CAPITOLO 170
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Disclaimer: questo capitolo potrebbe (spero di no ma potrebbe, non si sa mai, ma onde evitare io vi avviso) smuovere particolarmente i vostri animi già instabili e deviati. Dopo 170 capitoli di sangue e ferite non dovreste avere problemi MA qua Lyra è... provata. Più del solito si intende. Se oggi credete di non essere emotivamente pronte ripassate un altro giorno o, se credete che non lo sarete mai, chiedetemi e vi riassumo il capitolo.
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***
Non riuscivo a sollevare lo sguardo dal suolo.
La consapevolezza che tutte quelle persone fossero lì per me, per me e Thui, per la nostra unione, il fatto che non potessi voltarmi indietro, cambiare strada, correre lontano...
Tutto quello mi faceva mancare il fiato, la terra sotto i piedi scalzi.
Mai, prima d'ora, mi ero sentita così in catene.
No.
Era peggio di così.
Quello che provavo era peggiore di una prigione.
La costrizione che in quel momento stavo percependo era paragonabile soltanto al puntarsi da soli un pugnale contro il petto e spingere, sentire, subire il dolore della lama che taglia la carne, che fende i nervi, spezza i muscoli, rompe le ossa.
E ancora prosegue, in profondità, scalfendo l'anima.
E la ferita sanguina, brucia, così tanto da far preferire la morte.
Perché anche lei, rapida e indolore, sarebbe sembrata un dolce sogno in confronto.
Ma la morte non era un'opzione.
La tortura era tutto ciò che restava.
E la mano doveva rimanere salda.
Il volto impassibile.
Anche davanti a tutto quello strazio.
Perché ero io che avevo deciso di prendere in mano il pugnale.
Ero io che avevo deciso di ferirmi da sola.
Ero io che avevo deciso di porre fine in quel modo alla mia vita.
E un sasso, tagliente sotto la pianta del piede, quasi mi sembrò una carezza, un sollievo per le mie sofferenze.
Eppure rafforzò la consapevolezza di come quello non fosse un sogno, un incubo... ma peggio: di come quella fosse la realtà, il mio presente e il mio futuro.
Quel sassolino, maledetto sassolino, mi risvegliò da un torpore in cui i sensi non erano ancora caduti, enfatizzando ciò che mi circondasse ancor di più di come già non fosse.
E percepii l'erba sotto i piedi, il vento nel cappuccio, la pelliccia sulle spalle, il braccio di Rubyo attorno al mio.
Camminava, avanzava, lento e regolare, assicurandosi che i miei piedi non indugiassero, che le mie ginocchia non cedessero, che il mio passo non si arrestasse.
Che il pugnale, spinto in petto, andasse più a fondo e che la ferita non si rimarginasse.
Perché lui, il mio boia, mi stava portando al patibolo.
E proseguiva sicuro, guardando dritto avanti a sé, mentre le teste del bottino dell'Approvvigionamento decoravano, lugubri, il nostro percorso, impregnando il terreno di pozze color dei papaveri.
Ma proprio quando credevo che il dolore in petto non potesse più aumentare, che la lama avesse già raggiunto la profondità più recondita, la stretta attorno al mio braccio prese ad allentarsi.
Di più.
Sempre di più.
E con essa le mie gambe persero la loro forza, il corpo il suo calore.
Mi voltai indietro.
Cercai il suo sguardo un'ultima volta.
Cercai il tessuto della sua manica con le mie dita, la pelle della sua mano con la mia.
Ma le falangi si chiusero su sé stesse e i miei occhi ne incontrarono un paio vacuo come quello delle carcasse che ci osservavano, mute.
La loro pelliccia, sulle mie spalle, ora mi appesantiva la schiena, curvandola.
Accettai la mano di Thui solo per non crollare.
Sentivo il battito, nel mio petto, affievolirsi.
La mia ora avvicinarsi.
E la gola arsa cercava sollievo in ciò che ora solo gli occhi lucidi avrebbero potuto darle.
Ma il sale di quelle lacrime avrebbe solo aumentato il mio dolore, prolungato la mia sofferenza.
Eppure Nai Nai, davanti a me, così sorridente sembrava farsi beffe del mio dolore.
Muoveva le labbra, pronunciava parole, suoni che le mie orecchie non sembravano poter percepire
Ma la folla, il pubblico che assisteva al mio patibolo, loro sentivano e ascoltavano.
In silenzio, come tombe davanti alle parole dei cari ancora in vita.
Immobili, come fredda pietra al mutare delle stagioni.
E i loro occhi, lucciole oltre l'oscurità dei crani che indossavano come maschere, osservavano brillanti la scena.
Erano loro le sbarre della mia prigione, i muri della mia cella.
E io, intrappolata all'interno, con il pugno chiuso sull'elsa e il pugnale spinto nel cuore, guardavo il mondo che c'era oltre, che c'era al di fuori.
Perché anche quando tutto sarebbe finito, quando il torpore dei sensi mi avrebbe avvolta, c'era qualcuno che i miei occhi avrebbero sempre visto, che le mie orecchie avrebbero sempre sentito.
Mi voltai nuovamente indietro, come un'anima che, esitante ad abbandonare la propria vita, cerca un'ultima consolazione nei propri ricordi.
Allora incontrai gli occhi di Dollarus che, in prima fila, mi osservava con lo sguardo severo e le labbra serrate.
E quelli di Degorio che, poco più indietro, fissavano la loro attenzione in un unico punto avanti a loro, incuranti di tutto il resto che li circondasse.
