CAPITOLO 136
Era passata una settimana in cui avevo dormito male e poco, più per bisogno fisiologico che per volere.
Le emicranie e gli occhi arrossati erano solo alcuni degli strascichi che mi portavo dal pianto.
Ogni volta che pensavo di aver accettato l'assenza di Rubyo, il buio e il silenzio delle notti mi facevano ricordare la mia solitudine, mentre la mente iniziava a vagare lontana, a lui.
Mi chiedevo dove fosse, come stesse, se avesse mangiato e dormito, quanto mi avesse pensata... quando ci saremo rivisti, se ci saremo rivisti.
Un rumore di nocche contro al legno mi svegliarono dal torpore dei miei pensieri.
Quando la porta si aprì, una colonna di luce si innalzò nella stanza buia della cabina.
«Principessa...»
Al sentirmi chiamare, mi raddrizzai nel letto. «Dollarus, entra pure.» Avevo le labbra secche.
«Siamo arrivati.» Disse solo.
La traversata era durata una settimana, eppure il tempo sembrava scorrere a rilento da quando Rubyo se ne era andato.
Scostai le coperte, in un tentativo di alzarmi dal letto, ma un giramento di testa mi immobilizzò per qualche momento.
Solo quando fui sicura del mio equilibrio decisi di uscire dalla camera, recuperando la spada appoggiata al muro in prossimità della porta.
Strizzai gli occhi alla vista di tutto quel sole, mentre l'aspro odore della salsedine tornava a riempirmi le narici e la gola.
Sentii il grido dei gabbiani e il dolce infrangersi delle onde sulla costa sabbiosa.
Silenziosa e apparentemente deserta, ora Chaot non sembrava più così spaventosa, nonostante le spesse mura che circondavano le coste.
«Dove sono Gideon ed Aerin?» Domandai, non vedendoli in giro.
Dollarus mi rispose con un cenno del capo, indicando un punto della spiaggia.
Avevano raggiunto la terraferma prima di noi, precedendo l'omino probabilmente ancora impegnato nelle ultime manovre di ancoraggio.
Aerin era in forma di Kelpie.
«Questo non è lo stesso punto in cui mi sono arenata la prima volta.» Dissi, notando l'assenza del grande portone d'ingresso.
«Quello era il versante sud dell'isola. Questo, invece, è il nord. È il mio ingresso privato.» Ammise Dollarus, con il petto gonfio d'orgoglio.
Sapevo come la sua reputazione lo precedesse, ma non riuscivo a non meravigliarmi ogni volta.
«Signore!» Una voce attirò la nostra attenzione in lontananza e, volgendo l'occhio sulla riva, notammo come una figura avesse appena preso a sbracciarsi nella nostra direzione.
Mi accorsi di come, al mio fianco, il volto di Dollarus si fosse illuminato, distendendosi in un sorriso.
Nonostante non gli piacesse ammetterlo, aveva un cuore d'oro, così puro da farlo gioire alla sola vista dei suoi uomini.
La malinconia mi strinse di nuovo il cuore: chissà se anche io avrei riprovato di nuovo quel sentimento...
Poco dopo, anche noi raggiungemmo la spiaggia.
La compagnia di Dollarus ci accolse con un caloroso benvenuto, per poi farci strada in un sentiero, dapprima sabbioso e poi roccioso, che sfociava in un'insenatura delle mura.
Non stava scherzando quando aveva detto di avere un ingresso privato, letteralmente.
Proseguimmo per quel percorso fino a ritrovarci in un ampio cortile.
«Benvenuti nella mia umile dimora.» Disse Dollarus, aprendo le braccia.
Umile era l'ultimo aggettivo che avrei usato per descrivere quella reggia.
Era immensa, almeno il doppio di quella di Degorio, quasi paragonabile al mio palazzo.
Il giardino, perfettamente curato, era un'armoniosa composizione di piante e fiori che non avevo mai visto, decorato con innumerevoli statue giustapposte in modo impeccabile tra siepi e aiuole.
Ero così presa dal guardarmi intorno, che non mi accorsi neppure di come gli uomini di Dollarus si fossero tolti le scarpe prima di entrare.
«Principessa...» Mi fermò l'omino, sorridendo. «Il marmo si graffia più facilmente di quanto lei possa pensare.»
Ancora colta alla sprovvista da quell'usanza, iniziai a sfilarmi gli stivali, mentre Dollarus rivolgeva uno sguardo preoccupato agli zoccoli di Aerin.
«Mostratele la zona termale.» Disse infine, sicuro che non avrebbe accettato di ritrasformarsi in forma umana.
«Kelpie, tu invece?» Domandò, riferendosi a Gideon, mentre i miei piedi erano oramai entrati in contatto con il freddo marmo.
«Vi seguo.» E si sfilò anche lui le scarpe.
Mentre Dollarus ci faceva strada lungo i portici labirintici della sua abitazione, io osservavo il patio interno, al cui centro splendeva una statua dorata dalle sembianze di Dollarus.
Era uguale in tutto e per tutto, tranne che per l'altezza. L'originale aveva giusto qualche centimetro in meno.
Sorrisi a quell'architettura così egocentrica.
«Nonostante passerete qui poco tempo...» L'omino si voltò nella mia direzione. «...ho fatto arredare una stanza appositamente per voi.»
Avrei voluto chiedergli come i suoi uomini avessero scoperto della mia presenza ancor prima del mio arrivo, ma riuscii solo a prendere una boccata d'aria: con un fischio assordante, un'aquila planò sulle nostre teste, fino ad atterrare sulla spalla di Dollarus.
Le proporzioni erano sconcertanti. Mi chiesi quanta forza dovesse avere quell'omino per reggere sulla spalla un'animale almeno la metà della sua altezza.
