Parte seconda - Strazio

- No!

L'urlo di Selwyn, carico d'angoscia, lacerò la notte.

Si ritrovò a sedere rigido nel letto, il volto e le mani sudate, l'orrore negli occhi neri spalancati.

Il Sigillo di Sangue di nuovo ardeva nelle sue vene.

Sembrava impossibile, ma aveva scordato il bruciore intenso dentro la carne, e, con esso, aveva in ogni modo cercato di dimenticare l'agghiacciante disgusto che vi era legato.

Il suo avido desiderio bestiale, contrapposto al suo umano, disperato e angosciato ribrezzo.

Il Sigillo era tornato evidente all'interno del polso, rosso e nitido sulla pelle pallida, con il sogno tremendo e il sangue, marea montante che cercava di travolgerlo e sommergerlo.

Odiava il sangue.

Il sangue sulle sue mani bianche e sottili. La colpa e il rimorso a lacerargli l'anima.

Il sangue lo disgustava. Non ne sopportava l'odore. Gli dava il voltastomaco.

Ma c'era stato un tempo in cui l'aveva bramato, con folle determinazione e avida, inappagabile e disumana sete.

Era stato tanti anni prima, quando la sua giovane e ambiziosa follia l'aveva condotto alla Confraternita del Sigillo del Sangue e le sue mani si erano macchiate di colpa.

Selwyn sospirò ai tremendi ricordi, alla maledetta scelta che aveva per sempre segnato il suo polso e condannato l'anima, arrivando quasi a distruggergli la vita: la scelta fatale che aveva permesso al Signore del Sigillo di Sangue di fare di lui lo schiavo più abietto tra tutti.

Solo una goccia di sangue.

Di sangue avvelenato.

Una piccola, minuscola, antica e dimenticata goccia di sangue vampiro

Non sapeva come il Signore avesse scoperto il segreto dormiente annidato come un morbo immondo nel suo corpo, tramandato di generazione in generazione e a lui stesso sconosciuto. Né sapeva quale oscuro sortilegio l'avesse risvegliata, dandole una nuova e famelica vita.

Ma ricordava bene, dolorosamente troppo bene, la macabra sete che scorreva nelle vene fino a farlo tremare di desiderio davanti alle sue vittime, la tremenda necessità di ucciderle per soddisfare la smodata smania e appagare infine l'insopportabile arsura della gola.

Non era un vero vampiro: stava alla luce del sole, gli specchi riflettevano la sua spigolosa immagine e, certo, non era immortale dato che il sangue scorreva, normale e caldo, nel suo corpo.

Doveva mangiava per vivere, ma solo il sangue riusciva a soddisfare l'atavica brama che cresceva irresistibile: l'istinto raccapricciante che il Signore del Sigillo dominava grazie a un'oscura malia e che ogni volta esplodeva sempre più violento e incontrollabile quando lo avocava a sé tramite il dominio del Sigillo.

Era allora che la sua disgustosa sete, smaniosa come non mai, erompeva di colpo, inarrestabile e incontenibile, e lo trasformava in un orribile mostro. Uccidere era diventato necessario, per saziare il famelico bisogno che gli bruciava la mente e la gola, per raggiungere il prezioso premio che ogni volta il suo Signore prometteva allettandolo con ripugnanti immagini.

E lui tremava, di desiderio e di disgusto

C'era stato un tempo raccapricciante in cui si era trovato di là del bene e del male, oltre il regno dell'umana natura, affogato in un irrazionale e orrido istinto, radicato in sé, eppure altro da sé: falso, staccato, lontano, relegato in un incubo infernale.

Un incubo di sangue.

A prezzo d'indicibili sofferenze, infliggendosi inauditi tormenti, con uno strenuo e ostinato sforzo di volontà era riuscito a sottrarsi all'istinto bestiale; era riuscito a fare riemergere la sua umana natura, a rientrare dalla finestra che il Signore del Sigillo aveva infranto per farlo irrimediabilmente sprofondare nell'orrida smania che lo aveva perduto.

