Capitolo 1
Senza un tetto
Quindici anni dopo.
Ero una codarda.
Emma poteva essere ancora nel buio della notte, a cercare il volto di suo padre tra quello di tanti altri disperati che non avevano più un posto in cui tornare, mentre io me ne stavo al caldo senza il coraggio di dormire.
Il divorzio da mia madre lo ha reso debole, dipendente dall'alcol, per questo è stato licenziato, e non ha più potuto sostenere le spese della nuova casa. A volte l'amore è solo un'idea che viene sostituita da un'altra, e quando è così, può fare davvero male.
Non se lo meritava.
In cinque anni di lavoro insieme presso uno dei negozi di fiori più famosi di Firenze, La Bottega dei Profumi, nonché rinomata caffetteria del centro, Emma mi aveva sempre mostrato il suo lato più espansivo e altruista.
Mi aveva protetta le prime volte in cui mi era capitato di sbagliare gli accostamenti di colori e di profumi delle composizioni, prendendosi davanti a sua madre, nostro capo, colpe che non erano sue.
Mi aveva aiutata a creare bouquet diversi per ogni occasione, e a servire i clienti ai tavoli con la gentilezza e l'eleganza che solo lei, figlia di un insegnante e di una fioraia, poteva avere.
Il suo sorriso delicato mi apparve dietro le palpebre chiuse, uno spiraglio di luce, spento subito dopo dal rimpianto di non aver fatto abbastanza per proteggerlo.
Mi scoprii dalle lenzuola con un gesto secco, mettendomi seduta a gambe incrociate sul materasso. Ripensai a me, al sicuro in un letto comodo, poi a lei, e passandomi una mano tra i capelli castani, rabbrividii.
Chissà che cosa stava passando in queste ore, a vagare sola per le vie più povere e malfamate della città.
Lei, dolce come il fiore di ciliegio, che una volta aveva regalato di nascosto a una bambina vestita di stracci, prima di vederla fuggire in un vicolo tetro.
Noi, cresciute a Fiesole in due famiglie dove i soldi in venticinque anni non erano mai mancati, che cosa ne sapevamo di come era dover rovistare tra i cassonetti della spazzatura per sopravvivere?
Proprio niente.
Accesi la lampada che avevo sul comodino, un dono di mia nonna, e la stanza s'illuminò, come le stelle dorate di quell'orologio blu terso appeso al muro, scie di sogni notturni impigliati nelle loro punte, che ora sembravano in grado solo di ferire.
"Em, vorrei esserci anche io la prossima sera che lo andrai a trovare, se non hai qualcosa in contrario", le scrissi, finalmente, in un messaggio.
Ero una codarda, ma non volevo più esserlo.
✴
«Un caffè macchiato al tavolo due, e un cappuccino con panna al tre.» mi ripeté la signora Berti, distogliendomi dal pensiero che la mia amica non si era ancora presentata quella mattina.
«Sua figlia sta bene?» m'informai, senza farmi scrupoli di sembrare invadente con la mia superiore su questioni familiari che la riguardavano. «Non è da lei saltare il lavoro.»
Lisa si fermò a guardare il vassoio arricchito di petali di rosa che stavo preparando dietro il bancone, argento e fucsia come base per servire tre clienti, e fece una smorfia.
«No, non sta bene.» disse, come se stesse facendo uno sforzo a rispondermi. «Ti prego di stringere i denti in sua assenza come stanno facendo i tuoi colleghi, e di decorare i vassoi nel modo più autunnale possibile.»
Incassai l'appunto, e mi concentrai sull'aroma dei caffè, su quel profumo forte e inebriante che avrei potuto respirare tutto il giorno da quanto mi piaceva, mentre Elias sospirava accanto a me, lavando le tazze di alcune signore che si erano appena alzate per fare un giro.
La nostra non era una normale caffetteria, ogni dettaglio richiamava i fiori che vendevamo, e l'ambiente riprodotto dava l'impressione di essere un curato giardino in mezzo a un bosco.
Era un luogo incantevole, che offriva alle persone abituate al traffico cittadino un'esperienza simile al bere i caffè seduti in una natura rigogliosa.
