#Viaggio (Antonio Di Dio)
Sono alla stazione dei treni.
L'orologio segna le sette in punto del mattino.
Sono euforico, contento. Mi siedo alla banchina della stazione. Biglietto alla mano, bagaglio leggero. Penso a Marco, a quanto sarà cresciuto, a tutte le cose che vorrà raccontarmi: Sono felice!
Finalmente sono riuscito a mettere da parte per un week-end il "Pulitore".
Saranno solo due giorni con Marco, ma sempre meglio che niente.
Mi rattristo un po', vorrei fermarmi di più, vorrei vivere vicino a lui, ormai le video chiamate mi hanno stancato.
Avrei voglia di chiedere il trasferimento, passare il caso a qualche altro commissario.
Ho voglia di gettare la spugna. So che questa storia non finirà a breve e Marco, anche se ha Giuseppe che lo ama, ha bisogno di suo padre.
È da un po' che ci penso in realtà, non ne ho mai avuto il coraggio, perché sono sempre stato abituato fin da bambino a essere determinato, portare a termine ogni incarico, lasciare niente al caso a non rimandare al domani.
Ero fatto così, diligente e preciso, al contrario di Arianna.
Eppure abbiamo avuto gli stessi genitori. È vero che nonostante a quanto ti insegnino i genitori, ognuno nasce con il proprio carattere.
Arianna già da piccola era una rivoluzionaria, una specie di Che Guevara in miniatura, pronta a combattere contro tutti per i suoi ideali. Sorrido a ripensare ad Arianna a quattro anni e ai suoi ideali:
«Mamma, ma Antonio non va a letto alle nove come me,perché ?»
«Perché sono più grande, logico»
«Mica l'ho chiesto a te ma alla mamma»
La rivedo piccola e imbronciata, sembrava che il mondo le fosse cascato addosso. Lei doveva avere una spiegazione, sempre e a volte era difficile perché nonostante la sua tenera età sapeva come chiuderti la bocca.
«Tesoro, ha ragione tuo fratello, il motivo è quello anche tu quando sarai grande come Antonio, potrai stare alzata di piú»
«No, non è vero tu e papà siete ingiusti e solo perché è maschio»
I miei genitori non erano preparati ad avere una piccola suffragetta come figlia...
Risi a crepapelle.
«Ma non è vero! amore è solo perché è più grande»
«No, è vero... lui può fare tutto perché è maschio!»
Rivedo gli occhi di mia madre alzati al cielo, le labbra che si distendevano in modo inconsapevole...Espressione chiara di imbarazzo, che capii solo quando diventai a mia volta padre.
Quando Marco, come sua zia, se ne usciva con qualche frase che ti faceva pensare:
E mo' dove l'ha imparato ... mannaggia che gli dico...terrore... mi veniva naturale ripensare al viso della mamma.
Sento il rumore sferragliante del treno che si ferma sui binari.
Mi accingo a salire sul treno, ho un sorriso ebete sul viso, ne sono sicuro, ma non mi importa: Sono davvero felice! Il resto non conta.
Mi siedo, prendo il libro dalla borsa.
Il viaggio prosegue tranquillo, leggo, dormo, guardo fuori dal finestrino il panorama, mi rimetto a leggere, mi riaddormento e così via.
Nessuno cerca di parlarmi, mi sembra tutto perfetto.
Sono le undici e il treno si ferma a Roma Termini. Scendo, respiro l'aria metropolitana. Gente frenetica che corre di qua e di là, gente che si abbraccia, gente che si fa gli affari propri.
Mi sembra un sogno. Esco trovo un taxi, appare pronto ad aspettarmi, oggi è il mio giorno fortunato. Salgo, dico l'indirizzo al tassista e aggiungo:
«Sono di Roma, ho fretta. Quindi non cerchi di fregarmi con il giro turistico della città» Fingo l'accento romano, sembra credermi. Bene.
«OK!» mi risponde fra lo stizzito e l'imbarazzato.
Sorrido, vorrei dire meglio specificare conosco i vostri tariffari... ma forse è opportuno che mi chiuda la bocca, l'euforia potrebbe farmi dire cazzate.
Arriviamo sotto casa di Marica, suono il campanello, una voce mi strilla dal citofono:
«Papà!»
Urla così forte quella parola dolcissima che mi si riempie il cuore. Nessuna voce mi è sembrata più soave.
La porta si apre, corro all'ascensore, pigio terzo piano. Che lento, sembra metterci un'eternità, facevo prima a piedi.
