Cap. 37: L'incontro
Kyle entrò senza bussare nell'ufficio di Ducan, scuro in volto, e si sedette rapidamente davanti alla scrivania, così rabbioso che la sua mano destra si ritrovava avvolta in una fiamma fredda.
- Ah, prego, entra pure...- sbottò Ducan, sarcastico - Sei comodo?-
Si capiva che era irritato dal suo comportamento. Lui lo ignorò.
- Ti devo parlare.- disse, lasciando perdere le formalità.
- E di cosa?- chiese l'uomo, guardandolo. Non gli era sfuggito il passaggio dal "lei" al "tu", che Kyle usava solo quando era arrabbiato, nervoso o di fretta - Della tua piccola uscita fuori orario?-
- Non sono più un bambino, Sebastian.-
- Lo so. Sei il mio miglior collaboratore. Anzi, sei quasi un figlio, Kyle.- Ducan si sporse un po' in avanti, congiungendo la punta delle dita, i gomiti sul ripiano della scrivania - Senti, da quanto ci conosciamo?-
- Più o meno da quando mi hai visto fare a botte con le tue vecchie guardie del corpo.- rispose lui.
- Già... e fino ad ora non mi hai mai deluso. Sono arrivato a tenere davvero a te... a preoccuparmi per te. Ma ti stai comportando in modo assurdo... non che fossi molto diverso, da piccolo.-
- Cosa c'entra, adesso?-
- Oh, andiamo, sai bene cosa voglio dire.- rispose Ducan, sospirando - Non puoi negare che all'epoca fossi una scheggia impazzita.-
Kyle non rispose, ma dentro di sé sentiva che Ducan aveva pienamente ragione: quando era piccolo le cose erano molto diverse. Lui era molto diverso. Praticamente allo sbando.
Proprio per questo non avrebbe mai scordato il modo in cui la sua vita era cambiata.
***
Era passato circa un anno da quando suo fratello era scomparso, e da allora lo aveva sempre cercato in lungo e in largo, ottenendo solo insuccessi. Ogni volta che credeva di avere una pista, o di aver trovato un indizio, tutto svaniva dopo pochi passi, come neve che evaporava al sole.
Ovunque fosse fuggito, non riusciva più a trovarlo.
Non si era ancora arreso, certo: non avrebbe mai smesso di cercare, ma viaggiare in lungo e in largo in quel modo, alla sua età, senza nessuno, rendeva tutto molto più difficile. Aveva setacciato quasi tutto il Nord Dakota senza alcun risultato per mesi, e alla fine aveva dovuto accettare l'idea che suo fratello avesse lasciato lo stato. Il problema era che ce n'erano altri quarantanove in cui poteva essersi nascosto, senza contare il Canada.
Sempre che non fosse morto.
La sola idea gli faceva venire la pelle d'oca: dopo che si era trasformato, Timmi lo aveva aggredito e ferito, poi era fuggito via. Riprendersi e trascinarsi al sicuro era stato difficile, e quando era riuscito a tornare a casa lui era già scomparso. La possibilità che, dopo aver recuperato il controllo, Timmi fosse finito sotto una macchina sulla superstrada, o tra le fauci di un grizzly tra le montagne gli aveva sfiorato la mente quasi subito.
Tuttavia era un mezzodemone come lui. Ucciderlo non sarebbe stato tanto semplice.
Proprio per questo motivo lui stesso era ancora vivo: i suoi poteri gli erano stati di grande aiuto nel corso delle sue peregrinazioni, e lo avevano tenuto al sicuro.
Inoltre, durante quel periodo di solitudine aveva spesso incrociato comunità di esseri magici, dai quali aveva imparato qualche novo trucco che poteva essergli utile, o a controllare meglio le capacità che già possedeva.
Nonostante ciò, aveva evitato accuratamente di fermarsi troppo a lungo in uno stesso posto, limitandosi a prendere ciò di cui aveva bisogno e a ripartire: nonostante avessero dei poteri, con loro non si era trovato molto meglio che con gli esseri umani. Non era un mago, né una qualsiasi creatura magica come le altre. La sua magia era di tutto un altro tipo, di diversa natura e loro lo sapevano. Adar Molok lo proteggeva, lo rendeva forte, quasi invincibile, ma al tempo stesso lo separava da tutti quanti. Era diverso, e come tale veniva trattato. Per questo non lo accettavano.
