XXXIII. Tortuga: Fugacità
Le sue massicce mani ruvide lavoravano senza sosta, lungo la superficie degli steli. Staccavano foglia dopo foglia dalle altissime canne da zucchero che componevano tutto lo spazio intorno a lui, creando una sorta di piccola giungla. I calli e i tagli sui palmi, più chiari rispetto alla pelle scura come pece del dorso, si moltiplicavano a dismisura nelle lunghe, lunghissime ore delle giornate che passava lavorando, fino a quando il sole cocente sulla sua testa non calava, finalmente. La barba irsuta gli ricopriva il viso, segnato da rughe di stanchezza e fatica ininterrotta, fino agli zigomi ampi e pronunciati al di sotto dei piccoli occhi ambrati. Occhi non più capaci di riflettere la luce del sole. Occhi che non si illuminavano come un tempo al contatto coi suoi raggi.
Ekow odiava il sole. Ma un tempo l'aveva amato profondamente.
Quando correva, spensierato, tra le distese sconfinate dei campi della sua terra, insieme a tutti i suoi amici ormai perduti. Quando ancora poteva definirsi libero. Quando era parte di qualcosa, in un paese che sentiva suo.
Adesso, giorno e luce significavano solamente dolore fisico. Non faceva altro che staccare foglie, spezzare steli, pulire a mani nude quelle canne da zucchero ispide e più alte di lui, così come di tutte le persone condannate a un processo senza fine né significato per nessuno tra loro. Semplicemente, andavano avanti. Per non morire. O per non ricordare com'era vivere.
Le piantagioni si estendevano per tutto il campo infinito che riempiva il complesso dove lui e gli altri lavoravano al servizio dei bianchi, ogni giorno. Le canne simili ad arbusti protesi verso il cielo erano tutto ciò che il suo sguardo incontrava da anni, il suo mondo terminava alle lontane cinta murarie che delimitavano la zona. Oltre di esse, non esisteva nulla, Ekow l'aveva imparato bene. Soprattutto dopo aver visto cos'era stato fatto all'unico schiavo che avesse tentato la fuga da lì. Non avrebbe mai creduto che un essere umano potesse valere così poco, fino a quando non aveva visto Kunta, un ragazzino denutrito che a malapena riusciva a strappare le foglie dalle canne, in ginocchio nella piazzola principale tra i campi. L'anziano padrone non aveva nemmeno guardato, mentre gli sparavano alla fronte senza pensarci due volte.
Quell'uomo più simile a una vipera che a un loro simile si era assicurato che ognuno stesse continuando a faticare, senza voltarsi nemmeno dopo il rimbombo scaturito dalla canna, neanche dopo l'impatto della testa ridotta in poltiglia sanguinolenta del ragazzo sull'erba, tinta di scarlatto.
"Pulite."
Quello era stato l'unico barlume di interesse che aveva dedicato alla vita di Kunta. Un ordine elargito di fretta, tra i denti, alle due giubbe blu che si erano macchiate al posto suo di quell'esecuzione sommaria. Quell'assassinio.
Ekow si era costretto a dimenticare in fretta il viso del giovane. La gratitudine nei suoi occhi ancora ingenui e vitali quando lui, almeno tre spanne in più per corporatura, gli dava segretamente una mano nel suo lavoro per impedirgli punizioni. Ovviamente, le impediva anche a sé stesso, poiché Kunta era assegnato spesso alla sua stessa postazione e bisognava produrre un certo ammontare giornaliero di merce, ma in realtà le volte in cui aveva visto la riconoscenza nello sguardo del ragazzo era stato davvero felice.
Se avesse avuto il diritto di definirsi con un aggettivo, altruista sarebbe stato il primo a cui la mente di Ekow avrebbe pensato.
Ma l'altruismo era una debolezza. E la debolezza era una condanna. Così come la compassione. Ciò che era successo al compagno ne era la prova, proprio come il dolore che aveva torturato Ekow per settimane, conducendolo a cancellare dalla sua memoria quasi ogni parvenza di ricordi allegri, o affetti.
Niente di tutto quello era giusto. Ma nell'esistenza che conduceva, anche credere nella giustizia, dopotutto, era una debolezza.
Tra uno stelo tagliato via e un altro, Ekow si permise di raddrizzare per un secondo la schiena, con la scusa di sistemarsi la bandana rossa sulla fronte, le trecce che discendevano lungo le guance e il mento, sopra al collo spesso e venoso. Chiuse gli occhi, e sognò l'oro delle piane immense di casa sua. Rivisse fugacemente una vaga sensazione di felicità, prima di piegarsi di nuovo in avanti, e tornare nella neutralità del vacuo nulla nel quale era costretto a galleggiare fino alla fine dei suoi giorni.
Le dita affusolate stringevano con leggerezza il panno umido con il quale strofinava boccali e stoviglie a volontà. I suoni festosi che riempivano sala principale in cui la giovane donna lavorava contribuivano ad alleggerirle l'animo e velocizzare i suoi movimenti ripetitivi dietro al bancone. I tavolini poligonali allineati a zig zag nella stanza di medie dimensioni erano gremiti di avventori intenti ad affogare la giornata nell'alcool, aroma di birra o rum a seconda delle esigenze del cliente permeava l'ambiente, misto al tanfo emanato da qualche anima in pena già ubriaca di pomeriggio.
