"Come una rosa appassita"
Janette si svegliò di soprassalto in piena notte e non riuscì più a chiudere occhio.
Era a casa sua, sola come al solito o forse di più, sentiva un dolore allo stomaco, come se avesse un pugnale trafitto e le provocasse la nausea.
Da quattro anni ormai, era del tutto indipendente e abitava sola, ma in situazioni come questa, avrebbe voluto qualcuno che si prendesse cura di lei.
Non appena sorse il sole, aprì le finestre e fece entrare un po' di luce nella casa buia e triste.
Si diresse in bagno e si guardò allo specchio: aveva ancora il mascara colato e gli occhi sanguinanti per le troppe lacrime versate.
Si lavò il volto magro con l'acqua ghiacciata e lasciò che si asciugasse con l'aria, mentre continuava a fissare lo specchio e tentava invano di trattenere le gocce salate che minacciavano di scendere.
Tornò nella sua stanza, che era completamente in disordine, ma non era una cosa a cui Janette poteva fare attenzione in momenti come quello.
Si stese sul letto a guardare il soffitto bianco per qualche minuto e poi prese il telefono.
Le erano arrivati tantissimi messaggi, di gente che voleva sapere o che aveva saputo.
Era arrivato il momento di affrontare la morte di Meredith, chiamando Laura.
Le mani le tremavano e aveva il respiro affannato.
Dopo che avviò la chiamata, posò il cellulare sul letto, chiuse gli occhi e poi li riaprì.
Riprese il telefono.
"Pronto?"
La voce della donna era calma, ancora per poco.
"Mamma, sei a casa?"
Janette stava piangendo, ma non glielo fece capire.
"Si tesoro, va tutto bene?"
"Sto arrivando."
La donna non ebbe tempo di aggiungere qualcosa, poiché Janette riattaccò, si vestì in fretta e si precipitò in casa della madre.
Prese la macchina e non fece caso al bigliettino: l'avrebbe guardato una volta riacquisita la tranquillità.
Lo spostò nel sedile del passeggero davanti e accese il motore.
La strada non era lunga, difatti arrivò dopo appena cinque minuti.
Bussò due volte alla porta, alla terza la madre aprì.
Sprofondò tra le braccia della donna che l'aveva messa al mondo e rimase così per un po'.
Scoppiò a piangere, non riuscì ad evitarlo.
"Che ti succede Janette? Parlami."
"È-è Meredith..."
"Oh, cos'ha combinato?"
"Mamma.."
La giovane si fermò per riprendere fiato e coraggio.
Le guance si arrossavano, insieme agli occhi, mentre il resto del viso diventava sempre più pallido e triste.
La madre la fece entrare e Janette le chiese di sedersi, non avrebbe potuto sopportare il dolore della notizia che stava per darle.
«L'hanno uccisa mamma, l'ha uccisa la figlia di quella donna dello sparo...»
Erano come anime distrutte dal colpo ghiacciato che avevano preso, la loro vita sembrava essere diventata insignificante.
Rimasero in quella casa a piangere per ore.
Come avrebbero fatto ad andare avanti?
Era una domanda che non aveva una risposta certa.
Al Saint-Moore avevano aperto i cancelli per le visite e avevano portato il cibo per la colazione a tutte le detenute, tranne che a Vanessa.
"Non dovete portarle niente."
Disse Bryan pieno di rabbia.
Sarebbe stata una giornata tremenda anche per lui: odiava questo tipo di ingiustizie e non sopportava vedere qualcuno soffrire così tanto come stava facendo Janette.
Vanessa però non dette peso al digiuno della colazione, poiché si svegliò direttamente per pranzare.
"Vanessa, ci sei?"
Trina stava provando a comunicare con lei da più di due ore, ma niente.
"Vanessa!!"
"Smirnov, sei assillante." rispose la ragazza con la voce rauca.
"E tu mi fai preoccupare.."
"Stavo solo dormendo."
La loro conversazione fu interrotta dall'apertura brusca della cella di Trina.
"Ecco il pranzo, Smirnov." disse una voce maschile pesante, era Bryan.
"Coleman, la ringrazio." lo ringraziò Trina in modo sarcastico.
"E io? Perché non mi date niente da mangiare?"
Vanessa sentiva l'esigenza di avere qualcosa per riempire lo stomaco, vuoto da troppe ore.
Bryan non le rispose e proseguì lungo il corridoio, per servire le altre detenute in isolamento.
La guardia, dopo aver concluso questo compito, fu mandata dal signor Saint-Moore, che gli disse di convocare la famiglia di Meredith Lee e la sua assassina.
Così fece.
