Capitolo 41.1

                                                   Terra D'Ombra


Alcune impronta tolgono così tanto, da arrivare a non far vedere e sentire più bene. Il mondo in cui si cammina, rimane con il solo colore, della Terra d'Ombra.

«Hai dato l'acqua alle stesse piante di cinque minuti fa. I sottovasi ristagnano, guarda lì», mi indicò Emma, preoccupata per le radici. «E ce n'è una riga da bagnare che non hai considerato.»

Non sembrava importare, ciò che mi stava dicendo, come se riguardasse una versione di me che non conoscevo, eppure ero sempre io, a fare lo stesso lavoro.

«Giusto, mi tocca sistemare tutto», convenni, cercando un interesse che non avevo, per nulla che avesse a che fare con il presente in cui mi muovevo, o con il futuro.

Ero in una dimensione scolorata, la realtà di sempre era diventata spoglia, insignificante, e in questa mi trovavo persa, non funzionante.

Non riconoscevo gli altri, né tantomeno i boccioli su cui mettevo mano, se non filtrati dal tenore ombroso che li circondava.

«Ester, non hai guardato», si stranì lei, e io fui sul punto di ammettere che non avrei voluto fare altro che chiudere gli occhi, chiuderli alla mancanza, e alla verità.

Guardare monocolore era rendermi conto che ogni cosa era uguale all'altra, sbiadita e anonima, e io solo la respiravo.

Spostai l'attenzione dove la mia amica voleva che fosse, in apatia, e iniziai quelle piccole azioni che servivano a curare i fiori che avevo trascurato.

A mano a mano che il terriccio secco s'inumidiva, e io piegata continuava a versare, le lacrime ebbero lo spazio per velarmi lo sguardo basso, fino a strisciarmi la bocca.

Zeno sta morendo.

Le avrei dovute finire, da quante ne avevo già lasciate accanto a mia nonna, invece mi portarono a credere di essere inesauribili.

Ognuna aveva un sapore che ricordava qualcosa del Lie, e la velocità con cui caddero, replicò quella che aveva avuto lui nel saltare dentro a un fiume che sapeva gli avrebbe fatto male.

Mi asciugai il viso, impiastricciandomi la mano, ma non bastò. Non poteva bastare.

Sapevo che Emma si era dovuta allontanare per una novità in negozio, e non aveva fatto in tempo a notarlo, ma non volevo rischiare che tornando, mi facesse domande a cui non ero pronta a rispondere.

A quest'ora, Zeno doveva essere già soggetto all'ombra di quella terra, al deperimento, come io ero soggetta alla mia, e mi sentivo deperire dentro con lui.

Stella e morte.

Mi strinsi la maglia dal lato sinistro, a quell'accoppiata di significati, che sostituiva ciò che all'origine era stella e vita, laddove quest'ultima non era mai stata possibile.

Zeno significa vita.

Era l'acutizzarsi di una sofferenza che aveva la firma calcata di Elias, e anche la mia, perchè non ero stata in grado di non farmi abbandonare da lui, e questa ovvietà sfrigolava come il più bollente degli olii.

Posai l'annaffiatoio, se era vero che le piante percepivano la disposizione di coloro che ne toccavano le foglie, io di certo non ero una buona presenza per loro.

Cercai di fare ampi respiri, prima di dirigermi al bagno, dove chiusa a chiave, soffiai il naso più volte, e mi levai dalle guance ogni goccia straripata.

Restai più del necessario nascosta, isolata dal resto del mondo ottenebrato, ma non era sufficiente, agognavo di dormire, per smettere di vedere tutto così cambiato.

Qualcuno bussò alla porta, solo per quello mi feci forza di uscire, mi trovai davanti la Berti che mi fissava spazientita, e in qualche modo, ravvivata.

«Ecco dove eri, sei l'ultima a doverla ancora conoscere», disse, con un tono di voce che non cercava risposta, soltanto obbligo, come era scritto nel suo ruolo. «Vieni di là con me.»

