1. the beginning
tmr
Apro lentamente gli occhi, mentre un mal di testa impellente mi martella le tempie. Sento che il pavimento sotto di me si muove, come se ci fosse un terremoto in atto e io pensassi solo a dormire. Quell'idea raccapricciante mi fa aprire gli occhi più velocemente, mentre sbatto le palpebre per cercare di abituarmi al buio del posto in cui mi trovo. Mi ritrovo costretta a stare in ginocchio, prima di abituarmi al movimento. Faccio mente locale: dove sono? Che giorno è? Chi sono? Mi sorprendo a non riuscire a dare una risposta sensata all'ultima domanda, se non con un nome: Sophie.
«Bene, finalmente siamo tutti svegli» afferma una voce sarcastica accanto a me. Piego il collo di lato, cercando di mettere a fuoco la figura che mi siede vicino. Capisco solo che è un ragazzo, ma non riesco a vedere bene i dettagli del suo volto.
«È una ragazza?» domanda qualcun altro, sbigottito, seduto davanti a me. Il cuore comincia a battermi forte nel petto, mentre una goccia di sudore mi imperla la fronte. La asciugo velocemente con la mano, provando a mettermi in piedi. Mi risulta difficile come se non sapessi nemmeno come si cammina, ma faccio leva con le braccia al muro di questa specie di scatola di metallo per non perdere l'equilibrio. Distinguo tre figure, oltre me, sedute con la schiena poggiata ai lati di quello che credo essere un ascensore. Lo sento continuare a salire, ma non ricordo di esserci mai entrata volontariamente.
Un lampo mi attraversa la memoria, io cerco di afferrarlo, ma quel ricordo mi sfugge via come un sogno ormai dimenticato. Sophie.
«Dove diavolo siamo? Perché non ricordo niente?» mi lamento, prima di sussultare. Mi rendo conto solo adesso che non ricordavo nemmeno che suono avesse la mia voce. Involontariamente faccio una cosa così stupida come pensare al mio aspetto, ma mi sembra di aver dimenticato anche quello. Mi guardo le mani, come se quelle potessero aiutarmi a capire come sono fatta. Di che colore ho gli occhi? Perché ricordo il mio nome, ma non di che colore ho gli occhi?
«Benvenuta nel club, pivellina.» L'ultima frase proviene dall'unico ragazzo che ancora non aveva parlato, ma prima che possa controbattere l'ascensore arresta la sua corsa, facendomi perdere l'equilibrio. Mi ritrovo a cadere sul primo ragazzo che ha parlato, che mi stringe tra le braccia prima che io possa rialzarmi imbarazzata.
«Che è successo?» chiede uno degli altri due, non ricevendo risposta. Sarebbe bello saperlo. Guardo verso l'alto, saltellando per dare un colpo al soffitto di quella specie di scatola, ma purtroppo sono troppo bassa e non ci arrivo.
«Aspetta, ti aiuto» mi dice il ragazzo su cui sono caduta prima, afferrandomi senza preavviso per i fianchi e facendo leva sulle ginocchia per alzarmi. Accetto il suo aiuto, arrivando finalmente a poter dare dei colpi decisi su quelle che mi sembrano due ante. Noto che si sollevano, così provo a dare spinte più forti, fino a quando una delle due non si apre facendo passare un po' di luce. Mi aggrappo al bordo dell'anta, facendo leva sulle braccia per sedermi sulla porta ancora chiusa e uscire da quel posto.
Quasi non credo ai miei occhi, quando do' uno sguardo all'ambiente. Una distesa grande quanto minimo otto campi da football si erge verde e rigogliosa davanti a me, mentre la scatola da cui siamo usciti si trova proprio al centro. La cosa più raccapricciante, però, è che la distesa è circondata da quattro muri imponenti, alti almeno trenta metri.
Due mani spuntano fuori da dove sono uscita io, risvegliando i miei pensieri. Tiro la mano del ragazzo per aiutarlo ad uscire e lui si solleva fino a sedersi accanto a me, con le gambe a penzoloni dentro l'ascensore. Non so dire di quale dei tre ragazzi si tratti, almeno fino a quando non apre bocca e riconosco la voce del primo ragazzo che mi ha parlato. Lo guardo bene alla luce del Sole, notando che è asiatico. I suoi capelli neri corti gli incorniciano il viso pulito e non riesco a fare a meno di pensare a quanti anni abbia. Io quanti ne ho?
«Dove diamine siamo finiti?» domanda, più a sé stesso che a me. Scuoto la testa, tornando a guardare la Radura che ci si erge davanti, con la mente che mi martella per le troppe informazioni mancanti. Chi sono i miei genitori?
«Non lo so, ma già voglio andarmene.»
