nuotare al loro fianco, meno agile e aggraziato degli abitanti del fondale.

Erano privi di occhi riconoscibili, molti dotati di lunghi denti simili a zanne, alcuni con bocche così larghe che sembravano dei piccoli buchi neri. Farsi mordere da una di quelle creature poteva essere molto spiacevole. Doveva ammetterlo, facevano un po' paura a vedersi. Fortunatamente, la popolazione marina era estremamente rada a quelle profondità, e difficilmente un essere umano (specialmente un mago) doveva preoccuparsi di loro.

Continuò a nuotare verso il basso, gettando uno sguardo al profondimetro che portava al polso, scoprendo di avere già superato i tremila metri. Non doveva mancare molto.

Quasi non aspettasse altro, dal buio più profondo cominciò lentamente a emergere una sagoma, a malapena visibile alla luce del semplice incantesimo illuminante che stava adoperando per vedere dove nuotava: era un'enorme costruzione di pietra, diroccata e crollata in più punti, piena di incrostazioni e residui di sabbia e sporcizia dovuti a millenni passati su quel fondale, circondata da migliaia e migliaia di altre rovine che a fatica affioravano dalla sabbia.

Se erano così individuabili non era certo grazie alla fortuna, quanto alla potente magia e all'antichissima tecnologia che permeava tutto, rendendo impossibile alla sabbia, all'acqua e agli animali distruggere quelle costruzioni, invisibili a chiunque non possedesse ciò che lui, invece, aveva ritrovato un anno prima in Micronesia, dentro un'altra antica rovina.

Era un bracciale di metallo, ricoperto di incisioni alle quali non era stato in grado di dare un significato preciso, malgrado la sua esperienza. Lo indossava attorno al polso sinistro, sopra la tuta da immersione e, qualunque fosse il suo potere esatto, di certo lo rendeva capace di orientarsi in mezzo alla metropoli sommersa senza alcun problema.

Guardò la piramide per qualche secondo, immobile nell'acqua; sapeva di dover entrare là dentro, ma sapeva anche che non poteva farlo semplicemente attraverso uno dei tanti fori sulla sua superficie: stando alle sue ricerche era necessario trovare prima un passaggio adeguato nelle sue pareti già bucherellate, il solo che l'avrebbe condotto a destinazione. Ogni altra strada sarebbe stata un vicolo cieco o una trappola.

Girò attorno alla struttura, un occhio posato sul bracciale... sarebbe cambiato quando si fosse trovato abbastanza vicino...

Tutte le rune scomparvero all'improvviso mentre passava davanti ad una parete particolarmente ricoperta di melma e sabbia. L'entrata era lì.

Prese un coltello che si era portato dietro e rimosse la sporcizia, stando attento a non danneggiare lo strato sottostante, che si era conservato perfettamente grazie alla magia e alle tecniche avanzatissime con cui era stato costruito. Sopra vi erano incisi dei simboli, leggermente diversi da quelli del bracciale, e questi era in grado di tradurli: per aprire la porta era necessario un tributo di calore e di legno.

Grandioso... fuoco e legno, le due cose peggiori da far apparire sott'acqua... Pensò scocciato.

Tramite l'incantesimo di creazione si procurò una bolla di vetro, grande quanto un pallone da calcio, svuotandola completamente dell'acqua che avrebbe dovuto altrimenti contenere. Attraverso la magia del fuoco, poi, accese una fiamma lì dentro, annullando poi la dispersione del calore nel raggio di due metri (il massimo che poteva permettersi) perché potesse essere percepita dai simboli.

Il muro tremò un momento, ma non successe altro: ancora non era sufficiente, mancava il legno. E quello non poteva limitarsi a metterlo dentro una palla di vetro.

Dovette quindi scendere ancora un po', fino al fondale vero e proprio, dove si trovavano numerosi relitti marci e pietrosi, assolutamente inutilizzabili, oltre che alcuni crostacei più o meno grandi, enormi scogli taglienti e sabbia a non finire.

