Capitolo 9.1
Dal passato
Non c'era più.
Fu il mio primo pensiero al risveglio.
Se n'era andato.
La parte del letto dove avrebbe dovuto essere coricato Zeno era vuota. Le coperte erano di nuovo bianche tanto da sembrare ora asettiche.
Guardai per terra, ma niente.
Non c'erano granelli di polvere dorata neanche per sbaglio.
Come se non fossero mai stati lì.
Come se lui non fosse mai stato lì.
I mobili erano del solito colore frassino, scelto con i miei quando ero più piccola, senza alcuna linea di blu notte a comporre il cielo.
Tutto era in ordine, come avrebbe dovuto essere se avessi dormito da sola.
Roteai gli occhi, ma sopra di me notai solo il tragitto solitario di una mosca.
Il ragazzo si era ripreso ogni cosa, pure le nuvole dai colori accesi che avevano reso l'aria fumosa, mentre avevamo iniziato a spogliarci.
Sospirai.
Non lo avevo sentito andarsene, e avevo inoltre ignorato la sveglia, puntata alle sette per andare a lavoro. Ero in ritardo, dopo avrei dovuto fare i conti con la mia superiore, e non sarebbe stato divertente.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, mia madre bussò alla porta, chiamandomi con insistenza. Ringraziai che non ci fossero cumuli di oro in giro, o peggio, proprio Zeno seminudo accanto a me, non appena entrò.
«Lo sai che ore sono?» chiese.
«Le dieci», risposi, mordendomi il labbro, come a intendere "ops".
«Pensavo fossi già uscita, poi ha telefonato Emma dalla Bottega e ha chiesto se stavi bene.»
In fretta e furia, scesi dal letto, e aprii l'armadio, cercando i vestiti da mettere.
Non ero un'irresponsabile, accadeva di rado che continuassi a dormire beata, sperai che lei non iniziasse a sospettare qualcosa.
«Troppo stanca.»
«Ma stai bene?» si assicurò, scrutandomi meglio. «Dopo la tua gita a Montefioralle non ci siamo più viste.»
«Sì, tranquilla.»
Avevo dormito con un ragazzo che aveva esaudito due miei desideri, non mi potevo certo lamentare.
«Potresti prendere permesso», suggerì, appoggiandosi allo stipite della porta.
«È quello che devo fare, sì.»
«Intendo per l'intera mattina», puntualizzò lei, lasciandomi di stucco.
«In effetti...»
Anche se fossi uscita in una ventina di minuti, evento altamente improbabile, non ci avrei fatto una figura migliore, perciò che differenza faceva?
«Sai, sto mettendo a posto la soffitta, per quel progetto di farla tornare a essere un piccolo appartamento da affittare», m'informò.
Era uno spazio che avevamo riempito con vari cimeli della nonna, dopo il suo trasferimento nella casa di cura, molti dei quali inutili.
Senza contare le nostre cianfrusaglie.
«Un lavoraccio», commentai.
«Potresti aiutarmi, già che sei qua.»
Rimasi impalata per un istante. Ora era chiaro perché mi stava consigliando di restare a casa.
Sospirai di nuovo.
Non avevo voglia di affrontare subito Emma e sua madre, non dopo aver salvato Alfredo dall'Arno quella notte.
«Dammi dieci minuti.»
✴
Tuonava. Le due finestre della soffitta vibravano, come se il picchiettare feroce della pioggia sul tetto non fosse già abbastanza.
Gli scatoloni che avevo aperto erano colmi di carte ingiallite, per lo più documenti da macero, e controllarli a uno a uno era noioso.
Fuori la città era celata dalla nebbia, messa alla prova dal passaggio violento del temporale. Mi perdevo a guardarla, mentre mia madre impilava oggetti inutilizzati, instancabile, e li riponeva in altri scatoloni per portarli via.
A un certo punto, mi capitò tra le mani un plico di lettere imbustate e tenute insieme da uno spago, senza mittente né destinatario.
Pensai di metterlo da parte, in attesa di chiedere a mia madre che cosa farne e proseguire con il riordino, ma poi mi dissi che avevo bisogno di una pausa.
L'anonimato di quelle buste mi incuriosiva, potevano contenere qualsiasi cosa, perciò mi sedetti a gambe incrociate per terra, e ne aprii una.
