CAPITOLO 79
Lyra's POV
Rimasi immobile ancora per qualche istante, seduta ai piedi del letto, a fissare il sangue sulla pelle. Le gocce calde mi avevano imbrattata fino ai gomiti, ma paradossalmente il mio corpo era privo di ogni graffio e livido.
Presa da uno spasmo improvviso, stringendomi nelle spalle, iniziai a strofinarmi gli arti, illudendomi di poter cancellare quelle tracce scarlatte.
«Il Signore vi sta aspettando.» Echeggiò la voce di un Rasseln da dietro la porta chiusa.
Deglutii nervosa, arrampicandomi alle lenzuola del letto per tornare a sedere sul materasso. Quella coperta in raso risultava untuosa sotto le mie dita rovinate dai calli.
Allora, lentamente, mi sfilai il resto dei miei abiti, indossando un abito rosso, lungo e suntuoso, intonato alle mie dita guantate di scarlatto.
Calzai il paio di tacchi lustri, che mi soffocavano la caviglia, incamminandomi verso la porta.
Attorcigliai le dita attorno alle maniglie. Il mio sospiro uscì tremante. Spinsi il peso del corpo alle mie spalle, tirando il legno pesante.
«Il Signore vi attende nella sala delle cerimonie.»
Le guardie, senza aggiungere altro, mi scortarono per dei lunghi corridoi tappezzati d'oro e di muffa fino all'immensa sala delle cerimonie. Altre porte si aprirono al mio passaggio, rivelandomi un'ala del palazzo tanto familiare quanto estranea.
Avanzai a passi lenti e ticchettanti, echeggianti nel silenzio di quel grande ambiente.
Davanti a me si parò un tavolo immenso, la cui tovaglia, ricamata preziosamente, rivelava, nei suoi buchi, un legno marcio e consumato dalle termiti.
Esitai un istante, ma non potetti fare altrimenti se non sedermi, visto la forza che le guardie usarono nel prendermi per le spalle e forzare la mia seduta.
La sedia imbottita scricchiolò sotto al mio peso, enfatizzando il mio disagio nel tentativo di sistemarmici, seppure in apparenza, più comodamente.
Alzai lo sguardo, lenta, incrociando quello di Markus, seduto al capo opposto del tavolo.
Mi sorrise, apatico. Agghiacciai.
Lo vidi alzarsi, come infastidito da qualcosa di sconosciuto, sbattendo una mano guantata sul tavolo e scuotendo lievemente la testa. Poi il suo sguardo si fissò di nuovo nel mio.
Ad ampie falcate raggiunse me, immobile, con le spalle incassate nello schienale della sedia.
Il suo sguardo scivolò languido su tutto il mio corpo, mentre con la mano opposta si toglieva quel singolo guanto in feltro, che aveva sempre indossato dal momento in cui mi aveva catturata a Chaot.
Rabbrividii alla vista della sua mano, nera come le sclere dei suoi occhi e così affusolata da essere sproporzionata in confronto al resto del corpo.
«Ti piace?» Disse, notando che la stessi fissando, muovendo lentamente le dita ed enfatizzando le sue unghie appuntite.
«L'ho presa ad un essere dell'Altro Sole quando la mia mano è esplosa insieme al carro il giorno della Festa Imperiale.»
Deglutii nervosamente.
«Ma immagino che tu lo sappia, visto che eri lì.»
Una goccia di sudore mi solleticò il collo, mentre il sangue iniziò a pulsare più rapido.
«Non preoccuparti però, so che tu non centri. So che tu non mi faresti mai del male, sorellona.»
Il suo sguardo sembrò ancora più vuoto pronunciando quell'ultima parola.
«Averti avuta così vicina, ma senza poterti raggiungere... Ancora non mi sembra vero.» Markus mi raccolse una mano, sollevando l'arto rigido dall'appoggiabraccio.
Mi depositò un delicato bacio sul dorso, inumidendomi la pelle.
Un brivido mi attraversò la schiena, ma decisi di ignorarlo.
«Ma adesso sei finalmente qui. Posso finalmente toccarti!» Preso come da un'eccitazione improvvisa abbandonò il braccio alla forza di gravità, afferrandomi il volto con entrambe le mani.
Mi incassai nella sedia ancora di più, stringendo la presa sugli appoggiabraccia.
Chiusi gli occhi tremante, quando sentii i suoi palmi scivolare sul collo e sulle spalle nude, per poi tornare indietro e sfiorarmi le clavicole.
«La tua pelle è ancora così delicata...» Sentii l'ebrezza delle sue parole ubriacargli la mente di ricordi passati.
La sua mano disumana scattò in un istante, afferrando e girandomi il mento.
Il respiro mi divenne affannoso mentre il cuore sprofondava nello stomaco. Con l'altra mano libera mi avvolse il collo, facendomi sussultare.
Iniziò a stringere, prima piano, poi sempre più forte, finché non cominciò a mancarmi il fiato.
«Ecco, un regalo per te.» Disse sorridendo, con quel suo sguardo apatico, rilasciando la presa.