Ormai si rendeva conto di non appartenere a nessuno dei due mondi: aveva un demone in corpo, che lo proteggeva e lo elevava a un livello superiore ai mortali, ma al tempo stesso lo allontanava dai maghi, poiché essi avevano paura di quelli come lui.
Qualunque fosse il suo posto non lo aveva ancora trovato ma era certo che, rintracciato suo fratello, avrebbe potuto rimediare. E così continuava a vagare da solo, rubando, elemosinando o facendosi accogliere brevemente dai servizi sociali ogni qualvolta decideva che fosse conveniente farlo.
Tuttavia, nonostante la sua confusione e la sua scarsa fortuna, non si muoveva a caso, alla cieca.
A volte sentiva di non avere alcuna meta, di non sapere dove cercare, questo era ovvio... ma altre volte, invece, si rendeva conto di quanto il demone gli fosse vicino. Era come se parlasse direttamente alla sua anima, suggerendogli dove andare o cosa fare. La sua voce poteva restare in silenzio anche per settimane, ma era sempre pronta ad indicargli la via, illuminando il percorso a piccoli passi. Talvolta la sentiva in sogno, proveniente da sotto il cappuccio di un uomo alto che indossava un lungo mantello nero e che portava attorno al collo un medaglione simile a una rosa nera con un occhio nel centro.
Fu seguendo quella voce, quei sogni e quelle indicazioni che, alla fine, trovò Sebastian Ducan.
Successe che una sera, affamato, stanco e infreddolito, si trovò a passare sotto a un albergo di lusso, al centro di Fargo: la voce gli aveva detto di cercare quell'edifico, e i sogni gli avevano mostrato il suo profilo. Qualsiasi cosa ci fosse al suo interno, era lì che doveva andare.
Parlando con altri vagabondi era venuto a sapere che il ristorante dell'albergo aveva sempre parecchi avanzi, e sperava di prenderne qualcuno per sfamarsi. Da tempo non mangiava qualcosa di decente: due giorni prima (la data a cui risaliva il pasto più sostanzioso di quel mese) era stato costretto a mangiare un ratto, misericordiosamente cotto. Gli serviva di meglio.
Era appena arrivato all'ingresso delle cucine, quando udì dei rumori metallici e un tramestio poco promettente provenire da dentro l'edificio; pochi secondi dopo, un cuoco grasso e alto il triplo di lui spalancò la porta, buttando fuori un uomo dall'aria trasandata e malconcia.
- E resta fuori!- sbottò - Accattoni...- ringhiò, tornando dentro e sbattendosi la porta alle spalle.
Non si era accorto di Kyle, che si era nascosto dietro un cassonetto. L'uomo che era stato sbattuto fuori giaceva a terra, semisvenuto, a gemere e ad agitarsi debolmente tra i rifiuti. Kyle si strinse l'enorme e consumato cappotto grigio e gli si avvicinò in fretta, cominciando a frugargli nelle tasche: trovò un coltello a scatto, un anello d'oro (quasi sicuramente rubato), una vecchia armonica, qualche biglietto e un orologio rotto.
Prese tutto, tranne i biglietti e l'armonica, pensando di riuscire magari a rivenderli per una cifra sufficiente a pagarsi un panino. Si stava giusto rialzando, quando l'uomo scattò, afferrandolo per la gola.
- Tu...- ringhiò, ancora lievemente intontito - Piccolo ladruncolo... ridammeli...-
Senza esitare un solo istante, Kyle aprì il coltello e lo colpì al petto. L'uomo lo lasciò andare, boccheggiando; annaspò un po', poi si accasciò a terra e non si mosse più. Scocciato, Kyle si rialzò, massaggiandosi la gola, guardando in cagnesco l'uomo.
- Vecchio idiota...- mormorò.
Si voltò e uscì dal vicolo, raggiungendo la strada davanti all'albergo. Un uomo in divisa rossa salutava l'entrata degli ospiti, chiedendo ogni tanto se si erano divertiti o augurando una felice passeggiata a chi usciva. Gli dava le spalle, e quindi non lo vide sbirciare.
Kyle tornò nel vicolo: a giudicare dalle persone che entravano lì dentro, l'albergo ospitava soltanto gente piena di soldi, che probabilmente teneva parecchi ninnoli preziosi in camera. Magari le cose migliori si trovavano in luoghi più sicuri, ma un tentativo non sarebbe stato certo uno spreco di tempo, specie con i suoi poteri ad aiutarlo. Decise che il panino avrebbe aspettato.