Trovai una pagina scritta con una calligrafia tonda e pulita, da entrambi i lati, datata quasi settant'anni fa.
Lessi le prime righe.
Mia mamma nasconde qualcosa. O meglio, qualcuno. Sono tornata dalla sala da ballo, questo pomeriggio, e l'ho sorpresa a salutare dal portone un uomo distinto, dalla chioma scura e gli occhi chiari che non avevo mai visto nella nostra zona. L'uomo mi è passato vicino e mi ha sorriso, come se sapesse chi sono. Era così bello.
La pagina proseguiva con un resoconto della stessa giornata, senza più far riferimento a quell'uomo.
Terminata la lettura, andai subito a scartare la seconda busta, tirando fuori un altro foglio pieno di parole.
Avevo intuito che si trattava di sfoghi scritti da mia nonna Iside quando aveva circa una ventina d'anni.
C'è qualcosa di forestiero in quell'uomo, qualcosa che mia mamma non mi ha detto, ma che è chiaro come la luna e le stelle nel cielo sotto cui sto scrivendo. Siro, si chiama. Lei non lo presenta mai a nessuno, a stento me ne parla, eppure si incontra sempre con lui quando va a passeggiare.
La storia della mia bisnonna Agata mi era stata raccontata dai miei a grandi linee, ma non avevo mai sentito nominare Siro. La noia mi era passata, rovistando nel passato stavo conoscendo lati di mia nonna e della mia famiglia di cui ero all'oscuro.
Passai alla terza busta, alzando lo sguardo velocemente su mia madre, per capire se aveva bisogno di aiuto, ma lei sembrava una forza anche da sola.
Un ragazzo più grande mi ha chiesto di ballare. Cortese, mi ha teso la mano, guardandomi con occhi di chi ha già scelto e non ha più intenzione di scegliere. Il lento insieme a lui mi ha fatto battere il cuore così tanto che credo di aver sbagliato clamorosamente i passi, andando fuori tempo. Mi ha chiesto il nome, avvicinandosi all'orecchio, e quando gliel'ho detto, mi ha fatto fare una giravolta improvvisa e sono caduta tra le sue braccia in un modo indecente per un primo ballo. Credo di essermi infatuata di questo Dario, ho confidato a mia mamma a cena, anche se lei non mi ha ancora rivelato niente di Siro e ci sono rimasta male. Lei mi è sembrata felicissima, continuava a ripetere che il desiderio si sta avverando.
Un lampo illuminò la pagina che tenevo, con cura, tra le dita. Quel ragazzo, Dario, era mio nonno! Iside mi aveva accennato tempo fa che si erano conosciuti proprio in una sala da ballo in un pomeriggio di autunno.
Mi precipitai ad aprire la quarta busta, nella terza lettera nonna Iside si era dilungata a paciugare la carta con cuori e iniziali dei loro nomi, senza scrivere null'altro di nuovo su sua mamma e Siro. La quarta... era quella giusta.
È un uomo da temere. Ho dubitato fin dall'inizio di lui, pur se Agata fingeva indifferenza con me. Mamma nascondeva, forse se ne è innamorata. Io l'ho visto, Siro non è normale. Non è uno di noi. L'ho seguito in una notte in cui mi sono incontrata con Dario. È andato da solo fino alla diga, oppresso, teso. Siro si è spogliato del cappotto elegante, e si è sbottonato la camicia. Si è guardato la pancia con un'espressione di tormento, lì, in mezzo al verde e al freddo pungente. Per poco non sono scivolata su me stessa. La sua pelle era sporcata di nero. Un nero forte, quasi fosse carbone. Si è rivestito, ma quando ha sentito che mi muovevo dietro a un albero, i suoi occhi sono diventati cattivi. Brillavano.
Una storia dentro una storia. Quanto mi piace avere più sottotrame che si muovono con quella principale. Nonna Iside è un personaggio complesso, ma finora poco approfondito, perchè la sua malattia mi impedisce di farla aprire quanto vorrei. Ho usato quindi lo stratagemma delle lettere, per andare a presentare vecchi e nuovi personaggi con il suo punto di vista da giovane. Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Vi ricordo di lasciarmi stelline e commenti per supporto. A presto!
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top