«Se fossi in te non farei più quel genere di domande alla Berti.» mi parlò Elias all'orecchio, in modo da farsi sentire solo da me.
Gli diedi una gomitata, e lui si girò dall'altra parte, trattenendo a stento un sorriso di scherno. Sapeva essere deliziosamente ironico, quando voleva.
«Recepito.»
✴
La luce delle prime stelle scivolò sui miei capelli, quando potei uscire all'aperto, alla buonora, libera di muovermi per le vie del centro città.
Avevo finito di lavorare alle otto, due ore dopo il mio turno normale del mercoledì, infatti oltre a Emma non erano venute altre due persone, influenzate per il freddo di stagione.
Mi ritrovai a fare un tratto di strada con Elias fino alla fermata più vicina degli autobus; anche lui aveva finito tardi rispetto al suo orario, e adesso aveva l'aria di essere distrutto.
I suoi ciuffi corvini erano mossi da una leggera brezza, che si divertiva a giocare con la sua immagine di persona ordinata, di statua di sale baciata dal cielo.
Era l'ultimo ragazzo a essere stato assunto, ma non aveva niente da invidiare a nessuno di noi colleghi. In poco meno di un anno, aveva appreso ad accostare rametti di fiori e caffè come se fosse nato solo per quello, e la nostra superiore stravedeva per lui.
«È la prima volta che usciamo da lavoro insieme.» notai ad alta voce, spezzando il silenzio in cui ci eravamo chiusi per la stanchezza.
«Vero.»
Sotto la luce fioca dei lampioni, i suoi occhi scuri sembravano avere una strana patina opaca. Alto quasi due metri, non era certo un ragazzo che passava inosservato. I suoi lineamenti erano duri, ma in qualche modo perfettamente proporzionati.
«Di solito c'è sempre Emma vicino a te.»
«Vero, di nuovo.»
Accelerò di poco l'andatura, superandomi di alcuni passi. Fui costretta ad affrettarmi, prima che potesse attraversare la via e lasciarmi indietro ad aspettare che scattasse di nuovo il semaforo verde.
«Scusa, non sono mai di buona compagnia dopo dieci ore di lavoro.» si giustificò.
Stavo per ribattere che era normalissimo, quando vidi l'autobus numero sette passarci davanti.
«È arrivato presto.» osservai.
«Fortunata.»
Elias mi fece un cenno di saluto con la mano, le sue dita affusolate sotto a un pulpito di stelle, diamanti di luce che all'imbrunire vestivano su di lui un abito nuovo, prima che salissi sulla vettura.
✴
Quando arrivai a Fiesole, trovai una ragazza che conoscevo molto bene, seduta sui gradini davanti al mio portone. Il sollievo che provai nel vederla si mischiò alla preoccupazione per non averla sentita fino a quel momento, nonostante i miei tentativi.
«Emma?»
Ero sorpresa che non si trovasse a casa per cena a quell'ora, ma fuori ad aspettarmi, anche se abitavamo in due vie piuttosto vicine, raggiungibili in poco tempo di passeggiata.
«Ester, ciao.»
«Ciao anche a te.»
Non avevo idea di che cosa ci facesse lì, non aveva risposto a nessuno dei miei messaggi e non si era nemmeno fatta vedere nella mia pausa dal lavoro per aggiornarmi.
«Hai due minuti?»
«Sì, certo.»
Mi sedetti accanto a lei, e iniziai a farmi un sacco di domande, a cui non diedi però alcuna voce. Era stata lei a ritirarsi da me, e volevo che fosse sempre lei a fidarsi di nuovo.
«L'ho trovato, poi.» iniziò, dimessa.
«Tuo padre?»
«Sta a Campo di Marte.» continuò, trasudando vergogna e dolore insieme. «Si è sistemato vicino ad altre persone che sono stabili fuori dalla stazione, principalmente gente di strada.»
Aveva gli occhi annacquati, di un marrone più lucido che mai e vederla annegare nella sua emotività mi fece lo stesso effetto di un pugno nello stomaco.
«Mi ha detto che quello non è un posto per ragazze come me, ma che spera lo stesso che tornerò a trovarlo ancora per sapere come sta.»