Poi, dall'altro lato, c'erano quelli cristallini di Gideon e Aerin.
Ed infine un paio smeraldo, gli ultimi in fondo, che avevano appena lasciato il mio fianco eppure erano già così lontani, tanto da confondersi con il bosco.
Ma poi la mano di Thui mi scivolò sul volto, e scattai e quel tocco, tanto delicato quanto inaspettato.
Perché lui, il mio mietitore, ora mi stava richiamando a sé, facendomi spostare lo sguardo su ciò che mai avrei dovuto smettere di guardare da quando i miei passi avevano varcato l'inizio della passerella.
Silenzioso come la morte, non parlò, sfiorandomi invece il volto con un'altra carezza.
Fissò i suoi occhi ambrati nei miei, ora ancor più luminosi con la polvere rossa rituale che lo sporcava dalle sopracciglia agli zigomi, riportandomi alla memoria il nostro primo incontro.
Le labbra, piegate in un sorriso appena accennato, non rivelavano alcun canino, ma solo una profonda comprensione e rassicurazione.
Sentii la sua mano scendere lungo il braccio, fino a raggiungere la mia.
La strinse.
Era pronto a portarmi via: la mia ora era giunta, la mia vita terminata.
E mi abbandonai a quella dolce assuefazione, in cui la presa attorno all'elsa sembrò farsi più debole, così come il dolore alla ferita che mi stavo procurando in petto.
Ma poi, quando Thui portò il mio palmo verso il suo volto, il dolore tornò a farsi più intenso, consapevolezza che avrei dovuto darmi da sola il colpo di grazia.
«Che il tuo volto possa riflettersi solo nel mio.» Con una voce che sentivo non appartenermi, iniziai a recitare il mio requiem.
Poi lasciai che la mia mano, sempre guidata dalla sua, gli scivolasse sulla spalla.
«Che il tuo corpo possa proteggere solo il mio.»
La nostre mani proseguirono il loro percorso, raggiungendo il suo petto.
«Che il tuo cuore possa battere solo per il mio.»
Sentivo la forza venire a mancarmi, la vita fluire fuori dal mio corpo.
Thui strinse ancora una volta il palmo della sua mano attorno al dorso della mia e premette, spingendo di più verso il petto, così che questa restasse ben ancorata al suo corpo.
Chinò il busto.
Delicato, mi depositò un bacio in fronte.
E in quell'istante fu come se stessi pugnalando anche lui.
«Che i tuoi pensieri possano esistere solo per i miei.» Iniziò.
Ma sapevo già che non sarebbe mai stato così.
Chiusi le palpebre, la pelliccia calda contro le mie falangi esanimi.
«Che i tuoi occhi possano brillare solo nei miei.»
Ma in quel momento non riuscivano a vedere altro che la luce dei ricordi passati.
Sentii il respiro di Thui solleticarmi le ciglia, l'ombra del suo corpo sollevarsi dal mio.
Era arrivato, si.
Era quello il momento.
Il momento in cui nessuno dei due avrebbe potuto più tirarsi indietro, il momento in cui nessuno dei due avrebbe potuto più fingere.
Sollevai lo sguardo.
Thui mi fissava, esitante.
Deglutii.
La mano, ancora ancorata al suo petto, si chiuse attorno alla pelliccia del mantello.
Trattenni il respiro e, per la prima volta, sentii le labbra di Thui premere contro le mie.
Eccolo, il bacio della morte.
Eccolo, il bacio che mi aveva privata dell'ultimo mio respiro.
«Che le tue labbra possano baciare solo le mie.» Concluse Thui.
E quella, forse, sarebbe stata l'unica verità.
Ora i nostri riflessi tremavano negli occhi dell'altro.
«E adesso, per sancire questa unione, l'ultimo gesto.» Questa volta fu Nai Nai a parlare.
E quando entrambi afferrammo un lembo della pelliccia dell'altro, quando entrambi ne strappammo un rettangolo offrendolo alla persona a cui saremmo rimasti legati per il resto dell'eternità, fu come pagare il nostro tributo per quel viaggio che avevamo iniziato oltre la morte.
Così, oramai piegati al nostro destino, mostrammo alla vecchia il polso nudo.
E lì, dove un tempo batteva ancora un impulso vitale, la donna incise una riga sulla nostra pelle.
Chiusi gli occhi a quel bruciore, assaporandone la sofferenza.
Perchè quella era l'unica sensazione che mi faceva capire di essere ancora in vita.
E sussultai sorpresa quando il dolore aumentò, nel momento in cui Thui tamponò la mia ferita con il suo palmo.
Perché non potevamo permetterci che la verità venisse fuori proprio in quel momento.
Che tutti capissero, non vedendo la ferita iniziare a rimarginarsi, come io fossi solo un'umana e non un Kelpie.
No.
Non potevamo più rischiare.
Da quel momento in poi avremmo dovuto continuare a mentire.
Ormai era troppo tardi per pentirsene.
Troppo tardi per redimersi.
Senza che Thui lasciasse la presa, ci voltammo entrambi verso la Tribù, i cui membri ora, uno dopo l'altro, avevano iniziato a scoprirsi il volto dalle maschere.
E come a benedire la nostra unione, il silenzio si tramutò in grida e sorrisi, creando un clamore tale da rendere impossibile vedere fino alle ultime file.
Ma presto mi accorsi che neanche allungare il collo sarebbe servito.
Perché allora, di Rubyo, non c'era già più alcuna traccia.
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