CAPITOLO 202 - Epilogo

Fiamme.
Fuoco.

Degli artigli.
Due lacrime d'ambra.

Aprii gli occhi ancora appannati dal sonno e predi ad osservare il legno del soffitto.

Rimasi in silenzio, ascoltando i battiti regolari del mio cuore e lo scrosciare della pioggia all'esterno.

Dall'odore di rugiada sapevo fossero già arrivate le prime luci dell'alba.

Mi rigirai nel letto, voltandomi verso Rubyo.
Se gli occhi non fossero già stati abituati al buio non sarei stata capace di distinguere neppure i confini del suo volto.

Dormiva ancora.

Lo sterno si gonfiava regolare verso il materasso.
La guancia schiacciata sul cuscino.
La mano nascosta sotto la federa.

Non sembrava essersi accorto che mi fossi svegliata.

Sorrisi.

Erano trascorsi oramai cinque anni da quando le immagini di quel giorno si erano impossessate dei miei sogni.

Cinque anni da quando mio fratello era morto, da quando avevo smesso di scappare.

E quel sogno, ricorrente, con il passare del tempo aveva smesso di turbarmi come aveva fatto in principio.

Dopo il crollo del Palazzo Imperiale, nessuno lo aveva più ricostruito e, con l'aiuto di qualche Ayrae, si era sparsa la voce che il Monarca fosse ancora vivo, seppur in gravi condizioni di salute e per questo costretto allettato in una qualche parte remota del Regno, sconosciuta al popolo.

Benché in molti avessero dubitato della veridicità di queste voci, quasi tutti erano giunti all'impropria conclusione che la sorellastra bastarda del Monarca, in passato sfuggita ai suoi doveri imperiali, ora fosse ritornata nella speranza di redimersi agli occhi del popolo e impossessarsi, a tempo debito, del potere che un tempo aveva rifiutato.

Rubyo mugugnò nel sogno.

Sorrisi, e le mie falangi si mossero per liberargli la fronte da un ciuffo castano ribelle.

«Lo so, lo so...» Gli sussurrai, come se anche nel sonno fosse stato in grado di leggere i miei pensieri. «Sono un popolo ingrato.»

Infilai nuovamente la mano sotto le coperte nel tentativo di nasconderla dal freddo pungente invernale.

Rubyo aveva ripetuto più volte quelle parole nel corso degli anni, definendoli "stolti e ingrati", ma la verità era che io non mi fossi mai interessata a far cambiar loro opinione.

Non ero amata.
Non ero rispettata.
Ma le cose avevano lentamente ripreso a funzionare correttamente.

Corruzione delle Guardie Imperiali.
Commercio di schiavi.
Beni di contrabbando.
Inequa divisione delle ricchezze.

Una dopo l'altra, il Regno stava riuscendo a liberarsi di ogni impurità che lo aveva macchiato durante il periodo di reggenza di Markus e, probabilmente, anche di nostro padre.

Con il passare del tempo avevo capito come non ci fosse realmente bisogno che una singola persona monopolizzasse tutti i territori, ma allo stesso tempo riconobbi che, almeno per quegli anni di transizione, lo spettro del Monarca sarebbe stato ancora necessario per evitare disordini e rivolte tra il popolo.

Popolo, che prima o poi avrebbe dovuto abituarsi a dissociarsi dalla figura del Monarca.

Fu lo stesso anno dell'attentato che, poco dopo la morte di Markus, dei volantini comparvero in tutte le province del Regno, annunciando come la malattia del Monarca gli avesse imposto di abolire la Festa Imperiale per quello e per gli anni a venire.

In segreto, due volte all'anno, si riunivano dei Mandati, ognuno rappresentanti una specifica provincia del Regno, per discutere delle problematiche che affliggevano i territori.

Tra i Mandati vigeva l'anonimato assoluto: nessuno conosceva l'identità di un altro Mandato, e tutti erano convinti che fosse il Monarca in fin di vita a selezionarli.

Nessuno sapeva che, a quelle stesse riunioni annuali, partecipavo anche io, il nuovo Monarca, colei che li aveva scelti per svolgere quel compito.

Nessuno, tranne Degorio.

A lui, come promesso da Dollarus nei suoi ultimi momenti, era stato affidato il controllo su Chaot.

Ancora ricordavo il giorno in cui io e Rubyo lo andammo a trovare nella sua villa nascosta nel bosco, pochi mesi dopo il lutto, per parlargli dei nostri nuovi progetti.

Diversamente dalla nostra prima visita, ci aveva accolto con gli onori della casa, ripercorrendo insieme il perimetro del giardino interno fino a raggiungere la stanza delle teche.

