2. run
tmr
La Radura: il posto che più odiavo e allo stesso tempo amavo, quella che era casa mia ma che avrei preferito non lo fosse. Era bellissimo vivere immersi nella natura, ma era bruttissimo non potersene andare. Era bellissimo vedere i Velocisti, soprattutto Minho, entrare nel Labirinto, luogo che preferivo identificare come "La Morte". Guardarli uscire con l'adrenalina nel corpo al mattino e rientrare la sera, a volte sconfitti e stremati, a volte carichi per dare il meglio di loro il giorno dopo.
Poi c'era Newt, l'unico motivo per cui non cedevo alla tentazione di uccidermi per poter finalmente uscire dal Labirinto. La sua amicizia negli anni nella Radura era stata fondamentale, nonostante a volte la mia forse non fosse stata sufficiente per lui.
Ma la cosa più bella per me restava accogliere i nuovi arrivati, la più bella in assoluto. Offrirgli una spalla su cui piangere, una certezza, un punto d'appoggio. Sapevo meglio di chiunque cosa si provasse ad uscire da quella Scatola, ma a differenza di quelli arrivati dopo di me io non avevo avuto nessuno a parlarmi. Solo la curiosità che uccideva la mia paura di morire.
La cosa che odiavo di più, e mi azzarderei a dire l'unica dopo il Labirinto, era Gally. Da quando era arrivato, con quell'aria di sufficienza e superiorità che trascinava dietro di sé, io e lui non eravamo mai andati d'accordo. Io, troppo sensibile e lui, troppo cinico. Non c'era mezzo punto di incontro tra di noi. L'avevo sempre pensato e lo pensavo ancora di più mentre correvo verso di lui, intenta a separarlo dal nuovo arrivato con cui aveva deciso di fare a botte.
Sentimmo i Radurai che incoraggiavano Gally mentre qualcuno, invece, gli gridava di fermarsi e vedemmo il Fagio steso a terra mentre Gally si accingeva a buttaglisi sopra per prenderlo a pugni. Presi a correre più veloce, spinta da un moto di rabbia, urlandogli contro prima di allontanarlo. Me lo lasciò fare, senza replicare, e mi guardò mentre aiutavo il Fagio a rialzarsi.
«Io l'ho visto, ti dico. L'ho visto durante la Mutazione!» urlò Gally, puntando un dito accusatorio contro il Fagio. Fui costretta a mettermi tra di loro, afferrando Gally per il colletto della maglia e gettandolo a terra. Non ero di certo più forte di lui, ma l'avevo semplicemente colto alla sprovvista.
«Che hai visto, eh? Che hai visto?» gli gridai, ad un centimentro dalla faccia. «Stammi a sentire bene, siamo tutti sulla stessa caspio di barca, capisci? Siamo tutti rinchiusi in questo maledetto posto contro il nostro volere e l'unica cosa che riesci a fare tu è picchiare un nuovo arrivato? Quando sei arrivato tu ti abbiamo accolto come un fratello, come facciamo con tutti, e al diavolo la tua cacchio di Mutazione!» Ripresi fiato solo dopo aver finito quella frase, per poi lasciare andare la maglia di Gally e fargli sbattere la testa sul terreno. Feci per andarmene, desiderando solo di darmi una sciacquata alla faccia, ma per farlo passai accanto a Newt che mi bloccò, afferrandomi il braccio destro e stringendolo tra le sue mani calde. Lo guardai dritto negli occhi, scorgendogli dietro lo sguardo lo stesso risentimento che c'era nel mio. Non sapevo neanche per cosa. Per Gally, per i Creatori, per Dio stesso?
«Non credi di aver esagerato?» mi chiese il mio amico, lasciandomi indignata e suscitandomi una risatina sarcastica
«Esagerato?» chiesi, sprezzante. «Dici sul serio? Stava praticamente uccidendo quello nuovo e hai il coraggio di dire a me che sono stata esagerata?»
«Sì, ma sbatterlo a terra e gridargli in faccia non ti fa apparire migliore di lui» disse senza staccare gli occhi dai miei, ma lasciandomi andare il braccio. Sentii un vuoto alla mancanza di quel contatto, ma mi costrinsi a non cedere.
«Stai anche dalla sua parte, ora?» gli domandai, riducendo ormai la voce ad un sussurro.
«Sophie, starò sempre dalla tua parte perché ti voglio bene. Lo sai benissimo.» Le sue parole, in qualche modo, mi ferirono. Mi voleva bene.