Raggiunse la scala antincendio, troppo alta perché un semplice bambino potesse raggiungerla. Se c'era una cosa che non gli era mai riuscita bene, era levitare: aveva scoperto da poco quel potere, e ancora non sapeva controllarlo, quindi sarebbe stato meglio non rischiare. Quanto a saltare (poteva raggiungere anche i due metri di altezza) non se ne parlava proprio: la settimana precedente era inciampato in una buca, e si era storto la caviglia. Ora era migliorata, ma non se la sentiva di sforzarla troppo, per quanto robusto potesse essere il suo fisico.
Si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa da usare, e trovò il cassonetto accanto al quale aveva ucciso il barbone; si avvicinò al contenitore della spazzatura e con uno sforzo davvero minimo riuscì a sospingerlo fin sotto la scaletta, usandolo per arrampicarsi. Ignorò le finestre dei piani più bassi: le camere migliori erano sempre quelle più in alto.
Quando fu salito di qualche decina di rampe forzò la finestra di un corridoio con i suoi poteri e entrò. Gli allarmi non suonarono, aveva imparato da tempo a disattivarli con la magia. Quanto alle casseforti, aprirle era un giochetto da niente.
Scrutò lo spazio bene illuminato, il pavimento ricoperto di mattonelle marmoree e le porte bianche chiuse a chiave: nessuno. Rapidamente, avanzò nel corridoio, tendendo l'orecchio per capire quali fossero vuote e quali no.
All'improvviso sentì il bisogno di fermarsi, come se qualcuno gli avesse appena detto di non andare oltre.
Si trovava accanto alla porta di una camera, e senza alcun motivo gli venne un'incredibile voglia di entrarci. Comprese quasi subito cosa stava succedendo: Adar Molok voleva che entrasse lì dentro, o forse era la figura incappucciata. Magari erano entrambi.
Forse lì dentro c'erano indizi per trovare Timmi, se non addirittura Timmi stesso (speranza assurda, ma per lui era impossibile sperare il contrario). Senza esitare, usò la magia per far scattare la serratura ed entrò.
L'interno era immerso nel buio, anche se la luce di un lampione filtrava attraverso le tende dell'ampia finestra davanti a lui.
Accese le lampade e richiuse la porta, guardandosi intorno: era una bella camera, ampia come un appartamento, formata da almeno tre stanze più il bagno. Lui si trovava nel salottino, dove un bel televisore scrutava silenzioso l'ambiente rivestito di moquette color panna e di carta da parati in tinta. Un enorme lampadario spandeva luce un po' ovunque, rendendo la stanza luminosa ed accogliente.
Incassato in una parete c'era un fuoco elettrico, di quelli regolabili con le manopole. Un divanetto rosso e due poltrone erano state sistemate accanto a un tavolino di vetro, e alcune piante in vaso decoravano il tutto.
Rimase brevemente abbagliato da tutta quella comodità, ma si riebbe subito, mettendosi all'opera; in pochi minuti mise la stanza sottosopra: rovistò nei cassetti, aprì le valigie, sventrò i cuscini, svuotò gli armadi, ruppe la cassaforte e controllò le tasche degli abiti, arrivando a racimolare un discreto gruzzoletto tra contanti, anelli d'oro e l'orologio che aveva trovato in un cappotto.
- Credo che non dovrò preoccuparmi, per un po'...- ridacchiò tra sé, mettendo tutta la refurtiva in tasca.
In quel momento udì voci e passi provenire dal corridoio, sempre più vicine. Rapidamente, spense la luce ed indietreggiò fino al letto.
- ... incredibile... no, dico, incredibile!- sbottò una voce - Il mondo sta davvero peggiorando... un barbone morto nel vicolo... ma guarda tu che tempi! Aaah, se solo ci fosse un modo per cambiare le cose...-
L'uomo si fermò davanti alla porta e una chiave cominciò a grattare la serratura, facendogli perdere qualche battito: non aveva paura di nessuno, ma non gli andava di farsi beccare in mezzo a quel macello. Rapido come un fulmine, si fiondò nel bagno e chiuse la porta; cercò freneticamente la chiave, ricordandosi solo in quel momento che l'aveva fatta cadere nell'altra stanza poco prima.
