XXXV. Tortuga: Che cos'è la liberta?

"Papà, che cos'è la libertà?"

La mente di Ekow era bombardata dall'eco di quelle parole. Gli scenari di una vita perduta lo tormentavano quasi al pari delle lacerazioni che rendevano pulsante la pelle martoriata dietro la sua schiena. La carne viva, dal colorito rosso sanguinolento, bruciava come se dei tizzoni ardenti venissero accostati di continuo su di essa e gli impedissero di ragionare.

Solo le memorie sfocate quanto idealizzate del suo passato persistevano in lui, gli sovvenivano a tratti, esplosioni di sporadico sollievo, forse sotto forma di difesa contro la disperazione più totale nella quale annegava ogni secondo di più.

Il giardino della piantagione di sera era spesso attraversato da un venticello fievole e fresco, e per questo ora giaceva lì in ginocchio, tra le canne da zucchero circostanti, cercando di lenire il dolore causato dalla frusta. Era un miglioramento sin troppo lieve, però. Se il dolore fisico poteva essere affrontato sopportando, nulla era invece paragonabile all'aridità mentale che lo affliggeva ormai da che avesse memoria. Forse il fatto che stesse soffrendo per le ferite alimentava ulteriormente lo sconforto, ma in quel momento non trovava alcuna ragione per cui dovesse persistere nella sua vita. Sarebbe stato più semplice lasciarsi andare, far sì che il dolore scivolasse via insieme alla percezione dei suoi sensi, in un baratro di vuoto e oscurità, ma anche di pace.

Non c'erano motivi per vivere. Eccetto quella domanda.

"Che cos'è la libertà?"

Ekow non lo sapeva. Ma un tempo conosceva la risposta, ne era certo.

Ricordava che suo padre, un giorno, durante una giornata addolcita dal sole tra i campi lucenti della Costa d'Oro, gli aveva risposto. Lui, però, non ricordava cosa gli avesse detto. Per quanto si sforzasse di riportare a galla le parole del genitore, queste gli sfuggivano sempre. Quella era l'unica ragione che riusciva a imporsi per rimanere al mondo. Quelle parole ammantate dal velo impenetrabile e trasparente della memoria, quella risposta che il suo cuore anelava.

Poteva sembrare poco, o senza valore, ma era tutto ciò che aveva.

Per questo ora fissava il cielo, proprio come quella volta, quando era un bambino innocente e pieno di speranza, e una figura alta, semi celata dai raggi del sole, muoveva le labbra, sorridente, per rivolgergli parole che non erano più capaci di raggiungerlo. Cercava di rimembrare. Cercava una risposta. Cercava nel suo cuore, laddove la mente non arrivava. Ma non era mai stato così lontano dall'ottenere la soluzione. Dopotutto, era ovvio che non ci arrivasse, adesso.

Uno schiavo non avrebbe mai potuto sapere nulla della libertà.

Ekow abbassò il capo, le trecce ruvide a nascondere le sue guance, e il viso affondato tra le mani. Sentì le lacrime bagnargli i palmi secchi invasi dai calli, allo scorrere delle lacrime, mentre una nuova, pungente disperazione nasceva dalla sua pancia, risalendo fino al petto, svuotandolo, e passando infine alla testa, così da offuscargli ogni immagine di felicità appartenente ai residui di un passato dimenticato.

"Papà..." sussurrò, la voce profonda, ma rotta dalla sofferenza.

Non sarebbe morto quella sera, non l'avrebbe fatto finché non avesse ricordato. Questo si era promesso quando era divenuto uno schiavo, nel periodo in cui non era nemmeno un ragazzo, troppi anni prima perché gli sovvenisse la sua età precisa.

Ma forse avrebbe semplicemente dovuto arrendersi. Forse anche quel fardello era diventato troppo da sopportare. Forse non era abbastanza.

Forse, se fosse morto, sarebbe stato libero.

A quel punto la risposta che cercava si sarebbe manifestata nella sua mente, tra gli ultimi respiri esalati? Oppure la risposta era la morte stessa?

Il suono di passi felpati alle sue spalle lo fece trasalire, e lui si voltò con sguardo grave.

A Ekow bastò un'occhiata per riconoscere la persona che l'aveva raggiunto, anche attraverso il manto della notte. Dopotutto, quella ragazza aveva la stessa sua vacuità nelle orbite.

