XVIII. Il castello di Abel

Partimmo per Neuberg un paio di giorni dopo. Avevo il sospetto, abbastanza fondato, che mio padre volesse liberarsi di me al più presto. A Neuberg non sarei più stata d'impiccio e avrei portato con me la cupa aurea della strega. Il viaggio durò tre giorni. Procedemmo con calma, in carrozza, fermandoci più volte. Dormimmo in due taverne. Porto un ricordo annacquato di quei momenti. Frammenti d'immagini. La voce di Abel.  La pioggia che scendeva. 

Arrivammo al castello la sera del terzo giorno durante un temporale. Io me ne stavo avvolta nel mantello che Abel mi aveva dato, rannicchiata nella carrozza sobbalzante, che continuava a impantanarsi a causa del fango. La nausea mi rendeva tutto insopportabile.

-Non manca molto- ripeteva ogni cinque minuti Abel.

Io avevo lo stomaco scosso dalla nausea. Il malessere fisico però non era nulla rispetto a quello che provavo. Avevo la percezione che la mia vita fosse finita, che stesse rotolando nel fango, verso un destino nero e invischiato.

La carrozza si fermò di colpo. Io sbirciai fuori. La pioggia scendeva fitta, ma riconobbi un cancello.

-Perché non entra?- bofonchiò Abel.

Rimasi in silenzio, lo sguardo perso nel buio.

-Aspettami qua- Abel uscì, la pioggia che picchiettava su di lui. Basilius, chissà dove si trovava. Era sotto quella pioggia? Oppure stava al chiuso, in una locanda? E se avesse avuto compagnia? Magari Yvonne. Il pensiero mi turbò più di quanto potrei dire a parole.

La portiera della carrozza si riaprì. Abel si spinse in avanti, incurante di gocciolare sui sedili. –Mi dispiace, ma dovrai scendere qua, il terreno dentro è pieno di fango, le ruote si bloccherebbero- sembrava quasi dispiaciuto.

-Dovrò camminare nel fango?- domandai, talmente sorpresa da non riuscire ad arrabbiarmi.

-Questo mai- allungò le braccia e mi afferrò, attirandomi a sé. La sensazioni di lui che mi stringeva mi riportò alle notti passate, ai suoi baci, alle sue carezze, al desiderio che lo infiammava quando eravamo soli nel letto. Un desiderio che io non provavo. Dissimulai e lui mi sollevò. Affondai il viso nella sua spalla per ripararmi dalla pioggia sferzante. Inspirai il suo odore e mi sforzai d'ignorare l'acqua che batteva violentemente su di me, nonostante lo spesso mantello e il cappuccio. Abel mi sussurrava parole che non sentivo.

La pioggia mi piaceva da bambina. Mia nonna diceva che la magia di donne come noi, discendenti dalla dea Melusina, fossero più forti quando l'acqua invadeva il mondo. Mi divertiva questo, così da piccola osservavo la pioggia dalle grandi finestre del castello, osservavo quel mondo che si copriva di lacrime. Un mondo in cui io potevo regnare.

-Arrivati- e fui, lentamente, appoggiata a terra. Mi aggrappai ad Abel con entrambe le mani, bisognosa di poter contare su qualcuno. Ero stata preparata a questo da tutta la vita, ma non mi sentivo comunque pronta. Alzai la testa lentamente, il cuore che martellava nel petto. Mio marito mi guardò, gli occhi che brillavano di dolcezza. Le sue dita si agganciarono al mio cappuccio grondante pioggia e lo spinsero indietro. –Andiamo, farò portare la cena in camera così staremo tranquilli-

Annuii e feci vagare lo sguardo nel salone. Un senso di tristezza mi tinse il cuore. L'ambiente era ampio ma buio. Arazzi scuri brillavano alla tenue luce delle candele. Figure mal vestite si muovevano e ci guardavano. No, guardavano me. Erano curiosi di vedermi. Sentii un lungo brivido lungo la schiena. Ghiaccio freddo. Non volevo stare lì. –Andiamo in camera- mormorai. Mi sarei mai abituata a quel luogo?