Gli occhi azzurri della ragazza saettarono da una parte all'altra della taverna: sulla destra, accanto a una porta isolata che conduceva a degli alloggi privati, un uomo sulla trentina ballava sui tavoli cantando al contempo, due bicchieri traboccanti in pugno, uno di birra e uno di rum. Un codino corto faceva capolino sulla nuca dalla marea di ciocche bionde come fieno, simili agli occhi arzilli color oro.
Sotto di lui, quello che sembrava un suo conoscente, dallo sguardo rassegnato e un po' impietosito con cui lo osservava dal basso, si impegnava affinché le gocce delle bevande non finissero tra i suoi ricci voluminosi d'un castano scuro che sfociava a tratti in un grigio metallico. Tutt'attorno, il vociferare e il saltuario accompagnamento dedicato al canto del biondo si proliferava per tutto l'ambiente caotico e festoso.
A Kat piaceva molto lavorare come locandiera, specie al Sunk'n Norwegian, sempre colmo di allegria e vitalità. Lei era una persona che amava legarsi al prossimo, ritrovarsi in mezzo alla gente a festeggiare e divertirsi. Per quel motivo poteva affermare senza dubbi che quel mestiere era ciò che faceva per lei. O almeno lo era fino a quando non arrivava la sera, e i servigi richiesti da lei divenivano altri, così come la tipologia di clienti.
Ma in quel momento non voleva pensarci, si sentiva felice e incline a godersi il clima frenetico che la circondava.
Un tonfo sordo la fece quasi sobbalzare, e quando alzò gli occhi del colore del cielo verso la fonte del rumore, Kat vide una ragazza fissarla gioiosa, il viso capovolto sul bancone sul quale era appoggiata di schiena, la pioggia di ondulati capelli bruni che cascava lungo le guance arrossate, magre e lisce dalla conformazione incavata.
"Altro rum, Kat!" La giovane mosse le labbra che da quell'angolazione del capo si trovavano sotto il mento appena pronunciato e ridacchiò con estremo zelo, abbigliata con una camicetta leggera grigia e un gilet in pelle marrone. Le rivolgeva i ridenti occhi rassomiglianti a blocchi di ghiaccio, i quali però trasmettevano solo calore.
Kat in tutta risposta sospirò e sorrise stancamente, rivolgendole un'occhiata complice mentre si passava con eleganza la treccia biondo chiaro sopra la spalla. La divisa da cameriera ornata da merletti e maniche a sbuffo era molto stretta in vita, e metteva in risalto le misure del suo seno e i fianchi stretti. Qualità che beneficiavano sia ad attirare i clienti alla locanda, sia a farlo negli alloggi privati, quando la sera succedeva al tramonto e i battenti del bar chiudevano per far posto ad altre attività.
"A me sembri già abbastanza ubriaca così, Ariana." rise la locandiera, scompigliando la chioma castana alla ragazza dall'altro lato del bancone. "Tu e i tuoi amici mi esaurirete le scorte, di questo passo."
"Beh, non è meglio? Guadagni di più! Dai, riempimi il bicchiere!" esclamò Ariana, battendo il recipiente di ceramica sul ripiano ligneo con foga, gli occhi chiusi e un'espressione beata sul viso dolce.
Lei sì che sapeva come lasciarsi andare quando doveva, si ritrovò a pensare Kat. Rispetto al suo modo di comportarsi, un'inclinazione al caos ma sempre mitigata da una sorta di freno involontario, quello di Ariana era sicuramente più autentico. O forse solo meno irrequieto.
Al contrario, per la bionda locandiera era estremamente difficile abbandonare del tutto preoccupazioni e ansie. Quando ci andava vicino, sentiva sempre delle ombre familiari provare ad agguantarla. Un abisso oscuro dalla pressione schiacciante da cui solo in tempi recenti era riuscita a emergere, sebbene avesse la parvenza che non fosse mai stata in grado di far altro che tenere la testa fuori, stentando a restare a galla con immane fatica in un nero oceano.
Ma questo nessuno avrebbe dovuto mai saperlo. Kat era pronta a fare di tutto per proteggere il suo precario equilibrio attuale. Anche accontentarsi di vendere da bere per tutta la sua vita. Anche accettare di vendere il suo corpo, se era necessario a mantenersi. Il sorriso di Ariana riusciva a illuminare il mondo buio nel quale si smarriva con troppa facilità. E una fugace gioia come quella, o come le giornate felici al Sunk'n Norwegian, per lei erano abbastanza.
Ariana fu affiancata dal biondo col codino che aveva appena terminato il suo spettacolo da salotto londinese, e si era diretta al bancone per bere ancora. Cinse le spalle della cliente e rivolse un gran sorriso coinvolgente alla cameriera.
"Non farmi bere troppo il nostromo, Kat, che poi finisce per vomitare l'anima sulla nave e il povero Enrique deve pulire." Il tono della sua voce era troppo alto, come se avesse i timpani assordati dal suo stesso frastuono.