Khady. Il suo nome gli era balzato alla mente all'improvviso, sebbene prima di quel momento rimembrasse solo i suoi tratti, la forma del suo corpo. L'aveva sempre adocchiata di sfuggita durante i lavori nei campi, spesso si ritrovava vicino a lei e collaboravano piuttosto bene, in un silenzio fatto di mutuo aiuto reciproco. Non si erano mai nemmeno trovati a parlare, se non per elargire fugaci indicazioni, in quell'inglese storpiato dall'influenza dei loro rispettivi dialetti appartenenti a zone diverse dell'Africa.

Tuttavia, Ekow e Khady si erano sempre sentiti al sicuro, quando erano stati vicini. Le sofferenze quotidiane erano alleviate dall'appena accennato contatto umano tra loro. Conoscevano i rispettivi nomi grazie ad altri schiavi con cui si scambiavano le mansioni e che quindi li pronunciavano, ma oltre a quello tutto ciò che condividevano era il dolore. Oppure, più che una condivisione, il loro era un bilanciamento. L'alleggerimento delle loro pene tramite la solidarietà, il sostegno.

Per questo, Ekow non aveva esitato a soccorrerla, quando Lawrence Prince l'aveva afferrata per portarla con sé nei suoi alloggi. Non era servito a nulla, lo sapeva. La sua era stata una reazione incontrollata, aveva agito ancor prima di pensare. E aveva pagato. Insieme a Khady. Anche quella volta, avevano condiviso l'agonia.

La ragazza dai crespi capelli scuri si avvicinò a lui senza dir nulla, le ginocchia strette l'una accanto all'altra, forse come segno di vergogna. Era per quello che era stata costretta a fare, capì lui.

Khady si inginocchiò accanto all'altro schiavo, e lo guardò negli occhi. Stava piangendo, notò Ekow. No, si corresse, erano solo princìpi di lacrime che minacciavano di rompere i suoi argini. Si stava trattenendo, come dimostrava il tremolio del suo labbro inferiore. Ma mostrargli anche quel dolore, intuì l'uomo, era il suo modo di ringraziarlo per aver provato ad aiutarla.

La ragazza si sporse in avanti col busto, lentamente, e lo abbracciò, stando bene attenta a non premere troppo sulle ferite pulsanti dietro la sua schiena. Ekow poggiò il mento sulla sua spalla di riflesso, senza nemmeno pensare, e solo allora entrambi si concessero di piangere insieme, al chiaro di luna, ovattati dal fruscio delle foglie intorno. Seppellendo il loro orgoglio, per pochi istanti. I loro corpi stessi stavano comunicando, e dicevano mi fido di te.

"Che cos'è la libertà?"

Ekow comprese in quel momento, tra le braccia di Khady, che non era mai stato tanto lontano dalla risposta.

Amon roteava il lungo pugnale con grande maestria, fendendo l'aria attraverso tondi circolari e flessioni del polso consecutive, accompagnate dalle spinte poderose delle braccia. Se lo passava sopra la testa, dietro la schiena nuda, di mano in mano, come se stesse eseguendo uno spettacolo da giocoliere in cui metteva in mostra la sua destrezza.

L'aria della palude interna, dove si era rifugiato ad allenarsi come soleva fare, era rarefatta e punzecchiava le sue narici col lezzo stagnante degli accumuli d'acqua nei dintorni. I salici tracciavano il perimetro dello spazio più largo delle altre zone, e il chiaro di luna sbiancava la sua pelle olivastra, mettendo in risalto le profonde ed estese cicatrici che gli percorrevano tutto il dorso. Quelle dove risiedevano tutte le sue memorie del periodo in cui era in catene. Assieme all'odio e alla vendetta che alimentavano il suo cuore, e rendevano più violenti i suoi colpi.

Il sudore gli imperlava la fronte, il petto, i bicipiti gonfi. Il marchio circolare e annerito inciso nella pelle sopra il suo cuore luccicava per il candore dei raggi lunari misti. In passato era stato un monito, un invito a non dimenticare chi fosse il proprio padrone, a chi appartenesse la propria vita. Adesso per Amon era la testimonianza della sua furia. Il lascito di un passato che l'aveva privato della libertà, e che gli ricordava la promessa che aveva fatto a sé stesso.

Uccidere ogni schiavista. Distruggere la catena di soprusi che da troppo stroncava vite innocenti.

Avrebbe dato alle fiamme città intere, se questo fosse servito al suo scopo. La sua vendetta era l'unica cosa che davvero contava, ormai. Perché il dolore che aveva subito era ancora vivido, e lo tormentava ogni notte. Lo privava di una serenità che non avrebbe mai ritrovato per tutta la sua vita, lo sapeva per certo. Ma almeno avrebbe fatto subire le stesse pene a chi lo aveva rovinato, e a tutto ciò che rappresentavano.