Il viso di Abel s'illuminò, come se poco prima avesse temuto di aver perso il mio amore. Beh, difficile perdere qualcosa che non si ha mai avuto. –Certo, io... -

-Padre-

Un silenzio pesante cadde nella sala. Vidi riflesso il disagio nello sguardo di mio marito. Padre... chi chiamava... un istante dopo nel mio campo visivo comparve un ragazzo. Il cuore mi si fermò. Era alto, con capelli scuri e lineamenti dolorosamente familiari. Nessun dubbio su chi fosse il padre. Abel si scostò da me.

-Padre- ripeté il giovane. Avanzò vestito di nero. Una creatura fatta di tenebre. Un istante dopo stava abbracciando mio marito. Sentii una fitta al fianco e mi resi conto che mi aveva dato una gomitata. Arretrai, sfuggendo alla debole stretta di Abel. Frammenti di passato si univano di fronte a me. Cosa stava succedendo? Barcollai e per poco non scivolai a terra. Aveva un figlio. Cercai di ricordare tutto quello che sapevo su quell'estraneo che avevo dovuto sposare. No, nessuno mi aveva parlato di un figlio.

-Wulf- disse Abel –cosa ci fai qua?-

-Volevo vederti... e conoscere la mia matrigna- alzò la testa e mi fissò con uno sguardo crudele. Occhi che ferivano. Mi costrinsi a stare ferma. Forse mi ero appena liberata di una nemica per trovarne uno qua.

-Non avresti dovuto- disse mio marito, grave. Compresi dal suo tono che io ero già stata argomento di discussione, forse nelle lettere.

Il giovane non replicò. Continuava a fissarmi. La cosa che più mi turbava, però, non era la sua ostilità, ma il fatto che dovesse avere all'incirca la mia età. Abel era dunque così vecchio che avrei potuto esserne la figlia?

-Ora vai, parleremo domani mattina- e Abel non attese altro, si liberò dalla stretta del figlio e mi afferrò il braccio. Mi lasciai condurre via.

Quando fummo in camera Abel mi parlò di Wulf, suo figlio. –Un errore adolescenziale- si passò una mano tra i capelli neri –la mia iniziazione- pareva vergognarsene.

Io lo ascoltai. In quella stanza buia, seduti su quel letto ampio, tutto sembrava stranamente irreale.

-Lui vive qua?- chiesi piano.

-Sì, normalmente vive al castello, ma lo avevo fatto allontanare, volevo prima parlartene-

Wulf però non era d'accordo. –Non gli sto simpatica- mormorai.

-Non è questo, lui è cresciuto solo, senza una madre, ha bisogno di cure, certamente pensava di trovare una donna più grande-

-Sembra che abbiamo la stessa età- mormorai.

-Lui ha due anni meno di te- si affrettò a dire, come se questo rendesse la situazione meno imbarazzante. Non era così. Mi sentivo mancare. Possibile che mio padre non sapesse? No, non era possibile. Lui doveva sapere. Peccato che non gli importasse.

-Mi odia- mormorai.

-Imparerà a volerti bene, sarai una brava madre-

Mi trattenni a stento dal ridere. Una brava madre? Io al massimo avrei potuto essere una sorella per quel ragazzo che mi odiava.

-Gli parlerò- promise Abel.

Non capiva. Abel non riusciva a capire. -La madre, che fine ha fatto?-

-Lei... non c'è più- fu la laconica risposta.

Non controbattei. Non indagai oltre. Quella notte mentii dicendo che avevo mal di testa per non dovermi sottoporre ai doveri coniugali. Abel non insisté, ma mi abbracciò.

-Mi farò perdonare- promise contro il mio orecchio.

Io non ci credevo. Mi addormentai e sognai corridoi bui. Correvo e non trovavo la via di fuga.

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