«Lui è Grufus. Il mio uccello di vedetta.» Esordì fiero, accarezzandogli il piumaggio. «Gira sempre attorno all'isola. È grazie a lui che io ed i miei uomini siamo costantemente informati su ciò che accade a Chaot, ed è sempre grazie a lui che vi abbiamo trovata quella volta.»
Un asso nella manica dopo un altro. Dollarus era davvero un uomo dalle mille sorprese.
«Grazie Grufus.» Sorrisi, e questo ricambiò con uno stridio.
«Questa sera ci sarà una festa, non come quella sulla nave, ma in grande stile.» Cambiò argomento Dollarus. «Siete tutti invitati, ovviamente.»
Un'altra? Pensai, ma dentro di me, in realtà, ne ero felice: sentivo di aver bisogno di un po' di svago.
«Eccoci arrivati.» Annunciò infine l'omino, fermandosi davanti ad una porta immensa, alta fino al soffitto. «Questa invece...» Indicò la stanza difronte alla mia. «...è del Kelpie.» Ed affidò ad entrambi un paio di chiavi.
Non che ne avrei avuto bisogno, ma apprezzai il gesto.
«Dentro ci sono dei vestiti di ricambio per entrambi.» Poi lanciò uno sguardo sprezzante a Gideon. «Usali, ti prego. Capisco l'essere un Kelpie fatto d'acqua, ma per favore... è arrivato il momento di rinnovare un po' quello stile.» Gesticolò, indicandolo dall'alto al basso.
Gideon rimase spiazzato, e anche io.
Mi lasciai sfuggire una risata, ma scemò poco dopo, quando pensai a cosa avrebbe detto Rubyo in questa situazione.
Prima che gli altri potessero accorgersi di come la tristezza stesse prendendo nuovamente la meglio, entrai in camera, chiudendomi la porta alle spalle.
Mi si illuminò il volto quando notai come l'immensa vetrata che divideva la camera dal balcone, si affacciasse sul mare.
La aprii, facendo entrare la brezza marina.
Niente polvere, né tende pesanti.
Solo luce e aria.
Mi voltai verso il letto, a baldacchino come il mio, ma più alto, con delle fresche coperte in seta.
Difronte, un'armadio e una specchiera con varie boccette.
Mi avvicinai, scoprendo i tappi e osservandone il contenuto: oli profumati e polveri colorate.
Sorrisi, mentre le immagini infantili di una me a palazzo mi tornavano alla mente.
Mi sarebbe piaciuto usare tutti quei doni, ma oramai avevo dimenticato come si facesse.
Da una bacinella d'acqua pulita, precedentemente preparata, mi sciacquai il volto, ripulendolo dalla salsedine accumulata durante la traversata.
Solo dopo essermi rinfrescata, aprii le ante dell'armadio, in cerca di un vestito adeguato alla festa.
C'erano molti pantaloni, magliette e giacche, che sarebbero risultate molto pratiche in viaggio, ma non erano adeguate per un evento come quello di quella serata.
Le mie dita iniziarono a solleticare vari tessuti finché uno, particolarmente morbido, non attirò la mia attenzione: apparteneva ad un lungo abito verde dai ricami scarni.
Lo indossai, spostandomi davanti lo specchio per osservare la mia immagine riflessa. La scelta di quel particolare vestito era volontaria eppure, in quell'abito smanicato, la pelle lasciata scoperta era più di quanto pensassi.
Mi spostai i capelli sul fianco, rivolgendo meglio la schiena nuda allo specchio: in bella mostra, tre profonde ferite mi solcavano la pelle, incrociandosi tra di loro.
Ne sfiorai una con un polpastrello.
Non facevano più male, non fuori, almeno.
Ma dentro il dolore non era mai sparito.
Per tutti quegli anni avevo sperato che, se non ci avessi pensato, se non le avessi viste, se le avessi evitate e tenute nascoste, allora sarebbero sparite. Ma la realtà non era quella.
Come potevo, da sola, rinascere dalle polveri delle mie fondamenta ed edificarne di nuove, senza che prima accettassi la cosa di cui da sempre avevo voluto ignorare l'esistenza, ma che allo stesso tempo mi rappresentava di più?
Lasciai i capelli scivolare nuovamente dietro la schiena, per poi portare una mano al colletto del vestito in un vano tentativo di allentarlo. Era stretto, sulla mia gola. Sentivo il fiato più corto del solito, eppure sapevo che l'abito non ne fosse la causa.
Ero nervosa.
Mi asciugai i palmi sudati, strofinandoli contro il tessuto all'altezza del bacino, stretto nel compatto corpetto. Solo allora notai come le spaccature lungo i fianchi della gonna raggiungessero quelle altezze vertiginose.
Lentamente, lasciai scivolare la mano fino alla coscia scoperta, finché non incontrai un'altra cicatrice. Perfettamente delineata e scolpita nella mia carne una R, avvolta in un cerchio, mi marchiava a vita come Reietta.
Un'altra ombra del mio passato, incombente sul mio futuro. Ma ora non avevo più intenzione di nascondere nulla.
Afferrai la spada, che avevo momentaneamente appoggiato all'armadio, e la estrassi.
Rimasi a osservarla per qualche secondo, legando il mio sguardo ai miei occhi riflessi nella lama.
Mi ricordai tutta la strada che avevo fatto per arrivare fino a quel punto, quanto io o qualunque altra persona che mi fosse stata accanto avesse sofferto.
Mi ero ripromessa che non sarei più tornata indietro.
E non l'avrei fatto.
Impugnai saldamente l'elsa e, con un fendente, tagliai l'aria.
Lunghe ciocche cremisi caddero, silenziose, sul marmo freddo.
Ora avrei guardato solo avanti.
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