La tensione del suo avambraccio crebbe ancora di più sul manico del pugnale, fino ad affondare le unghie nella carne tanto da arrivare quasi a sanguinare. Mentre le immagini ancora nitide del passato riprendevano forma dentro di lui e rendevano i suoi occhi iniettati di rosso.

"Ti va se ti assisto?"

Quella voce. Forse la sola in grado di tirarlo fuori dalla spirale di rovente dolore in cui si perdeva troppo spesso.

Amon guardò la nuova arrivata, la silhouette sinuosa e slanciata dalla pelle scura, le fasce bianche a coprirle la parte superiore del busto, le trecce lunghe cascanti sulle guance infossate.

Selkis.

Stringeva due coltelli tra le mani, e un arco era legato dietro la sua schiena. Lo osservava coi suoi occhi complici e penetranti come pochi. Ipnotici e intrisi di pericolo, seppur in quel momento attraversati da una scia di comprensiva empatia. Dolcezza, forse. A volte era difficile decifrare davvero i suoi sguardi. Ma Amon poteva dirsi piuttosto sicuro che quelli rivolti a lui non celassero malizie.

L'uomo inclinò il capo di lato, prima di raddrizzare il busto, e accettare la sfida amichevole col linguaggio del corpo.

"Com'è il morale?" chiese, il pugnale puntato verso la compagna d'armi che ne divideva in due il volto, dal suo punto di vista.

"Buono, direi. Sono tutti pronti al massacro ed esaltati al punto giusto." rispose Selkis, il polso che oscillava all'indietro in modo da ruotare con destrezza il coltello nella sua mano con movimenti circolari ed eleganti, come preparazione all'incontro amichevole.

I due compivano passettini in cerchio, studiando a vicenda la possibile mossa dell'avversario con sorrisetti maliziosi.

"Sarà perché hanno una guida affascinante come te!" La voce di Amon aumentò di volume all'ultima sillaba, di pari passo con lo scatto improvviso in avanti che eseguì con una torsione di busto e ginocchia.

Il coltello dell'altra fu piazzato con un gesto fulmineo dinanzi al suo volto, schermando l'arma avversaria con un acuto stridore. "Merito del tuo carisma, invece." rimbeccò la guerriera ribelle, eseguendo subito dopo una giravolta su sé stessa verso destra, e sfilando al contempo un altro coltellino dalla cintura in vita per dirigerlo rapida verso il collo del rivale, tramite un secco tondo roverso.

Amon però le bloccò il polso con presa ferma prima che potesse giungere troppo vicino alla sua pelle. In contemporanea, torse l'avambraccio di Selkis il tanto che bastava perché lasciasse l'arma, e la sgambettò.

Lei finì al suolo di schiena, ma subito rotolò di lato e puntò l'altro pugnale verso la sua caviglia in una spazzata da terra, che lui evitò con un passo all'indietro, per poi calciare via anche l'altra arma di Selkis.

"Non basta il carisma contro di loro." Gli occhi del capo ribelle bruciarono dall'alto, un ardore che come sempre avvolse la compagna, e la intristì, oltre ad attrarla come una falena.

Loro. Amon non riusciva nemmeno a pronunciare ad alta voce il nome del suo nemico. Rinnegava persino la loro identità, la loro umanità. E quello era un errore, Selkis lo sapeva. Uno a cui lei, che era al suo fianco, doveva sopperire, grazie alla sua mente spesso più lucida, meno furiosa.

Quegli occhi così pregni di odio scaturivano dalla paura. Amon era spaventato dai suoi nemici. Se ne accorgeva ogni volta che lo vedeva combattere, ogni volta che pianificava con perfezionismo maniacale i suoi attacchi alle piantagioni, contro gli schiavisti. Era una cura talmente accorta, la sua, che non poteva nascere da altro, se non il timore.

L'aveva intuito subito che nel suo cuore risiedesse il terrore, fin da quando l'aveva trovata e liberata, quando era schiava a sua volta a Port-au-Prince. Anche dopo che lei si era ritagliata un ruolo di spicco al suo fianco col suo carattere ambizioso e il suo ingegno strategico, però, Amon non le aveva raccontato niente, se non che anche lui fosse in catene un tempo, nella sua stessa città. Non era stato in grado di andare oltre, di raccontare cosa avesse vissuto, cosa avesse sofferto in più rispetto a lei in quegli anni.

