Copenaghen
La tempesta imperversava fuori, oltre la finestra chiusa, mentre lei, pensierosa, poggiava le sue piccole dita sul vetro appannato.
Uno sbadiglio le riempì le guance, facendo capire alla ragazza che, inavvertitamente, aveva sonno.
A grandi falcate, raggiunse il proprio letto, a baldacchino, matrimoniale, e ci si tuffò poco elegantemente.
Da quasi due anni, giusto il tempo in cui si era ambientata in quell'attico, lì, a Copenaghen, non era più riuscita a contattarla, e questo la rendeva triste.
Aveva sempre voluto bene a Charlotte, anche prima di accorgersi di volerla come più di un'amica, per questo aveva taciuto fino a quella fatidica sera.
La scoperta e l'ammissione della sua bisessualità erano state ben differenti da quelle descritte dalle sue amiche, a maggior ragione se vi aggiungiamo il trauma di avere una cotta mastodontica per una sua grande amica, quale Charlotte.
Charlotte, Charlotte, Charlotte, sempre lei. Aveva fatto una grossa fatica, a tenere per sé quanto trovasse teneri quei suoi occhi cangianti e quanto trovasse adorabile la sua risata, ad esempio.
La prima volta in cui lo disse a qualcuno, fu a Mylène, una ragazza sua amica, anche lei bisessuale.
Poi vennero Clelia, Juleka, Amèlie e tutte le sue amiche a cui si era sentita di dirlo.
E arrivò quella sera: pioveva, forse più forte di quella notte a Copenaghen, e Tolosa non le era mai parsa tanto vuota e buia.
Si era stretta nella felpa nera, solo il cappuccio a ripararla dall'acquazzone.
Com'erano finite lei e Charlotte in quella situazione?
Nemmeno lei lo ricordava.
«Quindi è per questo che mi stai dietro, eh? Perché hai una cotta per me?» l'amica continuava a rigirarsi, nervosamente, l'ombrello scuro tra le mani.
Le tremavano le ginocchia, sentiva freddo dappertutto, e la voce non voleva uscire dalle sue labbra.
«Io ti voglio bene... Charl-»
«Non chiamarmi per nome! Non cercarmi più! Non voglio avere nulla a che fare con una lesbica che ha una cotta per me!»
Non aveva avuto il coraggio di dirle che era bisessuale, non lesbica, non aveva avuto il coraggio di rincorrerla o di cercarla.
E così erano passati cinque anni.
Oramai la scuola era finita, l'Università pure.
Entrambe avevano un lavoro, seppur diverso e in nazioni differenti.
Eppure Charlotte le mancava ancora così tanto.
Aveva provato a chiamarla, dopo qualche mese, ma nulla da fare, nemmeno rispondeva più ai messaggi privati, dove, per i primi anni, aveva continuato a fare gli auguri per le feste.
Chiuse gli occhi. Prima che potesse addormentarsi, qualcuno suonò il campanello, in modo abbastanza insistente.
Aprì la porta, e il suono fastidioso dell'acqua del tè che bolliva le riempì le orecchie.
«E così sei ancora convinta che scrivere sia la tua strada.» disse la bionda, sorseggiando il tè nero, davanti ad una castana basita.
«Be', sì. Ne sono fermamente convinta.» ammise quest'ultima, aggiungendo un cucchiaino di zucchero.
«Senti...» la bionda poggiò la tazza delicata mente «So che non ci vediamo abitualmente perché non siamo mai state molto amiche, ma ho una proposta da farti, da parte di una certa persona.» concluse, ammiccando.
«Elenoîre, io...» anche lei ripose la tazza di tè.
La bionda rise fintamente: «Oh, non c'è bisogno di ringraziarmi, Bernie cara...» la castana si irrigidì: odiava quel soprannome «Diciamo che ti porto i suoi saluti. E due notizie: vuoi prima la buona o la cattiva?»
Bernadette deglutì alcune volte, prima di farle cenno a quella buona.
Elenoîre si schiarì la gola: «Ebbene, la buona è che posso offrirti un lavoro nell'azienda del padre di un mio amico, un lavoro che ti farà viaggiare in tutto il mondo, alla condizione che dovrai andartene di qui entro Natale.»
La pausa fatta dalla ricca ex-compagna di classe le fece male alla bocca dello stomaco. O forse era colpa del troppo zucchero nel tè.
«La cattiva...» si pulì i lati della bocca rossa con un tovagliolo «È che devi andartene perché, proprio qui di fronte, verrà ad abitarci Charlotte e lei non vuole vederti.»
Che schifo di vita, pensò Bernadette, mentre, in maniera davvero poco cordiale, cacciava dall'attico la proprietaria del palazzo, Elenoîre.
Senza pensarci su due volte, decise che doveva uscire di casa: detto fatto, messi gli stivali, prese le chiavi di casa, l'impermeabile rosso e l'ombrello, era già fuori casa, sotto la pioggia, ormai a catinelle, e sulla via per la libreria, uno dei pochi posti che visitava quando usciva a Copenaghen.
Stava rigirando tra le mani un libro piuttosto interessante che sembrava volesse essere comprato, quando, in seguito al solito scampanellío che segnalava l'entrata di qualcuno, una voce troppo familiare le attraversò i timpani: «Scusi, vorrei sapere se avete i libri di Jules Verne.»
Bernadette, subito, si nascose dietro agli scaffali dei libri per bambini.
Era davvero lei? Come avrebbe reagito trovandola lì?