«È per questo che non sei venuta oggi alla Bottega?» riuscii ad articolare, con difficoltà. «Avevi bisogno di pensare a come comportarti d'ora in avanti con lui?»
«Sì» rispose, senza più nascondersi. «Dovevo prendere una mia decisione, perché mia madre ha preso la sua tempo fa e non ha intenzione di tornare indietro.»
«E...quale hai preso?»
«Andrò a trovarlo due sere a settimana, gli porterò coperte, abiti nuovi e cibo non scaduto, sperando di rendergli la vita meno difficile di quanto già non sia. È caduto in disgrazia per colpa della sua fragilità, è vero, ma la rottura con mia madre ne è stata la causa scatenante. Non posso lasciarlo solo con quelle sue maledette bottiglie.»
«No, non puoi.»
Emma si rialzò, come se avere il mio consenso fosse stato il motivo dietro quella sua inaspettata visita, e riscese i gradini. Si voltò verso di me, mesta, per dedicarmi uno sguardo tra il dispiaciuto e il dubbioso.
«Stanotte andrò di nuovo da lui.» mi fece sapere. «Mi hai scritto che saresti venuta anche tu, la prossima volta, se per me andava bene.» Fece una piccola pausa. «Beh, per me va bene.»
Mi stava offrendo di andare a Campo di Marte con lei! Così presto. Non ero preparata. Non ero assolutamente preparata, ma non potevo cancellare quello che le avevo scritto, perciò chiesi:
«Per che ora?»
✴
Scendemmo in stazione con l'auto della signora Berti, non prima di aver caricato nel bagagliaio qualche coperta e un cuscino che avevamo comprato.
Erano quasi le undici, ci eravamo mosse più tardi rispetto a quanto concordato, perché spiegare ai miei genitori che cosa stavo andando a fare a Campo di Marte con la mia amica non era stato per niente facile.
Sapevo che sarebbero stati in pensiero per me fino a quando non mi avrebbero sentita rincasare, e non li potevo certo biasimare. Due ragazze sole e al buio tra i barboni di Firenze non era un'immagine tranquillizzante.
«Ester?»
«Mmm?»
«Grazie di essere qui.»
Ero preoccupata, e iniziavo a chiedermi se non stessimo solo mettendo in pericolo noi stesse per fare un'azione che consideravamo buona.
«Figurati.»
Parcheggiammo in zona, e ci mettemmo in cammino in direzione della ferrovia, silenziose, portando un pacco a testa per suo padre.
Davanti all'edificio, notammo un raduno di persone dall'aspetto trasandato e poco raccomandabile. Alcune gesticolavano tra loro in modo evidente, altre erano sdraiate sul marciapiede accanto ai loro zaini e alle poche monete racimolate nel giorno.
Era difficile ignorarle mentre ci avvicinavamo a loro, erano tante, perlopiù uomini di età e nazionalità indefinita, e noi davamo nell'occhio, attirando indesiderati sguardi di curiosità.
Mi sforzai di apparire calma e indifferente, anche se ero a disagio e avrei voluto abbandonare la coperta a terra per tornare in fretta alla macchina.
Emma mi condusse al retro della struttura, poi salutò con la mano libera il padre, seduto su un telo colorato che aveva steso in un angolo poco esposto della strada.
«Sei già tornata!» esclamò lui, con una nota di gratitudine. «E hai portato anche la tua amica Ester con te.»
«Ti abbiamo preso qualche regalo.» informò lei, porgendogli il pacco che teneva in braccio. Io la imitai, passandogli anche il mio con un sorriso.
Lui si tirò su, piacevolmente sorpreso, posò i doni accanto a sé, e abbracciò Emma, singhiozzando.
«Perdonami.» lo sentii dire, e per poco non scoppiai a piangere con loro per la tensione e la tristezza che provavo.
In seguito, il padre si piegò ad aprire i pacchi che gli avevamo portato, e ci ringraziò più volte.
Preparò il suo nuovo giaciglio, rendendolo confortevole, e si liberò della vecchia coperta, scucita e sfilacciata, mettendola in una plastica vuota.