Selkis sfilò l'arco dalla schiena e incoccò una freccia. Amon calò il pugnale verso la sua giugulare.

Si fermarono entrambi allo stesso momento, le armi immobili a un passo dalla tensione finale. Passarono pochi secondi in cui i loro sguardi sembravano il nucleo del paesaggio, il cui scorrere del tempo era dettato dal chiudersi delle loro palpebre che avrebbe posto fine a quella schermaglia silente quanto invitante.

Gli occhi della donna parevano quasi chiederglielo. Porre quella domanda che la tormentava spesso.

"Cosa ti è successo a Port-au-Prince?"

L'uomo alla fine capovolse il pugnale con un gesto abile, e le porse la mano con un sorriso che lei ricambiò. Si ritrovarono schiena contro schiena, mentre entrambi pulivano i loro abiti dalla polvere.

"Selkis, tu perché combatti?" chiese lui, voltando il capo di novanta gradi, sotto il chiaro di luna.

Lei esitò, ponderando la domanda dentro di sé. "Per lo stesso tuo motivo. Perché odio chi priva gli altri della libertà." rispose, poi.

Ma c'era altro, lo sapeva. Qualcosa che non riusciva a dire. Che ogni volta le moriva in gola prima di pronunciarla. Ed era strano per lei, che non soleva avere mezze misure.

"Perché non voglio più vedere nello sguardo di qualcuno le fiamme che consumano te."

Questo avrebbe voluto dire.

"Ognuno combatte per una ragione diversa. Per quanto un sogno sia condiviso, e un ideale comune, c'è sempre qualcosa di personale nelle battaglie che affrontiamo." affermò Amon.

"E qual è il tuo motivo personale?" rigirò la domanda Selkis. "La vendetta?" incalzò, in un soffio. Le cicale accompagnavano ogni istante, riempiendo i secondi di silenzio tra una risposta e un'altra, affilati come rasoi.

Amon abbassò il capo e strinse il pugno attorno al manico del suo coltello. Selkis non voleva parlare di sé e di ciò che pensava. Preferiva scovare cosa risiedeva nella mente degli altri, e lui lo accettava. Sapeva che non gli avrebbe fatto del male, non l'avrebbe manipolato, poiché l'aveva salvata. Ma non riusciva comunque ad accontentarla. Era impossibile aprirsi per lui, parlare di quei giorni. Non riusciva ad affrontarli nemmeno con sé stesso.

"Non è solo quello." ripiegò. "La verità è che ho paura che questo mio fuoco interiore possa spegnersi. Ho timore di cosa proverò, una volta che l'avrò alimentato abbastanza. Forse diventerò cenere e mi spegnerò. O forse scoprirò finalmente cosa significhi essere liberi. Penso che uno dei motivi per cui lotto sia voler arrivare alla risposta a questo quesito."

Selkis schiuse le labbra. Non l'aveva mai letta in quel modo. Per quanto riguardava lei, avrebbe messo a ferro e fuoco qualunque città, piantagione, o magazzino per ripicca contro chi le aveva tolto ogni cosa. Ma Amon soffriva ogni giorno, si sentiva ancora in catene. Era ancora uno schiavo, ma della sua stessa ira.

Non sapeva se leggere la cosa come debolezza, stanchezza o semplice umanità. Ma istintivamente si sentiva ancora più vicina a lui dopo quella rivelazione. Ancora più volenterosa di affiancarlo e dargli supporto. Forse per vedere a sua volta dove quel sentiero di morte avrebbe condotto entrambi. Perché non poteva durare in eterno, era vero.

"Un giorno sapremo cosa significa essere liberi dalla rabbia, Amon. Ma fino ad allora, teniamo per noi questi discorsi astratti. Sono pericolosi." lo richiamò. Per adesso dovevano vivere nel presente. Battersi.

Bruciare.

Amon le sorrise, mentre una folata di vento gli trascinava il ciuffo morbido davanti al viso. In quel momento sembrava davvero triste.

"Ovviamente, Selkis. Non dimentico le mie responsabilità, e non vi abbandonerò. Combatteremo insieme ancora per molto." disse, portandosi un pugno al petto. "E i nostri nemici bruceranno con noi."

Era la promessa che le aveva fatto quando le aveva teso la mano in quel campo coltivato da cui l'aveva tirata fuori. E ciò che ripeteva ogni volta che guidava i suoi uomini all'assalto. Il lamento di chi rivendicava il proprio dolore, anelando alla giustizia.

Selkis annuì, imitando il suo gesto.

"Bruceranno con noi." ripeté.

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