"Finché lei paga, io le do da bere, Santiago." ribatté Kat, allungando un boccale pieno alla ragazza, che subito lo agguantò per trangugiarlo in pochi sorsi voraci.
Santiago Lobos e il suo equipaggio erano clienti abituali del Sunk'n Norwegian, e Tortuga, la città a Santo Domingo dove questa era situata, rappresentava una sorta di base per quel bizzarro gruppo di corsari. A Kat piacevano, sia per lo zelo che portavano nelle sue giornate e che spezzava la monotonia del quotidiano, sia perché erano spesso fonte di qualcosa che la giovane locandiera considerava più preziosa di qualunque cosa: informazioni.
"Allora lascia che ti chieda un'altra cosa." L'espressione di Lobos divenne più seria, sebbene non fu privata del suo classico sorrisetto complice. "Hai novità sulla piantagione?"
Il tono basso e decisamente confidenziale rispetto a prima palesava la volontà di non farsi udire dalla gente attorno, e sia Ariana che l'uomo dai baffi pronunciati ancora accomodato con aria calma più indietro, Enrique, se ne accorsero dal suo linguaggio del corpo in men che non si dica. Diventarono entrambi più guardinghi, a dimostrazione che l'alcool non era ancora penetrato troppo a fondo nelle loro menti. A meno che, cosa molto probabile dal punto di vista di Kat, Ariana non beneficiasse delle sbronze al punto da alzarle il tasso d'attenzione.
Sfregando un altro bicchiere con noncuranza, la bionda tenne lo sguardo basso, l'atteggiamento naturale di chi non intende sbilanciarsi agli sguardi altrui.
"L'uomo a cui sei sfuggito è arrivato stamattina, come mi avevi avvisato. E con sé aveva l'oggetto che cercate... è questione di tempo perché lo porti alla piantagione di Prince, vi consiglio di agire con cautela." La voce della donna era un sussurro vellutato, celato dalla facciata indifferente che scaturiva dai suoi affilati occhi celesti. "Affrontare la marina francese in mare aperto, un vice ammiraglio, poi... accidenti a voi matti scatenati."
"Sono loro che si sono intromessi! Noi stavamo combattendo con quel coglione pomposo di Bellamy!" si difese Ariana. "Si crede chissà chi solo perché sta con Teach e ce l'ha un po' più grosso della media.... Aveva lui la chiave, poi quei cani fanatici di pagnotte sono intervenuti e tanti saluti. Noi però ce la riprenderemo, vero, capitano?" ridacchiò rivolta a Santiago, che annuì con convinzione, sicuro di sé.
Enrique intanto si alzò dalla sua postazione, dopo essersi aggiustato ancora i baffetti e i lunghi riccioli. Si avvicinò ai due compagni, affiancando Ariana al bancone, poggiandoci i gomiti. "Ehi, ti consiglio di abbassare la voce, si sente tutto quello che dici." la ammonì.
"E io ti consiglio di non ubriacarti perché mi sa che dopo devi aiutarmi tu a tornare ai miei alloggi ancora in piedi." sbottò lei.
"Tanto io non riesco mai a superare la soglia del dignitosamente brillo..." fece lui.
Kat riprese in fretta la parola, mentre Ariana iniziava a proporre un brindisi in sala alla faccia della Francia e dei sobri, e si rivolse a Santiago, l'unico all'apparenza ben disposto ad ascoltare ancora. "In ogni caso, se volete infiltrarvi nella piantagione di Prince, vi consiglio di approfittare della ribellione dei Maroon. Ho saputo che ormai manca poco, secondo le ultime voci qualcosa di grosso bolle in pentola."
Il capitano aggrottò le sopracciglia. "Quindi, lo faranno davvero? Quei ribelli attaccheranno le piantagioni?" chiese, prudente.
"Dal mio contatto al loro interno, pare di sì. In più, non sento da un po' i loro leader, e questo può solo significare che si stanno preparando." disse Kat.
"O che sono morti." farfugliò di rimando Santiago, facendo spallucce.
"In quel caso lo saprei." la chiuse lei.
Ed era vero, il corsaro lo sapeva bene. A Tortuga non accadeva nulla senza che Katherine Chamberlain lo venisse a sapere, aveva contatti pressoché ovunque, persino tra gli ex schiavi ribelli che si erano rifugiati nelle paludi dell'entroterra. Negli alloggi notturni della locanda, i suoi clienti le fornivano racconti in cambio dell'intenso piacere che sapeva dare. E questo era moltiplicato, se si contavano le ragazze che svolgevano la sua stessa attività, e di cui lei era praticamente a capo. La ciurma di Lobos si poteva dire che fosse addirittura la sua fonte di informazioni esterna. Nessuno sapeva come avesse fatto a costruire la sua rete in quella terra dimenticata da Dio, né da dove lei provenisse, seppure Santiago immaginava dal suo cognome che fosse di origini facoltose.
Fatto stava, che quella donna sapeva sempre tutto, spesso in anticipo. E in un posto pericoloso come i Caraibi, la conoscenza equivaleva al potere.
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