«Ve ne state lì a guardare il panorama o ci date una mano?» sentiamo dire da uno dei due ragazzi rimasti nell'ascensore, risvegliandoci dal nostro stupore. Io e il ragazzo asiatico ci mettiamo in piedi, aprendo anche l'altra anta e allungando una mano per aiutare gli altri due a salire. Guardo bene anche loro, notando che uno dei due è di colore ed è leggermente più basso, mentre quello che mi sta tendendo la mano ha i capelli biondi e un sorrisetto da bravo ragazzo dipinto sul volto. Lo aiuto a darsi una spinta per salire, ritrovandomelo praticamente addosso. Un altro lampo mi attraversa la mente appena mi ritrovo vicina a lui, ma svanisce esattamente come quello precedente, prima ancora che possa accorgermene. Forse anche lui deve aver pensato qualcosa, perché mi guarda in maniera strana.
«Cristo santo, e questo che sarebbe?» La voce del ragazzo di colore gli fa distogliere lo sguardo, così finalmente si mette in piedi e comincia a guardarsi attorno.
«Se è un maledetto scherzo, non fa ridere» me ne esco, rimettendomi in piedi e spolverandomi i pantaloni. Non ricordo nemmeno di averli mai comprati, questi pantaloni.
«Un po' troppo elaborato, come scherzo» dice il biondo, rivolgendomi un sorrisetto di circostanza. Che ha da ridere tanto?
«Vi ricordate qualcosa o solo a me è stato fatto il lavaggio del cervello?» dice l'asiatico, strappandomi letteralmente le parole di bocca. Decido istantaneamente che questo qui mi sta simpatico.
«Sophie. Solo questo. Per il resto, tabula rasa.» Le mie parole giungono ovattate persino alle mie orecchie, mentre mi passo frustrata una mano fra i capelli. L'impulso di vedere di che colore ho i capelli è troppo forte, ma quasi mi consola vedere che sono castani. In fondo al cuore lo ricordavo.
«Minho. Credo.» Questa voce proviene dal ragazzo asiatico, a cui posso dare finalmente un nome.
«Newt. Abbastanza sicuro» dice il biondo, cercando di risollevare gli animi. Decido che in fondo anche lui mi sta simpatico. Quantomeno sorride sempre.
«Oh, è tempo di presentazioni? Scusate, ero un po' impegnato a cercare di capire dove cacchio fossimo. Alby, molto piacere.» Il tono sarcastico dell'ultimo ragazzo mi fa pensare che onestamente non so se lui mi sta del tutto simpatico. Ma comunque, ci troviamo in questo posto insieme. Do' una pacca sulla spalla di Minho, quasi istintivamente, rivolgendomi poi a tutti e tre i ragazzi.
«Andiamo a dare un'occhiata a questo posto.»
2 ANNI DOPO
Tutto ci sembra normale, quando lo viviamo ogni giorno. Ogni singola cosa, anche la più stravagante, se vissuta ogni giorno appare come la normalità più totale. Rimanere chiusi in un labirinto giorno e notte, questo suona come normale? Sognare di scappare, di evadere, svegliandosi sempre con la consapevolezza di non poter andare via perché destinati a morire lì dentro, questo suona come normale? I primi giorni, magari mesi, sembra tutto folle. Svegliarsi in una Scatola di metallo, ricordare solo il proprio nome, non avere memoria di un singolo giorno di vita prima di quel momento. Ti sistemi in un angoletto e finisci per piangere, mentre vedi i muri del Labirinto aprirsi all'alba e richiudersi al tramonto, ogni santo giorno. Ma è quando passano Soli e Lune interminabili che capisci che quella, ormai, è divenuta la tua routine. La cosiddetta vita normale.
Era questo che pensai quando una leggera brezza mi svegliò, quella mattina. La mattina in cui tutto cambiò, quella in cui la mia routine fu totalmente smontata come un mobile e rimontata alla rinfusa dal peggiore degli operai. Quando arrivò la Scatola con il Fagio dentro pareva essere una giornata normalissima. Era esattamente quello che sarebbe dovuto succedere. Accadeva ogni mese che quella dannata sirena suonasse all'impazzata, per avvertirci del fatto che era arrivato qualcuno di nuovo in quell'inferno chiamato Radura. Ero sempre contenta, quando si trattava di nuovi arrivati. Rappresentavano una boccata d'aria fresca, una crepa di luce in quell'oscura monotonia.
