CAPITOLO 186

Ci volle un giorno e mezzo per raggiungere la Capitale.

Viaggiare in carrozza era decisamente più veloce che muoversi a piedi, eppure non abbastanza.

Non tanto quanto avrei voluto.
Non tanto quanto avrei sperato.

Per tutto il tempo ero stata in compagnia di Markus, e l'aria non mi era mai sembrata così rarefatta.

Se solo non ci fosse stato Rubyo al mio fianco, non avrei creduto possibile il riuscire a trattenermi dall'ucciderlo.

E l'avrei ucciso.
Certo che l'avrei ucciso.

Ma quello non era il momento giusto.
No, non ancora.

Se Markus fosse morto in mia compagnia, in compagnia della sua sorella ribelle, il Regno si sarebbe rivoltato.

Oramai ero cresciuta, ero maturata.
Non aspiravo più ad una pace perfetta.

Ma almeno volevo la mia pace.
La nostra pace.

Quella mia e di Rubyo.

E se solo avessi ceduto alla brama delle mie pulsioni, al mio desiderio di uccidere Markus in quel momento... anche l'ultimo degli ubriaconi ci avrebbe messo poco a realizzare chi fosse stato il colpevole.

Allora si che nessun posto sarebbe più stato sicuro.

Avremmo potuto spostarci.
Cambiare città di tanto in tanto.
Vivere come dei nomadi, dei fuggitivi.

Certo, ma quanti anni avevamo già trascorso a farlo?

Mi morsi la guancia.
Strinsi i denti.

Un sapore ferroso mi pizzicò la lingua.

Temprai la mia risolutezza: uccidere Markus non era un'opzione.
Non ancora.

Mi voltai verso Rubyo.

Osservava Markus con occhio vigile.
Studiava ogni suo movimento.
Ponderava ogni sua parola.

Non riuscivo più a capire cosa pensasse.
Non potevo più sapere se avesse letto i miei pensieri e compreso le mie intenzioni, ma una cosa potevo ancora dedurla: aveva i nervi a fior di pelle.

E non era il solo.

Seppure avere Rubyo lì, al mio fianco, mi permettesse di accertarmi che stesse bene, che fosse vivo, sano e salvo... la sua sola presenza era troppo rischiosa.

Non volevo coinvolgerlo.
Non volevo metterlo in pericolo.

Non potevo agire liberamente come avrei voluto.

Spostai la mia attenzione su Markus, seduto di fronte a me.

Mi morsi il labbro pur di costringere le mie labbra a trattenere un ghigno di disprezzo.

Non ero stupida.
Sapevo a che gioco stesse giocando, cosa lo avesse spinto a non separarci, a lasciare che Rubyo viaggiasse al mio fianco.

Era in ostaggio, no.
Eravamo in ostaggio.

Perché Markus sapeva di non potermi controllare, di non poterci controllare.
Se non minacciando di ferire l'altro.

Rubyo era la mia ancora, ma anche il mio unico punto debole.
Ed io ero il suo.

Tenendoci uniti, Markus si stava accertando che nessuno dei due tentasse di ribellarsi.

E dovetti fargli i miei complimenti.
Davvero un piano ben studiato.

Ma poco importava, perché nessuno di noi due aveva intenzione di scappare.

Anzi, fin dal principio era proprio lui, Markus, chi volevamo raggiungere.

E ora ci stava solo facilitando il compito.

Allungai il collo verso l'esterno dell'abitacolo, nel tentativo di capire cosa ne fosse stato di Degorio, Dollarus e i suoi uomini.

Fu allora che notai, poco dietro di noi, un'altra carrozza, circondata ai lati da Aerin e Gideon in forma di Kelpie.

«Stai cercando i tuoi compagni?»

I miei occhi scattarono su Markus.

«Non ti basta più solo il cane reale?» Continuò lui, indicando Rubyo con un cenno del mento.

«Cercavo di capire quanto mancasse alla Capitale.» Mentii, risistemandomi sulla seduta e rinunciando a qualsiasi tentativo di captare qualche altra informazione.

«Se ti mancava così tanto, saresti potuta tornare prima.» Ignorai quel commento, spostando la traiettoria del mio sguardo sulla vegetazione. «O forse stai cercando un buon punto per scappare un'altra volta?» 

Non riuscii ad impedire ai miei occhi di scattare di nuovo nei suoi.