Non volevo conoscere nessuno, ma non mi aveva dato scelta, perciò sfilai al suo fianco, ogni mio passo era soltanto una immagine di Zeno ai suoi ultimi, che camminava sperduto a Crostanera.

«Lei è Margherita», mi presentò, non appena giungemmo nelle vicinanze di una ragazza dai capelli lisci biondi lunghi fin oltre le spalle, che ero sicura di non aver ancora visto.

«Piacere», mi accolse subito lei, con un sorriso benevolente, nonostante io non riuscissi a fare altrettanto, e la mia energia fosse a livelli minimi.

«Prende il posto che ha lasciato Elias», mi diede notizia, mentre io realizzavo che avevo di fronte un contratto già fatto, una mia collega a tutti gli effetti.

«Ah, oh», mi uscì, senza l'enfasi che poteva essere normale, per una prima conoscenza con una probabile coetanea con cui avrei dovuto condividere qualcosa. «Io sono Ester.»

Avrei voluto riconoscere a Elias che nessuno poteva prendere il suo posto lì, e che io nella mia mente non lo avrei mai ceduto ad altri.

Avrei voluto ribattere che quel lavoro lei non lo avrebbe potuto fare allo stesso modo, ma rimasi in silenzio, a osservare i suoi occhi marroni asserviti nel mio immaginario a quelli più scuri del Rih.

«Nei campi, la fioritura delle margherite segna l'arrivo della primavera», aggiunse la Berti, mostrando che il nome della ragazza aveva propeso per la sua decisione di assumerla. «Ho fiducia che la nostra Margherita segni la stessa stagione per la Bottega.»


                                                                     ✴

Ero nel mio letto, coricata a luci spente, la mia camera era l'unico luogo in cui potevo permettermi di essere fino in fondo ciò che ero.

Ammezzata.

Era il momento in cui potevo capire che avevo vissuto una galassia aperta sul mio soffitto perché Zeno l'avrebbe voluta vivere con me, ma sapeva che non ce l'avrebbe fatta.

Era l'attimo in cui potevo vedere che il proprio tempo bisognava crearselo come aveva fatto lui, perché la vita poteva dare molto, ma altrettanto togliere.

Era dipingerne ancora lo sguardo fisso, a rimarcare che se avesse potuto avere un battito, lo avrei avuto io, la sensazione di calore delle sue mani sui miei fianchi, arrivare a dare estrema vita a tutto il mio corpo.

Ti prego, sii forte.

Il blu e il verde dei suoi occhi erano soffusi nella mia mente, facevano circolare dettagli di lui che parevano reali, da quanta ostinazione avevo nel tenerli.

Sii forte, Zeno.

Insieme a essi, mi lasciai andare al senso di perdita, tirandomi le lenzuola fin sopra le orecchie, e finalmente, la necessità di voltare le spalle alla mia terra d'ombra, si completò.

                                                                            ✴

Il sonno mi portò su una coltre di soffici frastagli neri, alcuni volteggiavano davanti al mio sguardo, dandomi l'impressione di assistere a una precisa danza.

Non sapevo in quale punto mi trovassi, non vedevo riferimenti conosciuti, soltanto piroette scure, che facevano alzare il mio viso in cerca della loro origine, senza individuarla.

Dovevo essere giunta su Saiph, era probabile fossi vicina alla scalinata su cui mi si erano riversati addosso frammenti simili.

Buonasera, eccoci al capitolo 41, il cui titolo ha avuto ispirazione da un colore, come avvenuto per altri in questa storia, colore che ha varie interpretazioni, come avrete potuto intuire. Tra questo e il prossimo capitolo, ci muoveremo per bene su Saiph, perchè abbiamo ancora alcune fantasie che non vi ho mostrato, personaggi da vedere (o rivedere) e iniziamo proprio da qui. Fatemi sapere nei commenti e/o messaggi privati le vostre impressioni o speranze

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