«Mi vuoi bene?» chiesi retoricamente io. Avrei voluto solo baciarlo e dirgli che lo amavo perché del suo affetto me ne facevo tutto e niente. Non saremmo mai stati solo e unicamente amici, non per me, non dopo tutte quelle sensazioni di familiarità che provavo quando lui era vicino a me.
«Sì» mi rispose Newt, riluttante. «Ti voglio davvero bene, Soph.» Quelle parole, ripetute, mi ferirono ancora di più. Cercai di aggrapparmi alla speranza che quei ricordi, quelle sensazioni che provavo, fossero davvero legati a qualcosa che c'era stato tra me e Newt. Ma c'era stato non vuol dire che c'è ancora. Lo guardai male, prima di correre verso l'angolo in cui si incrociavano due dei muri del Labirinto, quello che coincideva con la foresta delle Faccemorte. Venivo sempre qui, era una sorta di posto solo mio in cui potevo semplicemente rimanere sola con i miei pensieri. Guardai in direzione della Porta Occidentale, sapendo che Minho non l'avrebbe varcata perché quel giorno era già rientrato. Tutto a un tratto mi cominciai a chiedere come dovesse essere, fare la Velocista. Non ci avevo mai pensato, prima di allora, ma vedere il Fagio correre mi aveva fatto tornare alla mente qualcosa. Uno dei soliti ricordi, che riuscii ad afferrare solo per metà.
Corri, Sophie.
Non riuscivo ad associare quella voce ad un volto o ad un evento, perciò mi svanì semplicemente da sotto il naso. Avevo voglia di spaccare qualcosa per la frustrazione. Erano due anni che non riuscivo a tenermi stretta nemmeno un solo stramaledettissimo ricordo. Chi avrebbe dovuto dirmi di correre e perché? Qualcuno dei Creatori che ci avevano messo nel Labirinto? Una madre? Mi rifiutai di andare avanti a pensarci, tanto non avrebbe portato a nulla. Chiunque mi avesse cancellato la memoria, aveva fatto proprio un bel lavoro.
Mi guardai il polso di scatto. Quaranta minuti. Quaranta minuti alla chiusura delle Porta. Un'idea malsana mi balenò in testa: ce l'avrei fatta a fare un giro, soltanto un giro veloce, per poi tornare nella Radura prima della chiusura delle Porte. Ma che dicevo? La regola numero uno, la cacchio di regola numero uno: non entrare nel Labirinto a meno che tu non sia un Velocista. Ma quella voce, quella voce dentro di me che mi urlava di correre. Corri, Sophie.
Come se fosse stato un ordine, mi ritrovai a camminare verso la Porta Occidentale. Sono un Medicale, dovrei stare vicino a Ben, pensai. Una parte di me voleva restare, l'altra parte stava già correndo verso il Labirinto. Sapevo che avrei potuto perdermi, senza dubbio. Sapevo che cambiava tutte le notti, sapevo che anche i Velocisti più esperti avevano difficoltà a trovare la strada di casa, ma io sentivo di sapere esattamente cosa stavo facendo. Corri, Sophie. Perché l'arrivo del nuovo ragazzo aveva sbloccato quel ricordo? Perché prima di quel giorno non avevo avuto lo stimolo di entrare dentro la Morte?
Controllai l'orologio spesso, per assicurarmi di non arrivare in ritardo alla chiusura delle Porte: l'ultima cosa che volevo era ritrovarmi a fare un pic-nic con i Dolenti. Varcai la soglia della Porta Occidentale esattamente tre minuti prima che questa prendesse a muoversi per richiudersi. La prima cosa che pensai, appena tornata alla Radura, fu che mi avrebbero punita per essere entrata nel Labirinto. Una parte di me pregò che nessuno mi avesse vista, ma poi mi tranquillizzai perché pensai che correre lì dentro mi aveva fatta sentire meglio. Poco importava, delle conseguenze. Ormai, in qualche angolo remoto del mio cuore, sapevo che era esattamente quello ciò che dovevo fare. Le mie speranze di non aver attirato l'attenzione vennero spazzate via dalle sagome di Newt e Minho che correvano verso di me, con lo sguardo preoccupato.
«Sophie!» urlò Newt, mentre correva zoppicante verso di me. Mi strinse in un abbraccio appena mi raggiunse, impedendomi di riprendere fiato e rischiando di farmi morire. Mi lasciò andare solo dopo qualche secondo, dandomi un buffetto dietro la nuca.