Era riuscito a sfuggire all'oscura dannazione e a rinnegare l'odioso Signore; a richiamare a sé, con angosciata disperazione, tutta la propria forza di volontà e, a costo d'uno straziante supplizio, che si ripeteva ogni volta che il Sigillo avvampava sulla pelle, aveva saputo respingere l'istinto e resistere all'immondo bisogno, negandolo e ricacciandolo indietro, lontano, nell'Inferno da cui il suo orrido Signore l'aveva riesumato.

Il sangue era stato come una droga, l'unica bevanda che spegneva la tremenda arsura: non poteva vivere senza, eppure voleva, doveva dominarsi e fuggire dal disumano bisogno. Non poteva più uccidere per soddisfare la bestiale pulsione, non voleva più spezzare altre vite per rubare loro il caldo fluido vitale.

La totale astinenza che si era imposto, implacabile, era stata lancinante; gli sembrava di non riuscire neppure più a respirare tanto la gola, riarsa e secca per la sete da troppo tempo insoddisfatta, non permetteva all'aria di raggiungere i polmoni.

In quei momenti, fuggiva lontano da ogni essere umano, si allontanava dall'inebriante odore del sangue, così rivoltante per la sua ferrea volontà, ma deliziosamente squisito per i suoi sensi. Si rinchiudeva nella sua volontaria prigione, stringendo i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, guardandosi allo specchio, fissandosi in profondità negli occhi neri, cercandovi ostinatamente l'umanità che il Signore del Sigillo cercava di sottrargli.

Quando il bisogno di sangue diventava una tortura insopportabile, scivolava lentamente in ginocchio, e poi a terra. Si raggomitolava su se stesso, mordeva le labbra per non urlare e graffiava il Sigillo con le unghie, cercando di strapparlo via dalla sua carne: era da lì che nasceva l'insopprimibile desiderio che lo torturava, era tramite il Sigillo che il suo Signore soggiogava la sua umanità.

Ma non avrebbe ceduto. Mai.

Non cedeva neppure in quelle notti terribili, quando l'orribile brama sembrava indomabile, là, davanti al Sigillo ardente, di fianco alle altre bestie che il Signore dominava con il suo oscuro potere.

Ma lui voleva essere un uomo, non una bestia, per quanto straziante tormento quella scelta potesse costargli.

Così riusciva a resistere anche quando il Signore del Sigillo, un raccapricciante ghigno dipinto come una rossa ferita sul volto privo d'espressione, gli concedeva l'ambito premio: il corpo della vittima, grondante di sangue, il soffio della vita che ancora batteva, labile ma caldo.

Selwyn tremava, mentre assentiva bramoso e allungava avido le mani su quello che presto sarebbe stato solo un povero cadavere martoriato, mostrando al suo Signore, padrone dei suoi pensieri, i famelici desideri che voleva vedere: un essere bestiale chino sul collo squarciato, intento a dissetarsi con avidità.

Si allontanava veloce dal falò e dalle risa sguaiate dei confratelli schiavi del Sigillo, incapace di controllare il tremito delle mani mentre le sentiva riempirsi del fluido vitale, caldo e denso, nutrimento agognato e irresistibile, che si sarebbe inesorabilmente negato, ancora e sempre.

Camminava con il povero corpo in agonia stretto tra le braccia, augurandosi di non dover uccidere ancora, implorando che la morte sopraggiungesse misericordiosa prima dell'arrivo alla radura.

La radura della pietosa sepoltura, così l'aveva soprannominata.

Il luogo dove, in rispettoso silenzio ricomponeva le membra straziate e sanguinanti delle povere vittime innocenti, le lacrime a bruciargli le guance perfino più della sete che crudelmente lo divorava, odiando le mani sporche di sangue che, con estenuante lentezza, poco a poco si ripulivano nella terra smossa della fossa che le sue unghie con ostinazione scavavano alla ricerca di una redenzione irraggiungibile.

Pensava d'essere per sempre condannato a una vita infernale, al tremendo e interminabile strazio, rassegnato a soffrire come un dannato, perché solo un essere dannato realmente era.

Invece, una notte il suo Signore era scomparso e, mentre il Sigillo sbiadiva, l'orribile e disgustoso bisogno di sangue era svanito all'improvviso e Selwyn si era ritrovato inaspettatamente libero.

Libero di tornare a essere solo un normale essere umano.

Con umani desideri.



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