Cercò un punto particolarmente spoglio e, da un sacchetto appeso alla cintura, tirò fuori un piccolo seme che piantò nel fondale. Ci sparse sopra alcuni piccoli granelli scintillanti presi da un barattolo contenuto sempre nella stessa borsa e, dopo alcuni minuti di attesa, un germoglio spuntò sotto i suoi occhi.
Nel giro di pochissimo tempo, davanti a lui, c'era una pianta che quasi lo equivaleva in altezza, con un solido fusto di legno simile a quello di una betulla, ma con una chioma fluida e ondeggiante, fatta da tante striscioline verdi e sottili. Sembrava essere sia un albero che un'alga. Sarebbe morto in fretta, là sotto, senza luce con cui eseguire la fotosintesi, ma avrebbe fatto comunque la sua parte.

Quanto mi piacciono gli incroci a crescita rapida... Pensò tra sé.

Decisamente, aveva fatto bene a portarsi dietro il necessario. Meno male che si era documentato prima di partire.

Con il coltello tranciò un ramo e nuotò fino al muro, accanto al quale brillava ancora il fuoco sottovetro alimentato dalla magia, e passò una mano sulla roccia: un punto in particolare, nel centro di un cerchio di rune che prima, senza il fuoco, non era riuscito a vedere, brillava pigramente. Al suo interno c'era un simbolo che significava, approssimativamente, "qui".

Colpì il punto indicato col ramo; immediatamente, il muro riprese a tremare, e stavolta non smise. Lentamente, nella parete cominciò ad aprirsi un foro che si allargò fino a permettere il passaggio di un uomo non particolarmente grasso. Senza esitare, ci nuotò dentro e attraversò uno stretto corridoio di pietra, al termine del quale intravedeva una debole luce color cobalto.

Probabilmente, laggiù c'era la cosa che cercava.

Arrivato alla fine del corridoio (che non era certo cortissimo) si ritrovò in un'enorme stanza in rovina, anch'essa piena di incrostazioni di sale e sabbia. Sul soffitto, simile a un lampadario convesso, era incastrata la fonte di luce che dava a tutto l'ambiente quell'apparenza spettrale: un solo, minuscolo frammento di cristallo azzurro, lungo non più di cinque centimetri.

Lo guardò per alcuni istanti, stupito dalla sua forza e dalla sua lucentezza: gli era difficile concepire come qualcosa di così minuscolo e impiegato in un modo tanto diverso dal suo vero utilizzo (a quanto ne sapeva, era in grado di guarire) potesse fornire tanta luce, anche in un ambiente simile e dopo millenni di immobilità.

Nuotò fino al soffitto, coltello alla mano, e con quello cominciò a fare leva. Nel giro di pochi minuti riuscì a forzare il frammento di cristallo, tirandolo fuori dalla sua culla di roccia; quello gli scivolò nel palmo aperto, fluttuando qualche istante nell'acqua che lo circondava.

Immediatamente, la luminosità che emanava scomparve, riassorbita dalle profondità marine, mentre tutto intorno scendeva l'ombra, smorzata appena dal suo lume magico.

Stava per voltarsi e andarsene quando sentì un rumore attutito giungergli alle orecchie, tipo di pietra che cadeva. Si voltò di corsa, appena in tempo per vedere un lunghissimo tentacolo pieno di ventose che cercava di ghermirlo.

Con un guizzo si portò lontano dal pericolo, mentre da una porta che prima non aveva visto (probabilmente si era aperta quando aveva preso la scheggia di cristallo) usciva un gigantesco essere dotato di innumerevoli arti. Non era facile da riconoscere con tutto quel buio, ma non aveva dubbi: quello era un Kraken.