Arrivo, la porta è aperta e un piccolo ometto mi corre incontro e mi abbraccia. Lo bacio, abbraccio, lo annuso per fino, mi sento a casa finalmente.
Parlo con Marica, poi mi rivolgo anche a Giuseppe con estrema gentilezza, ma non vedo l'ora di essere io e Marco da soli. Ho in programma un sacco di cose da fare: giro al Disney Store, parco giochi, lo porterò anche al Colosseo e gli racconterò della storia dei gladiatori -spero che lo affascini, come affascinò me quando andai in gita a Roma-, giro per la città, in fine cena alla sua pizzeria preferita e poi a nanna assieme, abbracciati.
Per domani vedremo cosa fare prima che il mio treno riparta.
Spero di regalargli un compleanno indimenticabile.
Salutiamo Marica e Giuseppe.
Dico a Marco che prima passiamo un attimo in albergo a mettere giù le valige e che mangeremo qualcosa al bar vicino. È felice, lo vedo dai suoi occhi che brillano.
Comincia a raccontarmi un sacco di cose, alcune non le capisco, ma non oso fermarlo, è così entusiasta, che non posso chiedere delucidazioni. Mi limiterò ad annuire e a far finta di capire.
La giornata procede alla grande, il telefono non squilla, Vincis e De Michelis, sanno che non possono disturbarmi, o meglio sanno che lo devono fare solo per cose di vitale importanza.
Siamo in giro per Roma io, lui e il peluche gigante di Stitch che ha scelto al Disney Store.
Mentre mangiamo un gelato d'asporto su una panchina e ci riposiamo, Marco mi abbraccia e mi dice:
«Grazie Papà, il più bel compleanno di sempre»
Emozione pura, indescrivibile e il pensiero del trasferimento si fa sempre più reale:
Lunedì compilerò tutti i moduli, te lo prometto, penso. Non oso dirlo per paura di rovinare quel momento perfetto.
Squilla il cellulare:
«Scusa campione, il telefono»
Marco si stacca dalle mia braccia, nel momento in cui vedo chi è, lo sento scivolare via in un baratro nero. Vedo i suoi occhi che mi implorano e posso sentire la sua voce che mi dice:
«Papà, non rispondere»
Invece è in silenzio, il tempo sembra fermarsi e con le mani tremanti rispondo:
«Vincis, dimmi!»
«Deve tornare, abbiamo ricevuto una ...»
Mi alzo di scatto e mi sposto, non voglio che mio figlio senta:
«Chi è morto?»
«Nessuno, ma un uomo dice di essere stato rapito, commissario secondo me è stato rapito dal "Pulitore", è troppo lungo da spiegare per telefono...»
Lo interrompo di nuovo:
«Ti conviene che sia vero»ringhio.
Riattacco, cerco di sorridere, Marco ha già capito.
Cerco di spiegargli, ma le parole non sono abbastanza: So che l'ho deluso.
Scrivo a Marica, non ho voglia di sentirla, me ne direbbe di ogni.
Te lo riporto, emergenza al lavoro.
Torniamo in silenzio all'albergo.
Marica risponde in pochi attimi.
Non ci sono parole solo ...inaffidabile come sempre. Per tua fortuna siamo a Roma.
Quel "siamo"mi fa stare ancora peggio. Siamo/loro ancora a Roma, perché noi siamo una famiglia e lo sapevamo che sarebbe successo...
Riporto Marco.
Riprendo il taxi, riprendo il treno.
La felicità se ne è andata, mi sento come se da un sogno fossi tornato in incubo, lo stesso inutile incubo:
La mia vita da commissario.
SPAZIO AUTRICE
Quando ho scoperto questa casella ho pensato perfetto lo mando a Roma Evvai!! Invece ci ho dovuto pensare giorni (nonostante sia un periodo frenetico nella mia vita) il pensiero di scrivere questo capitolo era costante, non come spiegarvelo ma sentivo che non sarebbe stato facile e allora mi sono detta: dai Asia, lo scrivi in poco tempo, lo sai ! Invece la mia sensazione era giusta! È stato il capitolo più difficile da iniziare e finire. 😛😛😛però spero che vi piaccia. Curiosità : ogni volta che pensavo al capitolo, pensavo che io avessi bisogno di viaggiare no Di Dio 😂😂😂 buon viaggio quindi anche a BlondeAttitude_ e Wulkoff
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