CAPITOLO 177
«Proseguite senza di me.»
«Principessa!» Dollarus, fermo più avanti, approfittò di quel momento di pausa per riprendere fiato.
«Continuate in quella direzione e raggiungete la riva.» L'affanno mi accorciava le parole.
Vidi l'omino schiudere le labbra come per parlare, e dall'espressione contrariata sul suo volto ne dedussi un tentativo di opposizione, ma bastò che Degorio lo afferrasse per il braccio per farlo demordere.
«Prepara la nave per la partenza.» Aggiunsi, approfittando di quell'esitazione.
Così Dollarus, accompagnato dai suoi uomini e Degorio, si arrese e proseguì verso la riva.
Ma vedendo come Gideon non avesse mosso alcun passo, lo esortai.
«Mi servi sulla nave.»
Ero sincera, ma allo stesso tempo speravo, con quelle parole, di convincerlo.
Fu Aerin però a tirarlo con sé, a smuoverlo dal suolo polveroso e costringerlo a seguire gli altri.
Dentro di me, però, dovetti ammettere che quel suo allontanarsi spontaneamente mi aveva in un certo modo rasserenata, reso più speranzosa.
Fu quasi come una conferma che il mio piano sarebbe andato come sperato.
Perché se proprio lei, che ci teneva ad assistere con i suoi stessi occhi alla fine che aveva sempre sperato, si faceva da parte così facilmente, allora forse quel momento non era ancora arrivato.
E così li guardai allontanarsi.
Quando concentrai la mia attenzione su Rubyo il mio respiro era quasi tornato regolare, ma il fatto che per tutto quel tempo lui non avesse detto una sola parola aveva impedito al mio cuore di rallentare il suo battito.
Lo osservai tornare indietro.
Verso di me.
Verso il pericolo.
E le sue iridi sembravano ancora più luminose e verdi ora che le pupille erano ristrette a causa dell'intensità della luce.
«Rubyo...»
Le mie labbra si schiusero a quel nome senza che la mia mente se ne rendesse conto.
Mi ero ripromessa che al momento giusto avrei fatto la cosa giusta, la cosa meno egoista.
Che lo avrei liberato, lasciato andare, fuggire, scappare.
Sentii gli occhi iniziare a bruciarmi, ma decisi di ignorare quel pizzicore.
Non era il momento di piangere.
Anzi, non dovevo piangere.
Dovevo essere grata.
Perché Rubyo non era morto.
Non era morto e lo avevo rivisto.
Ed era stato bello finché era durato.
Io, lui.
Noi.
Quindi ora, per quanto avrebbe fatto male, avrei tenuto fede a quelle parole.
Perché questa volta non me ne sarei pentita.
Perché questa volta era davvero la scelta migliore.
«Loro credono ancora che l'ultimo dei Peccatori sia morto.» Gli afferrai la mano e i miei occhi non lasciarono mai i suoi. «È me che cercano.»
I muscoli della fronte erano così contratti da fare male.
Sentivo gli occhi pulsare.
E quando nei suoi, vidi il mio riflesso, cedetti un'ultima volta.
Lo tirai a me, un pugno chiuso attorno al collo della maglietta, l'altro ancora stretto alla sua mano.
E lo baciai.
Rapida, cercando di non abbandonarmi all'assuefazione delle mie emozioni, di non cedere al volere del mio cuore.
E così ignorai la morbidezza della sue labbra pressate contro le mie, il calore del suo corpo a contatto con il mio, la mano stretta attorno alla mia, che mi implorava di lasciarlo rimanere al mio fianco.
Mi staccai, allontanai, rompendo il bacio.
«Va'.» Lo guardai un'ultima volta.
«Scappa.» Non mi curai del tremore della mia voce. «Lontano da me, da Degorio.» La consapevolezza di starlo abbandonando un'altra volta.
Allentai la presa attorno al suo palmo e indietreggiai di un passo.
La ferita attorno al polso che pulsava.
«Non è un addio.»
Iniziai a srotolare la fasciatura che attutiva la fuoriuscita di sangue.
«Ti prometto che una volta che sarà tutto finito ti troverò di nuovo.»
Lasciai che le bende cadessero al suolo, non osavo più guardarlo negli occhi.
«Ovunque tu sia.»
E una zampa atterrò al suolo.
Spostai il mio corpo davanti a quello di Rubyo, mentre dal terreno secco si sollevava una nube di polvere così densa da nascondere anche il colore della pelliccia del Gumiho.
Lui era stato il mio scudo per tutti quegli anni, ma adesso i ruoli si sarebbero invertiti.
La mia mano, dietro la schiena, cercò di nuovo la sua.
E quando la trovò, scivolò nel suo palmo, mentre con l'altra afferravo l'elsa della spada.
La presa così stretta da puntellarne la carne con le gemme.
Il Gumiho ringhiò, l'ombra delle nove code ondeggianti alle sue spalle.
Non potevo vederlo e la polvere mi faceva bruciare gli occhi, eppure, per capire di chi si trattasse, mi bastarono quelle iridi ambrate che, brillanti oltre quel fumo sporco, rivelavano le stesse venature del tramonto.
E una morsa mi strinse il cuore.