«Ti piace.» Accennai un "si" con la testa, tastando con le punta delle dita la collana.
«Bene. Mi fa piacere sapere che abbiamo gli stessi gusti.» Il suo sorriso si spense, rapido come i suoi passi nel tornare al posto.
Rinfilò lo spesso guanto e si stravaccò sulla sedia, in attesa delle portate che non tardarono ad arrivare.
«Questo è il tuo secondo regalo.» Mi annunciò mentre un Rasseln sollevava un coperchio in argento ossidato.
Il Rasseln scoprì un filetto tagliato finemente, circondato da patate e piselli. La cottura media metteva in risalto il colorito roseo della carne, inumidita in un sughetto aromatico.
Markus mi incitò a provarla, cosa che feci. Infilai la forchetta nel filetto tenero e, impregnato e gocciolante di sughetto, lo portai alle labbra. Con il primo morso mi si sciolse in bocca, succoso, portando con sé un'esplosione di aromi.
Era squisito.
Ne tagliai avida un altro pezzo ed un altro ancora, ingorda di quel sapore mai gustato prima.
Alzai per un instante lo sguardo, rivolgendolo a Markus, che continuava a sorridere dietro l'unghia del pollice che stava mordendo. Ma qualcosa in quell'espressione era diversa. Il suo sguardo era diverso.
Lui era divertito, ma divertito davvero.
Notando il mio sguardo, il suo si spense subito.
«Ti prego, mangia. Il viaggio deve essere stato estenuante. È quello che vorrebbero anche i tuoi due fedeli segugi.»
Mi fermai, improvvisamente turbata. Da quando ci aveva catturati, li aveva sempre odiati e voluti tenere il più lontano possibile, quindi perché nominarli adesso?
Un dubbio struggente mi assalì.
«Dove sono? Voglio vederli.»
Markus sorrise, sinceramente.
Quel ghigno fu più sufficiente di mille parole.
Con lo sguardo tremante abbassai gli occhi verso la collana, dove una piccola boccettina di vetro contenente del mercurio pendeva dalla catenina.
No. Non poteva essere.
Dal ciondolo i miei occhi si alzarono nuovamente verso il piatto, sempre più tremanti ed esitanti.
«Cosa ti prende sorellona?» Sentii Markus reprimere una risata.
«Mangia.»
Lasciai cadere la forchetta nel piatto, emanando un acuto acciottolio.
No. No! Non era vero...
Scossi la testa, raccapricciata.
«Ho detto mangia!» Markus scattò in piedi, conficcando con un gesto rabbioso la forchetta nel legno del tavolo.
Un conato di vomito prese a risalirmi l'esofago, mentre osservavo la carne nel piatto, tossendo. Ma più la fissavo, e più il ricordo di quel sapore che mi aveva provocato l'acquolina tornava alla mente, rendendo impossibile il trattenermi.
Mi spinsi lontana dal tavolo, alzandomi di scatto, barcollando con una mano sulla bocca in un tentativo vano di fermare il conato.
Presa da quella smania inciampai nel mio stesso vestito, maledettamente lungo, scivolando di peso per terra. Le lacrime iniziarono a pizzicarmi gli occhi, facendomi tremare le braccia.
In pochi istanti Markus mi fu addosso, provocandomi un lungo brivido di repulsione nelle ossa.
Scalciai il pavimento, graffiandolo con i tacchi delle scarpe e procurando un dissonante stridio.
La tosse non smetteva. Non lo aveva mai fatto.
Mi sollevai a tentoni, in fretta e furia, impedendo qualsiasi contatto con mio fratello.
Quando finalmente fui di nuovo in piedi, scalciai lontano le scarpe, che mi limitavano i movimenti, strappando con la forza il laccetto dalla caviglia. Markus riuscì ad afferrarmi il braccio, ma mi dimenai disgustata.
Riuscii a scappare, o meglio, mi lasciò scappare, percorrendo qualche metro in cui non ebbi il coraggio di guardarmi indietro, finché delle guardie non mi sbarrarono la strada.
Colta alla sprovvista, scivolai all'indietro, inciampando, ancora una volta, nel vestito. Esitai sulle ginocchia, rialzandomi, ma uno schiaffo mi rispedì al suolo.
«Avevi detto che ti piacevano.» Markus mi guardò, con le ciglia corrugate, ma con quei suoi occhi pece assolutamente inespressivi.
Mi strinse il viso tra le dita, forzandomi con l'altra mano ad aprire la bocca. Mi spinse un pezzo di carne dentro, noncurante del fatto che probabilmente, la conseguenza delle sue azioni, mi avrebbe portato allo strozzarmi.
Mi dimenai, ma invano. Strinsi i denti, mordendo, insieme a quel lurido dito, il pezzo di carne che sprigionò nuovamente quel sapore così squisito quanto ripugnante.
Scalza e seduta per terra, in uno dei corridoi del mio palazzo, illuminata dalla fioca luce della luna crescente che filtrava dalle polverose vetrate, piangevo in silenzio, lasciando che due lunghe righe mi solcassero il volto come profonde cicatrici.
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