Tutto andò come previsto: io e Newt ci calammo all'interno della Scatola, come da manuale, guardammo in faccia il nuovo arrivato, squadrandolo da cima a fondo per poter aggiungere quegli occhi castani alla lista di sguardi spenti che vagavano per la Radura. Una sensazione che non sapevo decifrare, però, mi diceva che non era proprio così normale, come giornata. Scacciai via quel presentimento quando il ragazzo, ancora confuso, ci seguì dopo avergli detto di attaccarsi alla corda che pendeva dall'alto, per farlo uscire da quell'ammasso di ferraglia. Aveva paura, come tutti. Nella Radura vivevamo di ansia e terrore allo stato puro, spaventati da ciò che sarebbe potuto succedere il giorno dopo. Le cose non cambiavano da due anni e la paura che all'improvviso qualcuno ci strappasse via la nostra normalità era sempre viva in me, come una fiammella che esita a spegnersi.
«Hey, Fagiolino, respira. È tutto a posto.» Il tono calmo e rassicurante di Newt non sembrò molto efficace, perché il petto del nuovo arrivato si alzava e si abbassava di continuo, più veloce del previsto. Pensai che dovesse essere davvero troppo spaventato, così gli posai delicatamente una mano sulla spalla.
«Va tutto bene, sul serio. Riesci a ricordare il tuo nome?» provai a chiedergli, rivolgendogli un sorriso rassicurante. A volte pensavo che la mia presenza nella Radura fosse volta solo a quello: consolare, rassicurare. Era davvero un peccato che io non riuscissi in alcun modo a consolare me stessa, però.
«Dove mi trovo? Che posto è questo?» mi ignorò il ragazzo, guardandosi attorno. Nel suo volto c'era qualcosa di familiare, pensai. Ma fu una sensazione che durò giusto un attimo e che non riuscii ad afferrare, come mi capitava più o meno con ogni nuovo arrivato. L'impressione di aver già incontrato tutti era sempre viva in me, ma non riuscivo a collocare nessuno di loro in un qualche ricordo. Era davvero frustrante, ma faceva parte della mia routine anche quello.
«Sei nella Radura, ma adesso respira. Devi avere un po' di pazienza, solo un po'» riprovai a consolarlo, ma sembrò non volerne sapere niente. Provò a rimettersi in piedi mentre continuava a guardarsi attorno, incespicando come se oltre che la sua vita avesse dimenticato anche come si fa a stare in piedi.
«Io non... non mi ricordo niente...» affermò, più a se stesso che a me o a Newt. La folla di radurai attorno a noi lo guardava come se fosse un folle e quasi mi arrabbiai, perché in qualche modo eravamo stati tutti spaventati come lui.
«Voglio andarmene da qui» sussurrò il Fagio tra sé e sé, sollevando una risatina tra le folla stretta accanto a noi tre.
«Se potessimo farlo tutti quanti l'avremmo già fatto, Pivello.» Dalla folla accalcata in cerchio attorno alla scena uscì Gally, con il suo solito tono da sofisticato. Di sofisticata non aveva nemmeno un'unghia, però. Mi alzai in piedi, visto che precedentemente mi ero inginocchiata accanto al ragazzo, e mi piazzai davanti a Gally che, nonostante mi desse uno stacco di qualcosa come trenta centimetri, si rivelava essere sempre più in basso di me. Non lo sopportavo già da molto prima, ma da quando aveva subito la Mutazione era diventato ancora meno sopportabile.
«Devi rompere le palle anche ai nuovi arrivati?» chiesi, con un tono di sufficienza. Gally mi squadrò da cima a fondo, con le braccia incrociate sul petto e l'enorme naso fastidioso sotto cui campeggiava una risatina puntato verso di me.
«Sono qui per questo, Sophie, al contrario di te» mi rispose, avvicinandosi alla mia faccia con un ghigno dipinto sul volto. Repressi l'istinto di tirargli una ginocchiata nelle palle, venendo interrotta da una voce poco prima di potergli rispondere.
«Dove caspio va?» sentimmo urlare, per poi voltarci e vedere che il Fagio correva velocemente verso una delle Porte del Labirinto. Sorrisi, vedendolo correre ad una velocità spropositata, per poi ridacchiare osservandolo mentre inciampava rotolando rovinosamente a terra.
«Complimenti, novellino, altri dieci secondi di corsa e saresti andato in contro alla morte certa!» gli urlai io battendo le mani, visto che era ad un passo dalla Porta Occidentale. Alle mie parole, Newt si fece scappare una risatina. Com'era bello quando rideva, non riuscii a non pensare. Come se la giornata non fosse stata già abbastanza tragica, un'altra voce spezzò il silenzio della Radura.
«Sophie, presto! Mi serve un Medicale!» urlò Minho portando sottobraccio Ben, rientrando dal Labirinto. Io e Newt ci voltammo verso il nostro amico Velocista, per poi corrergli incontro per aiutarlo a sorreggere Ben che si muoveva a peso morto, senza forze. Gally e Zart nel frattempo erano andati a recuperare il tipo nuovo, ancora steso a terra dopo la caduta.