«Va'!» Dissi, la voce spezzata.
Il mio non era un ordine, ma speravo che Rubyo ascoltasse le mie parole come fosse tale.
E, alle mie spalle, lo sentii esitare, i suoi muscoli irrigidirsi.
Poi, lentamente, la sua mano iniziò a ritrarsi dalla mia presa, come se stesse cercando di liberarsi da un nido di rovi.
E percepii il suo corpo allontanarsi sempre di più dal mio.
La mia schiena ora era fredda.
Udii i suoi passi muoversi, la sua figura indietreggiare.
E così, senza aggiungere una parola, Rubyo se ne era andato.
Allora iniziai a correre, a scappare nella direzione opposta, ignorando il dolore del mio cuore, l'affanno dei miei polmoni.
Sì, va bene così. Mi ripetevo mentre imboccavo quel sentiero nascosto dall'erba. Non è un addio.
E questa volta non speravo più che non lo fosse, perché lo sapevo.
Ne ero certa.
Lo avrei rivisto.
Sicuramente.
E per questo adesso dovevo correre, scappare.
Sopravvivere.
Un ramo basso mi frustò lo stinco e pur di non sprecare fiato importante mi costrinsi a tacere il mugugno di dolore.
E la pendenza della strada, sempre più acuta, mi stava facendo bruciare le cosce, ma quello poteva voler dire solo che la falesia era sempre più vicina.
Un ginocchio cedette, le mani nella polvere.
I miei occhi intravidero una sagoma alle mie spalle, un Gumiho al mio agguato.
Feci forza sugli arti per rialzarmi, i muscoli tremanti di adrenalina.
Raschiai la terra con le dita mentre le gambe scalciavano alle mie spalle.
Eppure qualcosa non tornava.
I Gumiho erano silenziosi, vigili, pazienti.
Ma non si muovevano mai a piedi, no.
Loro saltavano, di albero in albero, senza lasciare alcuna traccia sul sentiero.
E per quanto ora la vegetazione fosse molto più rasa, anche la loro sola velocità sovraumana sarebbe dovuta bastare per raggiungermi.
Eppure il Gumiho alle mie spalle era lento.
Le falcate brevi, i passi piccoli.
Mi stava lasciando del vantaggio, una possibilità per sfuggirgli.
Una ventata di aria calda mi tirò i capelli sulla testa, allontanandoli dalla fronte.
Mi fermai di scatto: sotto di me il mare.
Chissà quanto era profondo, con quelle onde alte e il colore scuro.
Deglutii e un brivido mi scosse la colonna vertebrale quando osservai un sassolino cadere per poi scomparire nel vuoto.
Poi un ringhio.
Mi voltai di nuovo verso il sentiero che avevo appena percorso: l'unica via di fuga ora era bloccata dal Gumiho.
E la mia voce chiamò il suo nome, ormai priva di ogni dubbio.
«Thui.»
Sotto il mio mento, lo sterno si sollevava rapido.
Nessuno dei due si mosse: l'aria tra i nostri corpi era tagliente.
Poi uno scatto, un movimento del suo orecchio, e la mia attenzione seguì la sua, ora spostata alle sue spalle, a qualcosa che rimaneva nascosto oltre la vegetazione più fitta.
E allora li vidi.
Dei bagliori, come lucciole di notte.
Di coppia in coppia.
Apparivano uno dopo l'altro, aumentando.
Erano occhi.
I loro occhi, gli occhi dell'intera Tribù.
Mi voltai verso il mare un solo istante, quanto mi fu sufficiente per vedere, con la coda dell'occhio, come la nave di Dollarus fosse salpata.
Così distante sembrava quasi delle dimensioni di un giocattolo.
Indietreggiai di un passo e il tallone sfiorò il vuoto.
Dovevo guadagnare del tempo, ma non sapevo per quanto avrei potuto ancora resistere.
E fu allora che un Gumiho spuntò dall'ombra, con un ringhio così forte che dallo spavento quasi non mi fece perdere l'equilibrio e cadere dalla scogliera.
Si avvicinava.
Le orecchie abbassate, i canini scoperti.
Strinsi il palmo attorno all'elsa, la lama che esitava a essere estratta.
Guardai Thui, il suo sguardo concentrato sull'arma.
Sapevo quanto ci tenesse alla sua Tribù, alla sua famiglia.
Non avrei mai potuto ferirli.
E non dovevo.
No, non volevo.
Così, quando quel Gumiho fece per gettarsi su di me, chiusi gli occhi, pronta all'impatto.
Impatto, che non arrivò.
Thui aveva intercettato il colpo, fermandolo.
E per un istante mi illusi che ne potessi scampare indenne, ma presto fu lo stesso Thui a voltarsi verso di me.
I canini scoperti, questa volta non in un sorriso.
La zampa alzata, questa volta non in una carezza.
Non chiusi gli occhi.
Non strizzai le palpebre.
Osservai.
Thui davanti a me.
La sua zampa in aria.
I suoi artigli nella mia carne.
E la spalla prese a bruciare.
Sotto, il vuoto.
L'ultima cosa che vidi fu una goccia bagnare il pelo del muso di Thui.
Ma non stava piovendo.
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