«Ci tenevo a mostrarvi la mia ultima aggiunta.» Aveva detto, facendosi strada tra le teche ora vuote. «È il pezzo forte della mia collezione.»

Si fermò davanti all'unica esposizione presente in quella stanza, un tempo straripante di beni lussuosi e pietre preziose proveninenti da ogni angolo dei due Regni. 

«Non è di certo la più bella che abbia mai posseduto.» Disse, indicando una pietra nera di medie dimensioni dalla superficie puntellata da tanti buchini. «Non brilla, non riflette la luce, e il suo valore sul mercato è poco più di quello di un sasso.» 

Con la manica della giacca, Degorio lucidò la targhetta alla base della teca.

Si leggeva: Pietra Lavica.

«Ma è tutto ciò che mi è rimasto di lui adesso.» Un improvviso groppo in gola gli impedì di parlare per qualche secondo. «Per me è più preziosa di qualsiasi altra gemma.» Concluse, asciugandosi rapidamente una lacrima che si era lasciato sfuggire.

Da allora, esclusi i nostri incontri annuali, non lo avevamo più visto.

Fu in quello stesso periodo che dovetti dire addio anche a Gideon.

Quando avevo mandato Aerin in esilio a Kohl per il resto dei suoi giorni, non mi sarei mai aspettata che Gideon l'avrebbe voluta seguire.

«Mi hai comunque dato da scontare la pena per un anno.» Disse, riferendosi a come mi fui vista obbligata a punirlo per tutti quei tradimenti che si erano susseguiti. 

Prima per aver lavorato per mio fratello.
Poi per avergli ceduto la spada.

«Qualche anno in più non potrà farmi che bene.» Sorrise, avvolgendo le spalle della madre con un braccio. «Posso recuperare il tempo perso.»

E, a quelle parole, non mi ero opposta, lasciando che il contratto obbligasse Aerin a raggiungere Kohl e Gideon a seguirla spontaneamente.

«Lyra...» La voce roca di Rubyo mi riportò al presente. «Di nuovo quel sogno?» Mi chiese, notando come fossi già sveglia.

Annuii. 

«Ma non importa.» Mi allungai nella sua direzione, depositando un bacio sulle sue labbra. «Quello è il passato.» Dissi, e feci per alzarmi a sedere, ma Rubyo mi afferrò per l'avambraccio, tirandomi verso di sé.

Con una risata, caddi sul suo petto.

«Un passato molto lontano.» Le sue parole mi solleticarono l'orecchio mentre la stretta delle sue braccia mi impediva di rialzarmi.

Perché la nostra vita era cambiata, in meglio.

Io rappresentante della Capitale e lui rappresentante di Krat, escluse quelle due volte all'anno altro non eravamo che una coppia come un'altra.

Nella nostra casetta in legno a confine tra le due province del Regno, l'altitudine e gli alberi ci racchiudevano in un'oasi di pace e tranquillità di cui nessuno ci avrebbe più privati.

Per la prima volta, dormivamo in quello che potevamo chiamare il nostro letto e raccoglievamo i rami per alimentare il fuoco della nostra cucina. Il tavolo, le sedie, i mobili... era tutto interamente scalfito nel legno e lavorato a mano da noi, insieme.

Ogni oggetto in quella casa sperduta tra le montagne, dal più grande al più piccolo, era simbolo della nostra libertà e protettore dei ricordi della nostra quotidianeità.

Erano solo due le cose che appartenevano al corredo del nostro passato: il mantello di pelliccia dei Rayag, che ora ci teneva caldi nelle notti invernali, e il moncone della spada che mio padre mi aveva regalato, il quale ferro adesso decorava l'anulare mio e di Rubyo, come prova della nostra unione.

Con un'ultima carezza Rubyo scostò le coperte, per poi alzarsi e dirigersi verso la porta. 

«Vai a caccia?» Chiesi, mentre lo osservavo avvolgersi con le pellicci delle lepri che avevamo catturato nel corso del tempo.

Rubyo annuì, aprendo la porta. «Questa è il momento migliore della giornata.» Disse, fissando lo sguardo verso un gruppo di alberi in prossimità del perimetro della nostra casa. 

Notando come le sue sopracciglia si inarcarono, mi alzai a sedere.

Poi lo sentii sospirare. 

«Qualcosa mi dice che ci metterò più del solito a procurarmi abbastanza cibo...» 

E in quel momento, una seconda figura spuntò sulla soglia della porta.

I capelli, candidi, riflettevano la luce dell'alba.
Gli occhi, cristallini, erano illuminati di gioia.

«Ti vedo bene, Favilla.»

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