CAPITOLO 139

«Qualche tempo prima dello scoppio della Grande Vendetta, il Signore si trovava a Wessar ed era nel pieno dei suoi affari commerciali. Fu proprio uno di quei giorni che, su una nave mercantile, ha trovato un ragazzino, forse poco più grande di Theo.»

L'uomo di Dollarus si interruppe, bevendo il primo dei tanti bicchieri che sarebbero seguiti.

«Era davvero in pessime condizioni, sporco e denutrito. Se lo avesse lasciato lì, probabilmente sarebbe diventato un Reietto. Si dice che quel ragazzo sia stato il primo che il Signore abbia salvato.»

Gerard mi riempì il bicchiere, così non potei che bere, mentre lui proseguiva con il racconto.

«Con il tempo, crescendo, si è rivelato abile nei conti e nelle contrattazioni. È diventato il suo pupillo. Il Signore lo ha portato ovunque e così quel giovanotto ha imparato l'arte del commercio. A svilupparsi però non sono state solo le doti del ragazzino, ma anche il loro legame, che li ha resi sempre più uniti, inseparabili... intimi.»

Un dubbio iniziò ad insinuarsi dentro di me, stringendomi lo stomaco, ma preferii tacere per il momento.

«Quel maledetto, divenne l'amante del Signore.»

Gli occhi dell'uomo si coprirono di un velo di astio, mentre un altro bicchiere d'alcol alimentava il fuoco di quei ricordi.

«Poi scoppiò la Grande Vendetta e in una situazione di così tanto disequilibrio, l'avidità del ragazzo divenne insaziabile.»

Gerard trangugiò due bicchieri di seguito, nella speranza di annegare tutta quella sua rabbia.

«Così insaziabile, da decidere di allearsi con il nemico, tradendo il Signore.»

Il bicchiere scoppiò sotto la forza della mano dell'uomo, esplodendo in centinaia di piccole schegge.

Sussultai quando una mi graffiò lo zigomo.

«Sono mortificato!» Gerard scattò in piedi, afferrando uno dei tovaglioli di stoffa ancora puliti e tamponandomelo sul volto. «Vi prego, lasciate che mi occupi personalmente della ferita.»

Sorrisi.

«Non ce n'è bisogno. In confronto a tutto ciò che il mio corpo ha sopportato, questo è solo un graffio. Letteralmente.»

L'uomo, il quale volto era madido di vergogna e sensi di colpa, abbassò lo sguardo, fissandolo sulla coscia scoperta che rivelava lo stemma dei Reietti.

«Sono terribilmente dispiaciuto.»

Scossi la testa, allontanando il tovagliolo dal volto.

«Sono più interessata al resto della storia che alla mia ferita.» Afferrai due bottiglie, depositandole una davanti a me e un'altra davanti a Gerard. «Quel cattivo, di cui parlavi...» Iniziai, per poi fermarmi a sorseggiare direttamente dal collo. «È forse mio padre?»

L'uomo annuì.

«Quel ragazzino, di cui tanto il Signore si era fidato, ha aiutato il vecchio Monarca a recuperare delle pietre. Non ho ancora capito il modo, ma sono sicuro che, senza quei maledettissimi vetruzzi, la guerra non sarebbe scoppiata.»

Bevvi un abbondante sorso.
Forse lui non lo capiva, ma io si, e aveva perfettamente ragione.

Quelle pietre erano le stesse necessarie per attivare la daga che, una volta spada, mio padre avrebbe usato per uccidere la Yukionna, madre di Markus.

«Dimmi solo una cosa.» Dissi alzandomi, ignorando il momentaneo giramento di testa. «Quel ragazzino...»

Feci un passo, riuscendo a non cadere solo perché afferrai in tempo la ringhiera in marmo al mio fianco.

Maledette scarpe, pensai, guardando poi i miei piedi: giusto, ero scalza.

Scossi la testa, cercando di riprendermi dall'improvviso torpore, poi continuai. «Il suo nome, era forse Degorio?»

L'intera stanza si zittì.

«Principessa.» L'uomo scattò in piedi al mio fianco, lo sguardo improvvisamente cupo. «Non sembra in ottime condizioni...»