Non voleva chiamare Janette, non voleva disturbarla, ma non aveva scelta.
Digitò il suo nome sul display e, contro la sua volontà, chiamò.
"Coleman scusa, non è proprio il momento."disse singhiozzando.
Riattaccò senza dare tempo all'uomo di spiegarsi.
Lui sapeva che non era il momento, ma era la cosa più giusta da fare.
Guardò lo schermo nero del cellulare, pensando a cosa potesse fare, poi tornò da Hero.
"Ha riattaccato, non vuole parlare. Sua sorella è morta da neanche ventiquattro ore, se le dessimo qualche giorno di tempo?"
"Hai ragione, un mese basterà? Diamole un mese, se si farà viva prima, meglio così."
"Va bene, con Gilbert che faccio?" chiese come ultima cosa Bryan.
"Portala qui, adesso."
La guardia obbedì.
****
"Cosa stavamo dicendo Gilbert?" chiese Trina prendendo un cucchiaio e iniziando a mangiare la minestra tiepida che le avevano portato.
Vanessa provò a rispondere, ma fu bloccata da Bryan che aprì la sua cella e la prese per un braccio con violenza.
"Che stai facendo? Dove mi porti?"
"Sta' zitta."
La ragazza, come tutte le altre detenute, aveva paura di cosa potesse fare quell'uomo, così rimase in silenzio e si fece trascinare fino all'ufficio di Hero.
Il signor Saint-Moore l'aspettava con ansia, insieme al direttore e altra gente che avrebbe deciso il suo destino.
Bryan le lasciò il braccio, che ormai aveva la forma delle sue dita impressa sopra, poi rimase lì a controllare che non compisse alcun atto di violenza.
Aveva gli occhi di tutti puntati addosso.
"Bene, Vanessa Gilbert, sei nella merda fino al collo, lo sai eh?"
Hero ruppe il ghiaccio.
Vanessa schiuse la bocca come per dire qualcosa, ma fu interrotta da un uomo alle sue spalle.
"Non direi fino al collo, fratello, la ragazzina è nella merda fino all'ultima ciocca di capelli."
Era Pablo, il più giovane dei fratelli Saint-Moore, colui che avrebbe preso il posto di capo dopo Hero: Nicolas si occupava di altro.
Aveva un'espressione che metteva inquietudine.
Gli occhi di un grigio freddo, ma lo sguardo che riusciva a portare calore.
Era un uomo che metteva le carte in tavola da subito, ciò che diceva veniva poi messo in atto e non parlava mai alle spalle di nessuno.
Gli fecero spazio all'interno dell'ufficio e guardò il fratello per avere il consenso di parlare.
Hero annuì, sapeva quanto potessero valere le sue parole e si fidò.
"Da dove comincio? Hai rubato una macchina costosissima ad un uomo di valore per andare dal tuo fratellino, lo spacciatore, prendere un bel po' d'erba e andarla a condividere con gli amici.
Sei finita in carcere e in venti giorni hai distrutto una cella, tentato di uccidere la metà delle detenute senza palle di questo posto, violato qualsiasi regola e per finire, hai ucciso Meredith Lee."
L'uomo prese fiato per continuare il suo discorso, ma Vanessa disse: "Meredith ha ucciso mia madre.
E per quanto riguarda il rispetto delle regole e le altre cazzate, non dipende da me, oggi ad esempio mi hanno lasciata a digiuno."
"Coleman, perché a lei non è arrivato il cibo?" intervenne Hero, che non sapeva di questa cosa.
"Ho scelto io di non portarglielo, non lo merita."
"Stiamo scherzando? Mi farete morire di fame?" disse Vanessa.
"Nessuno farà morire di fame nessuno, ma tu signorina, hai la pena prolungata per altri 4 anni.
Hai ucciso una donna. La tua punizione sarà vivere con questo peso sulle spalle, con tanti rimpianti."
Pablo concluse il discorso e non intervenne più nessuno.
Vanessa fu riportata in isolamento e Bryan fu richiamato da Hero.
"Non credo che tu abbia il potere di decidere chi mangia e chi no, Coleman. Non vorrei pentirmi di averti scelto come direttore delle guardie."
"Non si pentirà." si limitò a dire Bryan.
Janette e Laura avevano il cuore spezzato e gli occhi secchi, le lacrime da versare erano terminate.
Al penitenziario non sapevano bene cosa stesse succedendo e, chi lo sapeva, avrebbe preferito starne alla larga.
Vanessa era nei guai.
Aveva sbagliato e non poteva tornare indietro.
Come una rosa appassita che perde lentamente i suoi petali e non può più riaverli.
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