Più velocemente che poté si diresse verso il corridoio d'uscita, ma un colpo particolarmente potente dato da uno di quei tentacoli a una colonna fece crollare parte del soffitto, e la porta fu ostruita dalle macerie.

Senza pensarci un attimo si voltò e si nascose dietro un pilastro, mentre un altro tentacolo lo inseguiva; continuando a nuotare, evitò meglio che poté ogni suo attacco, cercando in tutti i modi di non finire in trappola, e continuò a costringere il gigantesco polpo ad attorcigliarsi attorno alle poche colonne che ancora reggevano il soffitto: se fosse riuscito a farlo crollare, sarebbe potuto uscire da lì.

Non dovette attendere poi molto: il Kraken era tanto forte che i pilastri cedettero dopo pochi minuti, già indeboliti dai millenni che li avevano visti costretti a sopportare la terribile pressione sottomarina, spezzandosi come grissini sotto la suola di una scarpa.

Subito, il soffitto cominciò a cadere e le macerie piombarono addosso al mostro mentre lui, molto più piccolo e agile, le schivava una dopo l'altra, senza risparmiare la magia per proteggersi da quelle troppo grandi per essere evitate. Continuando a difendersi e a svicolare a destra e a sinistra si diresse verso l'alto, nuotando il più velocemente possibile, lasciandosi alle spalle il tempio sommerso ormai in rovina, il Kraken morente e la civiltà scomparsa alla quale tutto ciò era appartenuto...

Ovvero, l'antichissima civiltà di Atlantide.

***

Due settimane d'inferno, ecco cos'erano state: un doppio funerale, un bambino rimasto orfano, il lavoro che andava a rotoli, il suo migliore amico che presto o tardi si sarebbe arrabbiato a morte con lei, il litigio con suo padre, un viaggio interminabile e la quasi totale mancanza di sonno.

Cos'altro poteva capitarle?

Camminava da sola, di notte, in mezzo a una stretta via deserta nel bel mezzo di una città addormentata e silenziosa, sotto la pioggia battente, senza ombrello e senza un cappotto. Tutto era così buio e così freddo che le sembrava di essere in mezzo al niente.

Era bagnata fradicia e immersa nel silenzio, rotto soltanto dallo scrosciare dell'acqua che le cadeva sulla testa, le si insinuava tra i capelli e le inzuppava i vestiti. I suoi piedi affondavano in pozzanghere gelate formatesi nelle buche dell'asfalto stradale, sconnesso e crepato in più punti. Non aveva scarpe, le aveva perse.

Sanguinava da vari graffi aperti su tutto il suo corpo, graffi che ormai nemmeno ricordava come si erano formati, tante ne aveva passate soltanto quel giorno. Molti, forse, risalivano anche a un po' di tempo prima. Si ripromise di curarsi appena ne avesse avuta l'occasione.

Strinse più forte tra le mani la sfera metallica, chiedendosi se tutto ciò valeva il dolore che altri avevano subito e la fatica che lei stessa stava facendo.

Scelse di credere di sì.

Al suo udito, pur se limitato dalle gocce frenetiche della pioggia, non sfuggì il suono di un tonfo sordo e attutito, come di un martello imbottito che piombava di botto su qualcosa di duro. I suoi sensi percepirono un tremito leggero nel suolo. Qualcosa di molto pesante era atterrato dietro di lei.

Altri rumori simili risuonarono su tutta la strada. Le pozzanghere tremolarono, e non solo per le gocce d'acqua che ci finivano dentro. Un fetido odore di cane bagnato le ostruì le narici. Bassi ringhi sovrastarono lo scroscio della pioggia e il suono del vento.
Strinse la sfera tra le mani con ancora più forza di prima: niente paura. Niente rabbia. Niente disperazione. Niente dolore. Era tempo di battersi.

Mise via l'oggetto ed estrasse i due lunghi machete d'argento che le pendevano dai fianchi, voltandosi rapidamente ad affrontare i quattro Licantropi inferociti.

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