«Sto bene.» Sbattei ripetutamente le palpebre, cercando di mettere a fuoco le figure... o forse era una soltanto?

«Permettetemi di scortarvi nelle vostre stanze.» Gerard mi afferrò per il fianco, trascinandomi lontano dal banchetto ad un passo che difficilmente avrei potuto sostenere.

«Credo che voi siate ubriaca.» Dichiarò poi.

«Impossibile.» Singhiozzai. «Quell'estratto è analcolico.»

"Analcolico?" Lo sentii ripetere, per poi aggiungere poco dopo: «Siamo quasi arriv-»

«Lasciala.» Una voce familiare, proveniente da una figura che non riuscii a mettere a fuoco. «Al resto ci penso io.»

«Ma-»

«Ci penso io, ho detto.»

«Va bene.»

Sentii un altro paio di braccia stringermi, forti.

Sorrisi a quel tocco.

«Ti sembra il caso di sghignazzare?»

Un altro singhiozzo.

Schiusi gli occhi, fissi a terra per la testa che non aveva la forza di sollevarsi.

«È un taglio quello? Lyr-» Un sospiro esasperato non gli permise di terminare la frase.

«Scar-pe?» Notai, tra un singulto e un altro, ignorando completamente quella domanda.

Nessuno all'interno della villa di Degorio le indossava.

«Scarpe?» Sentii ripetermi. «Lyra, di cosa stai parlando?» Poi uno sbruffo. «Di questo passo non arriveremo mai.»

Sentii un braccio afferrarmi le gambe e, l'attimo dopo, i miei piedi non toccavano più il marmo freddo.

Con la testa appoggiata a qualcosa, osservai i miei piedi dondolare: apparivano e scomparivano, apparivano e scomparivano.

Risi.

«Lyra, sta' ferma.»

Poi i miei occhi si chiusero.

Mi sembrò solo un attimo, eppure quando li riaprii ero stesa su un letto.

Ma non era a baldacchino.
Non era il mio.

Con la vista ancora sfocata, mi voltai verso il fianco, dove una figura era sul punto di allontanarsi. Un improvviso senso di vuoto e solitudine mi avvolse.

«No!» Allungai il braccio, afferrando la prima cosa che la mia mano riuscii a trovare. «No!»

Riuscii solo a dire, rigirandomi nel letto.

Non volevo rimanere sola.

«Lyra... ti prego sta' ferma!» Sentii ripetermi.

Accigliata, guardai la figura. Non ne distinsi i tratti somatici, ma il ciuffo castano fu sufficiente.

Sentii i cuore battermi in petto.

Era tornato? Era tornato per me?

«Questo vestito non sarebbe abbastanza coprente neanche se rimanessi immobile.»

Notando come stesse cercando di liberarsi dalla mia presa, iniziai ad agitarmi maggiormente. «No! Ti prego, non andare!»

Non potevo perderlo di nuovo, non volevo perderlo di nuovo.

«Va bene! Va bene! Lyra, rimango qui!»

Chiusi i miei occhi per qualche istante, finalmente tranquilla, percependo il materasso infossarsi.

«Quando la finirai di torturarmi?» Delle dita mi spostarono delle ciocche di capelli dal volto.

Mugugnai a quel ricordo familiare, con ancora gli occhi chiusi. Afferrai quella mano e la portai al collo, chiudendola tra la clavicola e la mascella.

Era fresca contro la mia pelle calda. 

In quel momento sentii la tranquillità pervadere il mio corpo.

«Lyra, stai sudando.» La mano, liberandosi dalla mia presa, iniziò ad allontanarmi le ciocche di capelli umide dal volto.

«Fa caldo...» Mi lamentai, scuotendomi.

Sentivo il colletto del vestito aderire alla mia pelle, togliendomi il fiato.

Allungai una mano verso il retro dell'abito, in un tentativo di slacciare il nodo del vestito alle mie spalle.

«Lyra, cosa fai? Fermati-»

Mi sollevai in piedi, ma la testa girava, la stanza girava, ed il materasso era troppo morbido per reggere quel mio equilibrio precario.

Un ginocchio cedette.

«Merda.» Sentii dire e, quando riaprii gli occhi, sotto di me trovai un ciuffo castano.