«Andrebbe buttata.»
«Ci penso io.» mi offrii, per fare prima e non far perdere loro del tempo insieme. «C'è una spazzatura a pochi passi da qui.»
«Va bene.»
Mi allontanai svelta, facendo il giro della stazione e superandone l'ingresso, quando sentii qualcuno raggiungermi.
Una mano pallida mi agguantò il braccio: uno sconosciuto, una macchia nera, con il cappuccio della giacca tirato su capelli biondi e ondulati. Il cuore mi schizzò nel petto per lo spavento.
«Non mi tocchi!» intimai subito, non riuscendo a distinguere bene il suo viso, in ombra per un lampione difettoso. «Mi lasci andare oppure mi metto a gridare e faccio accorrere qui tutto il quartiere!»
«Calma.» disse, allentando la stretta, e ritirando la mano. «Non volevo spaventare nessuno, solo...stavi camminando così veloce che non sapevo come fare a fermarti.»
«Ora sono ferma.» feci notare, e lui indietreggiò di un passo quasi l'avessi schiaffeggiato con le mie parole. «Che cosa vuole?»
«Vorrei che mi lasciassi quella coperta che stavi per buttare via.» rispose, abbassando la testa, forse in un gesto di vergogna. «Ti ho seguita per questo.»
«E' piuttosto rovinata.» lo avvisai, colpita dall'insolita richiesta. «Sicuro di volerla tenere?»
«Sì, conosco una persona che non ha nemmeno quella. Si ammalerà se non riesce a procurarsene una entro i prossimi giorni.»
Era parecchio alto e snello, sperai che non mi stesse ingannando col fine di aggredirmi, perché non ero convinta di potergli sfuggire, in caso contrario.
«Se è così...»
Gli allungai la coperta nella plastica, e lui la prese tra le sue braccia. Se non altro adesso aveva un peso in più e non avrebbe più potuto fermarmi con tanta facilità se fossi scappata via.
«Grazie.» disse, rialzando il viso.
Era il momento di tornare da Emma e suo padre, invece restai a fissarlo per alcuni lunghi secondi, completamente scioccata.
Era un ragazzo giovane, gli avrei dato al massimo una trentina d'anni, ed era bello, no non bello, bellissimo grazie alla sua eterocromia.
Gli occhi erano di due colori diversi, come se già i lineamenti non fossero stati così mascolini e squadrati da essere considerati piuttosto rari.
L'occhio sinistro era verde, limpido e brillante, mentre il destro era blu, profondo e intenso.
Sembravano due cristalli appena tirati fuori da una miniera. Il verde come il berillo, il blu come lo zaffiro d'acqua.
Non avevo mai guardato dentro occhi così, non sapevo nemmeno che averli di due colori diversi fosse più armonioso che averli dello stesso colore come la maggior parte delle persone.
«Per scusarmi del disturbo, vorrei darti una cosa.» aggiunse il ragazzo, porgendomi un pezzo di carta stropicciato che, malgrado il sospetto, accettai.
«Una cosa?»
«E un consiglio.»
«Un consiglio?»
Mi fece un sorriso che abbatté ogni residuo di muro che avevo alzato contro di lui, sgretolandolo.
«Senza un tetto, si vede meglio il cielo.»
Mi diede le spalle, e senza aggiungere altro o aspettare che capissi cosa voleva dire, se ne andò.
Rimasi sola, con il palmo della mano richiuso sul suo inaspettato dono.
Ora non c'era più alcun cristallo verde o blu a illuminare la mia notte alla stazione.
Solo tanta miseria e solitudine per le strade buie.
Se vi dicessi da che cosa ho preso spunto per ideare l'ambientazione di questo primo capitolo forse non mi credereste. Ci provo: ero sull'autobus, lo prendo sempre per andare a lavoro, e sovrappensiero a un certo punto vedo un'etichetta attaccata a un vetro. Erano giorni che mi chiedevo come avrei dovuto far incontrare i due protagonisti del libro. Ebbene, sull'etichetta c'era scritto "no roof", che tradotto vuol dire "senza tetto". Forse era un segno...
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