Si sporse non troppo per dare un'occhiata; sorrise: avrebbe riconosciuto l'impermeabile blu scuro e l'ombrello scuro ovunque.
Si riparò nuovamente dietro lo scaffale
Come posso essere ancora così stupida?, si chiese per la millesima volta Bernadette, mentre rientrava in casa dopo una corsa piuttosto faticosa, scappando da lei.
«Apri questa porta, Bernadette!» i pugni sul legno di olmo non cessavano di bombardare la povera testa sonnolenta della ragazza.
«Prometto che... Non ti ferirò, stavolta.» i pugni erano terminati, così come la furia nella voce di Charlotte.
Bernadette aprì e si trovò davanti la ragazza che, per cinque anni, aveva invaso i sogni della povera incompresa.
«Bella casa. Conoscendoti, me l'aspettavo più... Disordinata.» disse con un soffio di voce.
Non era da Charlotte, essere così... Timida? Bernadette era confusa.
Si accomodarono entrambe sul divano di pelle grigia.
«Bernadette, tu... Provi ancora qualcosa per me?»
Dal canto suo, la ragazza voleva urlare.
Provava ancora qualcosa per lei? Puoi contarci!, strillava la sua coscienza.
D'altra parte, però, vi erano i pensieri fastidiosi che questa domanda le provocava: Perché me lo chiede? Perché non mi guarda negli occhi? Cosa le dovrei rispondere? Sì? Vorrei. No? Non posso mentire a quegli occhi, dopo tanto che li rivedo.
«Ehm... Bernie? Ci sei ancora?»
Solo nel momento in cui Charlotte le mosse la mano davanti agli occhi, capì che doveva risponderle, magari entro la giornata.
Stavolta aveva preparato del caffè, amaro, come piaceva a Charlotte.
La sua voce uscì incontrollata: «Sì.»
«Scusa? A che ti riferisci?» chiese, probabilmente nel panico, Charlotte.
«A me tu piaci, Charl-»
«Ecco, lo sapevo! Io vengo qui a vedere se posso darti un'altra possibilità e tu... Tu... Tu non capisci che stai sbagliando!» si alzò brusca dal divano.
Erano nuovamente alla porta, ma quella volta, Bernadette era seriamente in lacrime: «Charl! Charl, ti pregoo! Me la farò passare, lo giuro! Ti prego, resta...» mormorò infine, sull'uscio, stringendo, tra le dita piccole, un lembo dell'impermeabile dell'altra.
Sentì dei singhiozzi, sorpresa, e girò l'amata, scoprendola in lacrime.
«Charl, tu-»
«Smettila! Non guardarmi!»
Lei la prese per le spalle: «Charlotte, ascoltami! Devi fare respiri profondi, capito? Respira. Su, da brava...» e la tirò a sé, chiudendo la porta con una gomitata, mentre portava la sua cotta di sempre a sedersi sul divano, stringendola forte a sé, come se fosse questione vitale.
«Va meglio?» le domandò sorridendo.
Lei annuì e sorrise di rimando.
La tempesta non voleva abbandonare Copenaghen, quel giorno.
Sentì due braccia avvolgerla da dietro e si girò, sorpresa: «Hey... Che ne dici di parlarne?»
L'altra annuì ancora, senza guardarla negli occhi.
Bernadette le alzò il viso con due dita sotto al mento: «Charl, io...»
«Mi piaci anche tu.» sospirò l'amica.
Si trovarono, allora, a discutere di come si erano infatuate l'una dell'altra, sedute sul letto di Bernadette.
«E così... È dal viaggio in Giappone? Sotto ai ciliegi in fiore?» la padrona di casa arrossì.
«E tu... Dalla gita a Parigi, huh?» e anche l'altra arrossì.
Il silenzio creato dall'imbarazzo riempì la stanza.
Poi, una domanda: «Ma allora perché questi cinque anni?»
Charlotte trattenne il fiato: «Io... Non potevo, e non riuscivo, ad accettarlo. Sei sempre stata mia amica, ti ho sempre trovato carina, ma... Mi sentivo sbagliata, un vero schifo.»
Bernadette non ci pensò più di tanto e l'abbracciò di slancio, cadendole addosso.
Si ritrovarono, allora, in piedi, l'una di fronte l'altra, le braccia lungo i fianchi, senza riuscire a staccare gli occhi di dosso dall'altra.
Si avvicinarono, sincronizzando i respiri. Una canzone, da fuori, sembrò riempire la camera da letto, accompagnando i movimenti delle due ragazze.
Cold.
'Cause she has been here before.
She doesn't cry anymore, no looking back.
No.
She doesn't go to the bar.
Too many lovers she scarred, and they won't hurt back.
Si avvicinarono, sfiorandosi le braccia, inebriandosi l'una dell'odore dell'altra, quasi non potesse farne a meno.
She loves control,
She wants it her way,
And there's no way she'll ever stay unless you give it up.
Si strinsero l'un l'altra e presero a far scivolare le mani, come diverse carezze per i loro corpi scaldati.
She loves control,
She wants it her way,
And all it takes is just one taste, you don't wanna give it up.
E si baciarono.
Un bacio semplice, candido, che non poteva che trasportarle oltre la più fervida fantasia d'amore.
La musica scomparve, non c'erano che loro due.
Lì, Bernadette, abbracciata stretta alla sua Charlotte, ripensò ad un suo ricordo di bambina, quando tutto le sembrava facile e felice, con il padre:
«Papà, ma è vero che l'amore vince su tutto?»
L'uomo sorrise alla piccola che teneva in braccio: «Certo, tesoro. Niente può battere l'amore.»
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