«Si può sapere che ti è saltato in mente? Ti sei bevuta il cervello?» Ogni pizzico di dolcezza venne spazzato via da quei rimproveri, che non tardarono ad arrivare anche da parte di Minho.
«Sei fortunata che probabilmente nessuno se ne sia accorto. Se qualcuno ti avesse visto, nessuno ti toglierebbe una giornata intera di gattabuia.» Mandai giù il groppo che avevo in gola, ritrovandomi ad annuire.
«Bene così. Andrà bene qualsiasi cosa. Però...» mi interruppi, attirandomi addosso gli sguardi confusi dei miei amici che mi esortavano silenziosamente a parlare. «Voglio diventare una Velocista.»
Le mie parole sollevarono una sorta di imbarazzo collettivo, come se avessi detto che volevo volare fino al Sole. Newt fu il primo a ridere, lasciando sfuggire qualcosa come è ridicolo. Minho non disse niente, ma continuava a fissarmi con un'espressione indecifrabile dipinta in faccia.
«Puoi dirle che è ridicolo?» lo spronò Newt, continuando a ridacchiare. «Ne ho sentite di cavolate oggi, ma questa Sophie. Col cacchio che ti lascio andare lì fuori.»
«Ci sono già andata» esplosi, allargando le braccia dalla frustrazione. Minho si portò una mano sotto il mento, pensieroso come suo solito.
«Tu... vuoi fare la Velocista?» chiese, senza un tono particolare. Io sospirai un sì, sperando che almeno lui capisse. Lui capiva sempre. Correre e correre e correre mi aveva fatto capire che era quello ciò che dovevo fare in quel posto. Se sarei dovuta morire lì dentro avrei voluto almeno vivere come volevo, nel migliore dei modi, per assaporare un minimo di libertà.
«Min» lo chiamai, senza aspettarmi una sua risposta. «Voglio essere una Velocista. Non ha senso, tutto questo. Faccio anche schifo come Medicale, Clint sarebbe un Intendente migliore di me.»
Le mie parole sollevarono di nuovo un silenzio che mi fece venir voglia di radere al suolo i muri e banchettare coi Dolenti. Di sicuro loro sarebbero stati più prolissi.
«A me sta bene. Voglio dire, forse dovrai fare un periodo di prova, ma a me sta bene» se ne uscì infine Minho, suscitando lo sdegno di Newt al suo fianco.
«Stai scherzando, vero? Non esiste, fuori discussione» ricominciò a blaterare, facendomi esalare un sospiro frustrato.
«Newt, non sei mio padre!»
«Ma tu sei la cosa più pura che ci sia in questa Radura, perciò non ti faccio rischiare la vita!» Le sue urla mi raggiunsero in pieno volto, come uno schiaffo, ma senza il dolore. Newt non aspettò una mia risposta, per ricominciare a parlare. «Sei un cacchio di raggio di Luce in questo posto così grigio, Sophie. Ti adorano tutti. Non possiamo perderti.»
Mi sentii importante, dopotutto. Sapevo bene del mio ruolo nel gruppo, sapevo di essere importante in un qualche modo, ma in cuor mio ormai sapevo anche che il mio posto era tra i Velocisti. Una voce indistinta continuava ad urlarmi di correre. Corri, Sophie, corri.
«Lo so, Newt. Ma lo devo fare, devo almeno tentare. Non riesco più a starmene qui dentro con le mani in mano, capisci?»
I suoi occhi si ridussero a due fessure, prima di chiudersi e riaprirsi dopo qualche secondo, con una luce diversa impressa nelle iridi.
«Va bene, ma se muori ti ammazzo.»
Sorrisi, saltellando sul posto mentre battevo le mani. Sapevo che Newt voleva proteggermi, sapevo bene che anche Minho avrebbe voluto farlo, ma entrambi sapevano bene che fermarmi non era fra le opzioni. Il mio sorriso si spense non appena udii le urla di Ben provenire dal Casolare. Cercai lo sguardo dei miei due amici, che fissavano il pavimento di mattonato senza riuscire a parlare. Sapevo che erano addolorati quanto me, per quello che stava succedendo a Ben: la Mutazione non era di certo una passeggiata.
«Sta molto male?» riuscii a chiedere, con un filo di voce. Minho alzò le spalle, con la sua solita espressione apatica dipinta sul volto.