«Che è successo?» chiedemmo io e Newt in coro, come accadeva spesso. Ci succedeva di pensare le stesse cose e di dirle nello stesso identico modo. Sapevo già la risposta di Minho, ma preferii provare a pensare a qualcos'altro. Una storta? Un malore? Qualsiasi cosa era meglio dello scenario che mi ero figurata in testa.
«Un Dolente l'ha punto» rispose Minho, con la voce rotta dal terrore. La gola mi si seccò, mentre il cuore accelerò rovinosamente i propri battiti. No, non Ben.
«Un Dolente in pieno giorno?» chiesi ancora io, sconcertata. Era raro che i Dolenti venissero fuori proprio di giorno e che pungessero qualcuno, ma sapevo che non era impossibile.
«Ma,» cominciò Newt «come è possibile, è giorno!»
«Caspio, fratello, vallo a dire a Ben. È stato punto, Cristo santo!» continuò Minho, indicando con un cenno della testa il suo amico steso a peso morto contro la sua spalla.
I Dolenti erano creature che, fino ad allora, avevamo avvistato quasi solo ed unicamente di notte. Avvistato si fa per dire, visto che chi rimaneva una notte nel Labirinto non ne usciva mai sano e salvo.
Ben prese a dimenarsi all'improvviso, rendendo difficile a Minho e Newt il solo tenerlo in piedi. Non sapevamo cosa fare né come trasportarlo visto che continuava a muoversi e a lamentarsi. Vederlo così mi strinse il cuore in una maniera indicibile, ma sapevo che se facevi il Velocista queste cose potevano succedere. Ogni mattina, quando vedevo Minho uscire, temevo che potesse tornare alla Radura proprio come Ben.
Arrivarono Jeff e Clint, i nostri Medicali oltre me (che, sinceramente, non ero proprio il massimo come dottore) e lo portarono al Casolare per iniettargli il Dolosiero. Abbandonarlo mi fece stringere il cuore in una morsa di oscurità. Ben era uno dei miei migliori amici, dopo Newt e Minho. Per quanto riguardava loro due, essere arrivati assieme ci aveva uniti parecchio, cosa che purtroppo non potevo dire anche di Alby. Era di certo amico di Newt e Minho, ma con me non aveva mai avuto un gran rapporto.
«Cosa caspio succede?» chiese proprio Alby, uscendo dal fitto bosco che si trovava a nord della Radura, arrabbiato. Arrabbiato lui?
«Niente, Ben è stato punto da un Dolente in pieno giorno ed è arrivato il tipo nuovo, cose che accadono spesso. Tu ti sei divertito, passeggiando?» gli disse Newt, con un pizzico di umorismo nella voce.
«Scusami se ogni tanto mi prendo del tempo per me!» replicò Alby, iniziando poi una solfa incredibile sul fatto che sentisse sulle sue spalle il peso di parecchie responsabilità, da quando Nick era morto. Il ricordo del ragazzo mi strinse il cuore per un attimo, ma lo allontanai in fretta per evitare di stare accigliata tutto il giorno. Non era questo, che serviva ai miei amici. E, del resto, neanche a me.
Poggiai la testa sulla spalla di Newt, sbuffando. Ascoltare Alby parlare non era più piacevole come un tempo, ormai era così frustrante che avrei voluto tappargli la bocca con del nastro adesivo. Tutto era cambiato, nella Radura, da un mese a quella parte. Alby per primo, era mutato più di tutti, diventando un saputello. Sapevo bene che Alby era solo stressato, che avrebbe voluto andar via come tutti, che non ce la faceva più a vivere tra quelle quattro mura. Lo sapevo benissimo. Ma, come lui, anche tutti noi volevamo trovare una via d'uscita. Solo, cercavamo di sorridere mentre sopravvivevamo.
A interrompere lo sproloquio del ragazzo davanti a me e Newt, che ascoltavamo con molto disinteresse, fu Zart. Arrivò davanti a noi correndo, con il fiatone e il cuore che sembrava gli stesse uscendo dal petto per lo sforzo. Pensai che Zart non sarebbe mai potuto diventare un Velocista e probabilmente lo pensò anche Minho alla mia sinistra, che già aveva ripreso fiato.
«Zart, che succede ora?» gli chiese il mio amico, mentre io portavo una mano sulla spalla del Raduraio che cercava le parole tra un respiro affannoso e l'altro.
«Gally e il tipo nuovo...» iniziò, facendo allarmare tutti e quattro.
«Che cosa, pive? Parla!» lo riprese Alby, meno pragmatico di me, afferrandolo per il colletto della maglia.
«Si stanno picchiando!» buttò fuori Zart. Bastarono quelle semplici parole a far guardare me e Newt, arrabbiati e impauriti, per poi iniziare a correre dietro a Zart verso il luogo in cui avveniva la rissa.
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