«Magari una falesia.» Fissò Rubyo.

Le mie unghie si infilarono nel cuscino della seduta.

Ci stava sfidando.
Sapeva che non avremmo potuto ribellarci e ci stava sfidando.

Che vigliacco.

L'andatura della carrozza cambiò, la strada sotto di noi ora più regolare: eravamo arrivati nella Capitale.

Questa volta, a distrarmi dal mio omicidio, fu il vocio indistinto dei bisbigli che ci accolsero ai confini di quella città.

Bisbigli che si tramutarono in mormorii sempre più forti, finché la folla radunata per le strade non si trasformò in un vero e proprio corteo.

Seguivano la carrozza.
Seguivano Markus.

Si destreggiavano tra le altre persone nel tentativo di buttare un'occhiata all'interno dell'abitacolo.

Che si stessero affaticando così tanto per vedere me, la sorella ribelle, o lui, il Monarca, non seppi dirlo; ma mi sembrò di essere sul carro della Festa Imperiale e la cosa mi disgustò.

«Non ti porta alla mente i ricordi della Festa Imperiale di due anni fa?» Chiese Markus.

Tacqui, incapace di accettare come quelli fossero stati anche i miei pensieri ma, nonostante il mio silenzio, lui continuò ad osservarmi in attesa di una risposta.

«No.» Mentii allora.

«Non fa niente.» Tese la mano verso l'esterno, salutando la folla. «Dalla prossima volta la passeremo sempre insieme.» La voce piatta che parlava a me, lo sguardo inespressivo che rivolgeva al popolo.

Non fiatai.

Non ci sarebbe stata una prossima volta.
Lo avrei ucciso prima.

Solo allora liberai il tessuto del cuscino dalle mie unghie, che questa volta si infilarono nella carne del mio palmo. 

Lo avrei ucciso con le mie st-

Sussultai, portandomi alla tempia quelle stesse dita che prima avevo serrato in un pugno.
I polpastrelli si sporcarono di cremisi.

Qualcosa mi aveva appena colpito.

Guardai fuori.

La gente che si divideva a gomitate.
Un mantello.
Un uomo.
Un orecchio mancante.

Abbassai lo sguardo sul piccolo sassolino caduto tra i nostri piedi.

Qualcuno mi aveva appena colpito.

Provai di nuovo a trovare il colpevole tra la folla, ma invano.

I miei occhi viaggiavano, rapidi quanto i passi dei cavalli che trainavano quella carrozza, e si spostavano di testa in testa, di viso in viso, di sguardo in sguardo, nel tentativo di ritrovare quell'uomo incappucciato quando, per un istante, mi parve di riconoscere qualcuno di familiare in quel mare di sconosciuti.

Uno spesso cappuccio invernale in ciniglia blu le oscurava il volto, eppure sarebbe stato difficile non notare, poggiati sulla spalla, quei capelli canuti raccolti in una morbida treccia.

Gli occhi chiari e stanchi, che le illuminavano il volto consumato dal passare delle stagioni, indugiarono al suo fianco dove notai un'altra figura.

Così alto e con gli occhi inespressivi nascosti da un cappuccio altrettanto spesso, a stento riconobbi Dominic, il figlio di quel commerciante che un tempo mi aveva aiutata nella traversata verso Wessar.

Sorrisi debolmente: quanto era cresciuto dall'ultima volta che lo avevo visto.

Eppure, quella scintilla di gioia mista a nostalgia mi morì in petto nell'istante in cui realizzai quanto lontani fossero da casa.

Fui costretta a distogliere lo sguardo quando Rubyo forzò il mio capo nella sua direzione per accertarsi dello stato della ferita, ma la mia mente continuò a concentrarsi su quelle figure che i miei occhi avevano già abbandonato. 

Cosa gli era successo?
Cosa li aveva spinti nella Capitale?

Sarebbe stato diverso se Fred fosse stato ancora in vita?

Rubyo mi strinse la mano, riportando la mia attenzione su di lui.

Li aveva visti?
Aveva capito i miei pensieri e stava cercando di rassicurarmi?

Ma lui non disse nulla e io non chiesi.

Fu così che proseguimmo per il resto del viaggio: in silenzio e con lo sguardo perso fuori l'abitacolo, fin quando non sentimmo la voce di Markus annunciare quanto il palazzo fosse vicino.

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