«Grazie.» Sorrisi, confusa, con la vista annebbiata, cercando di sollevarmi, ma qualcosa mi tirò nella direzione opposta.

Chiusi per un istante gli occhi, lo stomaco troppo sensibile per reggere tutti quei movimenti, ma quando li riaprii notai come si fossero invertite le posizioni.

«Ti avevo chiesto...» La voce roca, mentre il respiro mi solleticava il collo. «...di non torturarmi.»

Improvvisamente sentii il fiato venirmi a mancare mentre due labbra, voraci, consumavano le mie.

Iniziai ad annaspare mentre, umide, tracciavano un percorso lungo il mento, il collo, la clavicola, lo sterno.

Sentii il colletto del vestito slacciato scivolarmi lungo il torace, mentre la mia schiena si incurvava.

Una mano mi afferrò il fianco, fissandolo contro il materasso, mentre l'altra risaliva lo spacco lungo la coscia.

Mi si bloccò il fiato nei polmoni quando un morso mi marcò i confini dello stemma da Reietta.

Quando quel tocco venne improvvisamente a mancare, aprii gli occhi ritrovando sopra di me un dorso nudo e delle braccia alzate a combattere contro una maglia dal collo troppo stretto.

L'attimo dopo un ciuffo castano si avvicinò al mio volto, mentre degli occhi cristallini mi fissavano pieni di lussuria.

Una sensazione di disagio si fece strada nel mio petto, ma scomparve l'attimo dopo in cui, la scia umida di baci, riprese a marcare il mio corpo.

«N-non resisto più...» Sentii dire, la voce roca. «Lyra, devo-»

«Rubyo.» La mia voce uscì così ovattata dai miei respiri, da essere a malapena udibile.

«Rubyo?» Sentii ripetere, la voce carica d'odio mentre il mio corpo si faceva più leggero.

In quel momento un suono sordo di legno sbattuto riempì la stanza.

«Gideon!»

Sbattei più volte gli occhi, mettendo a fuoco la figura sopra di me.

«Mamma?!»

Solo allora distinsi le ciocche candide e riconobbi quello sguardo cristallino.

Come avevo potuto confondermi?
Come avevo potuto confonderli?

Con lo stesso impatto di uno schiaffo, realizzai la situazione nella quale mi ritrovavo.

Sbarrai gli occhi, chiudendomi tra le braccia.

«Maledetta puttana!»

Vidi Aerin avanzare ad ampie falcate verso il letto, gli occhi dorati.

Puntellai i talloni nel materasso, cercando di allontanarmi, ma sembravo legata in quella posizione.

«Mamma! Ferma!» Gideon tentò di pararsi davanti a me, ma Aerin lo spostò sul lato.

Sentii un bruciore risalirmi l'esofago.

«Io e te facciamo i conti dopo!»

Gli occhi di Aerin mi guardarono collerici.

Mi voltai sul fianco, cercando di scappare anche a costo di trascinarmi giù da quel letto e proseguire a gattoni, ma una scossa mi percosse lo sterno e, un singhiozzo dopo, svuotai il mio stomaco di tutta la cena.

Aerin, raggiunta da qualche schizzo, rimase agghiacciata.

Approfittai di quel momento per strusciare fuori dal letto, ma il Kelpie mi afferrò per i capelli.

«Lasciami!» Una scintilla bluastra, e fui libera.

Cercando di mettere insieme ciò che rimaneva del mio vestito, mi coprii alla meglio e uscii dalla stanza di Gideon.

Raggiunsi in poche ma rapide falcate la mia stanza, esattamente difronte.

Abbassai la maniglia, spingendo per entrare, ma andai solo a sbattere contro la porta chiusa.

Merda, merda, merda.

Le mani mi tremavano mentre cercavo la chiave tra le pieghe del vestito.

La trovai solo quando cadde a terra, producendo un acuto rumore ferroso.

Non osai voltarmi, ma percepii Aerin poco distante da me.

Quando la chiave entrò nella serratura e la porta si aprì, mi gettai nella camera.

Finalmente sola, nel buio della mia stanza, mi accasciai al pavimento.

Avevo combinato un casino.

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