- Che diavolo...!- esclamò l'uomo - Qui ci sono stati i ladri! I ladri!- gridò - Qui! Nella mia camera...- cominciò ad ansimare - Aria... la finestra, aprite la finestra!- gridò, rivolto a qualcuno che evidentemente era con lui.
Per qualche secondo ci fu soltanto il silenzio, rotto solo da un rumore di molle cigolanti, come se qualcuno si fosse seduto sul divanetto o su una poltrona. Contemporaneamente, una finestra venne aperta.
- Tu...- gracchiò l'uomo, ancora non del tutto ristabilito - Vai a chiamare la vigilanza... e il direttore...-
- Scusi, capo...- disse un'altra voce, profonda e pesante - Se lui va, io potrei andare al bagno?-
- Al bagno!- esclamò l'uomo - Io vengo rapinato e tu vai al bagno... e va bene, razza di inutile energumeno... tu invece dì al direttore...-
Kyle non ebbe modo di nascondersi: la porta si aprì, la luce si accese e un uomo in giacca e cravatta scurii, massiccio, nero e calvo, entrò nella stanza.
Si scambiarono una lunga occhiata silenziosa. Kyle sostenne il suo sguardo senza paura o esitazioni, a dimostrazione del fatto che non lo temeva. Semmai, era il contrario.
Alla fine l'altro si riebbe e, accigliandosi, lo prese per un braccio e lo trascinò fuori di malagrazia.
- Guardi qui, capo!- sbottò - Qualcuno stava usando il bagno senza permesso!-
Kyle si divincolò dalla stretta e guardò gli altri due uomini presenti nella stanza, uno in piedi, l'altro seduto su una poltrona.
Quello in piedi indossava lo stesso completo del collega, e aveva una corta zazzera rossa a ricoprirgli la testa. L'altro, evidentemente il loro capo, era basso e tozzo, dal ventre sporgente. Doveva avere una cinquantina d'anni o poco più. I capelli grigi si stavano già diradando sulla sua testa, lasciando scoperta una porzione di pelle sempre più ampia.
- Piccolo delinquente...- sbottò quest'ultimo - Sei stato tu a fare questo macello?-
Kyle non rispose. Una mano gli calò sulla spalla, scuotendolo leggermente.
- Ti ha fatto una domanda!- grugnì l'uomo che lo aveva fatto uscire dal bagno.
Siccome lui non accennava ancora ad aprire bocca, lui lo afferrò di nuovo, stavolta con maggiore energia, e l'altro si avvicinò.
Kyle non ebbe alcuna esitazione, come poco prima nel vicolo: afferrò il polso del primo, stringendolo così forte da romperglielo, e lo colpì all'addome, facendolo piegare in due. Come un fulmine, si inginocchiò e diede un forte pugno nel ginocchio all'altro, che cadde a terra gemendo e sbattendo la testa.
Kyle si rialzò e tirò fuori il coltello, pronto a colpire per uccidere, stavolta, quando si accorse che il terzo uomo era in piedi, ma non stava cercando di colpirlo, né pareva intenzionato a chiamare aiuto. Sembrava solo estremamente sorpreso.
Dopo qualche secondo, comunque, alzò le mani e cominciò ad applaudire lentamente, impressionato.
Anzi, sorprendentemente, gli stava battendo le mani.
- Bravo...- mormorò, colpito - Incredibile... se non lo avessi visto, non ci avrei mai creduto.- disse - Un ragazzino come te che riesce a battere due uomini adulti e in salute. Veramente... stupefacente!-
Kyle rimase interdetto per qualche attimo, spiazzato dalla reazione dello sconosciuto.
- Grazie.- disse stupito e, in parte, imbarazzato: non era abituato a ricevere complimenti, soprattutto per una cosa così.
- Dimmi, ragazzino... chi sei?- chiese l'uomo, facendo un passo verso di lui.
Istintivamente, Kyle indietreggiò alzando il coltello, fissandolo con aria di sfida.
- Oh, non voglio farti male.- rise l'uomo alzando le braccia - Anche volendo, credo proprio che non potrei, vero? Dai, dimmi chi sei. Io mi chiamo Sebastian.-
Per qualche minuto Kyle rimase in silenzio, diffidente.
- Mi chiamo Kyle.- rispose infine - Kyle Anderson.-
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