«Dimmelo tu, sei tu il Medicale.» La sua battuta mi sollevò un lieve sorriso di circostanza, che spensi subito prima di sfilare accanto ai miei due migliori amici per raggiungere il Casolare. Velocista o meno, aveva ragione Minho: ero ancora un Medicale. Newt mi corse dietro, raggiungendomi col suo solito passo zoppicante. Ogni volta che ripensavo a come si era procurato quella ferita, gli occhi mi si riempivano di lacrime. Scacciai velocemente quel ricordo.
«Comunque così, tanto per dirtelo, il Fagio è un cacchio di ficcanaso. Dico sul serio, non riesce a stare al suo posto, perciò mi ci gioco quello che vuoi che proverà ad entrare nella stanza di Ben. Sempre che non l'abbia già fatto, ovvio.» Risi alle parole di Newt, ripensando al fatto che non me la sentivo del tutto di giudicare quello nuovo. Ricordavo poco della mia vita prima del Labirinto, ma sapevo benissimo che appena arrivata nella Radura avevo anche io il vizio di curiosare dovunque. È umano, dopotutto.
«Niente che non abbiamo già visto. Meglio che sia curioso, piuttosto che vederlo piangere in un angolino» lo feci riflettere, mentre aprivo la porta del Casolare. Salire le scale e ritrovarsi Ben pieno di venature in preda alle convulsioni non fu affatto un bello spettacolo, tanto che mi sembrò di muovermi in una specie di sogno. Avevo visto molte volte le Mutazioni, ma non avevo visto mai una delle persone a me più care in quello stato. Prendere sonno, quella notte, non fu facile. Non accettavo l'idea di dover scivolare in un sonno senza sogni, come mi accadeva da ormai due anni. Dormire era come un'azione costretta, non un piacere come ricordavo esserlo un tempo. Le mie però erano solo sensazioni, nulla di più, e i ricordi veri e propri non tornavano mai. Almeno, non erano mai tornati prima di quella notte.
Non sono sicura di dove mi trovi, né del perché io ci sia. La stanza è buia, piena di computer e altri macchinari. Mi volto a sinistra: una parete interamente composta da vetrate permette ad una fila di persone con delle camicie bianche addosso di scrutarmi, quasi annoiate.
«Thomas, aumentami l'intensità.» La voce esce fuori dalla mia bocca, ma sono sicura di non averlo fatto volutamente. Non sono padrona del mio corpo. Mi chiedo perché, ma poi capisco: non è un sogno, è un ricordo. I miei occhi si puntano su un ragazzo, che devo mettere a fuoco prima di riconoscere: il Fagio. È dall'altra parte della vetrata, che traffica con un computer. Dietro di lui c'è una ragazza: occhi azzurri, capelli neri, alta. La me del passato sa di conoscerla, ma io non ho idea di chi sia.
Una scarica elettrica mi attraversa la tempia, costringendo la me del ricordo a socchiudere gli occhi dal fastidio. Alzo un pollice in segno di approvazione, riportando lo sguardo davanti a me. Vedo un ragazzo biondo, gli occhi azzurri e le labbra rosee aperte in un sorriso sconsolato. È seduto su una strana sedia, che riconosco essere uguale a quella su cui sono seduta io, con dei fili attaccati alle tempie. Sembra quasi un macchinario per giustiziare le persone, ma io so di essere tranquilla. Non ho paura, sono concentrata.
«Will, a te va bene?» dice una voce in un auricolare che mi accorgo solo ora di avere. È la voce di una ragazza, quella in piedi dietro Thomas. Il ragazzo davanti a me, Will, annuisce.
«La giusta intensità per friggermi i maledetti neuroni. Possiamo iniziare o voi cattivoni avete paura?» dice Will, prima di essere bloccato da una scarica. Mi volto verso i due ragazzi dietro il vetro, ma mi rendo conto che è stato un uomo magro e alto, con il naso lungo e gli occhi piccoli a dargli la scossa. So di conoscerlo, so che lo detesto.
«Silenzio, B6.» Sentendo quelle parole alzo gli occhi al cielo, infastidita. In passato sapevo cosa significasse e lo detestavo, mentre ora sono solo confusa.
«Janson, piantala di giocare al piccolo elettricista e facciamo il diavolo che dobbiamo fare. Bene così?» Di nuovo la mia voce, che non sembra la mia. Quello che deve essere Janson sembra infastidito, ma allontana la mano dal computer di Thomas che mi guarda attraverso il vetro. Sembra quasi dispiaciuto, poco prima di premere quel pulsante. Prima che tutto si spenga, riesco a sentire le ultime parole sussurrate da Thomas.
«Ci vediamo presto, Beck. Te lo prometto.»
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