XXI

Intrappolato in un'immagine riflessa che mi somiglia fedelmente eppure non riconosco più appartenermi. Stessi occhi verdi, stessi capelli oro, stesso fisico - e che fisicaccio aggiungerei - di sempre, ma lo sguardo è perso, perso nel mio dolore, i capelli sono smorti, come se non ci fosse più luce a farli risplendere e, il mio corpo... no, quello è perfetto come sempre. 

La mattina era iniziata non nei modi più simpatici, ma quella, in questa casa, è una costante ormai. Il sorriso di mamma non rallegra più mio padre, non calma l'animo irrequieto di Henry, non abbraccia il piccolo Thommy, non comunica con la dolce Anne, non rassicura più me.

Mi butto a letto, guardando la luce filtrare dalla finestra, poi socchiudo gli occhi e mi godo il suo calore sul viso. Sento un bussare leggero alla porta. Apro gli occhi lentamente, cercando di allontanare i pensieri cupi che stavano sopraggiungendo. 

— Ryan, sei sveglio?  — È Thommy, con la sua voce dolce e ansiosa.

— Sì, entra—  rispondo, cercando di sorridere.

Thommy spalanca la porta e corre verso di me, saltando sul letto. — Posso dipingere con te oggi? — chiede, con gli occhi pieni di speranza. Annuisco, sapendo quanto questo momento sia importante per lui. — Certo, Thommy. Prendiamo i colori e andiamo in giardino.

Poco più tardi, sono seduto sul prato, il mio cavalletto piazzato di fronte a me, con una tela bianca che attende di essere riempita. Inizio a intingere colore su tela e qualcosa prende forma, le mie emozioni prendono il sopravvento e mi lascio trasportare in un atmosfera che perde la concezione del tempo. Anne mi raggiunge, portando con sé due tazze di tè.

— Pausa? —  mi chiede, con un sorriso gentile.

—  Grazie, Anne —  dico, prendendo una tazza. Sorseggio lentamente, lasciando che il calore del tè mi conforti.

—  Stai dipingendo mamma, vero?—  La sua voce è dolce, ma piena di tristezza.

Annuisco. —  Sì, sto cercando di catturare il suo sorriso. Sai, quello che faceva quando ci raccontava le storie davanti al camino. Anne posa una mano sulla mia spalla. —  Lei sarebbe orgogliosa di te, Ryan. Di come stai cercando di tenerla viva attraverso la tua arte.

— Sei tanto bravo, fratellone  — intervenne Thommy lanciando uno sguardo al mio dipinto — Mi piace molto la mamma qui, è tanto bella. I suoi occhietti luminosi mi fecero stringere il cuore, lo strinsi a me mentre quelle sue piccole manine pasticciate di tempera blu mi sporcarono tutta la maglia chiara. 

Trascorsero ore, senza che il tempo pesasse, fin quando i raggi del sole caddero perpendicolari alla tela, prendendo quasi parte di quel disegno che prese vita grazie a quel fascio di luce. Doveva essere già mezzogiorno, Thommy aveva lasciato il suo disegnino incompleto, l'attenzione dei bambini è veramente labile. Io non riuscivo invece a staccarmi, cercavo la perfezione laddove non era possibile darla. Sentii dei passi avvicinarsi a me. Era Henry. 

L'aria fredda e il viso teso. Mi lancia uno sguardo carico di astio, come ogni volta che ci incontriamo. Vedo corrucciarsi non appena posa lo sguardo sulla tela. Lo guardai, incrociando il suo sguardo. Non sopportavo quel suo comportamento. Noi due eravamo sempre andati d'accordo, eravamo molto legati e per me era sempre stato un sostegno prezioso.  Posso vedere la lotta interiore nei suoi occhi. Forse, un giorno, riusciremo a sanare le nostre ferite. Ma per ora, siamo qui, insieme con il gelo a dividerci. 

Un pensiero, un ricordo, si fece spazio in quel momento tra i nostri sguardi. 

Era un pomeriggio nuvoloso, il tipo di giorno in cui il tempo sembrava sospeso e tutto appariva avvolto da un'atmosfera di mistero. Henry ed io avevamo deciso di organizzare una caccia al tesoro nel vasto giardino del palazzo di Windsor. Non c'era niente di meglio per passare il tempo e sfuggire alle noiose lezioni di storia che nostro padre insisteva tanto che seguissimo.

— Ryan, sei pronto? —mi chiese Henry, con un sorrisetto furbo mentre finiva di nascondere l'ultimo indizio.

— Pronto! — risposi, carico di eccitazione.

Henry mi consegnò la prima mappa, una pergamena che aveva disegnato con cura, piena di indizi criptici e simboli strani. — Devi seguire gli indizi e trovare il tesoro nascosto. Ma attento, non sarà facile.

Iniziai a leggere la mappa, cercando di decifrare i disegni e le scritte. — La fontana d'argento nasconde il primo segreto — lessi ad alta voce, dirigendomi verso la grande fontana al centro del giardino. Arrivato lì, cercai attentamente finché non trovai un piccolo rotolo di pergamena nascosto dietro una delle statue.

— Bravo, hai trovato il primo indizio — disse Henry, apparendo all'improvviso accanto a me. —Ora vediamo se riesci a risolvere il prossimo enigma.

Aprii il rotolo e lessi: " Il vecchio salice custodisce il prossimo passo". Sapevo esattamente dove andare. Il vecchio salice era uno degli alberi più antichi del giardino, con rami che pendevano fino a toccare il suolo.

Mi avvicinai all'albero e iniziai a cercare tra le radici e i rami bassi. Dopo qualche minuto, trovai un piccolo scrigno di legno nascosto tra le radici nodose. Lo aprii e dentro c'era un altro rotolo.

— Sei davvero bravo in questo gioco — disse Henry, osservandomi con un misto di orgoglio e sorpresa. —Ma ora arriva la parte più difficile.

Il rotolo conteneva l'ultimo indizio: "Dove la luce incontra l'ombra, lì troverai il tesoro." Pensai intensamente, cercando di ricordare un luogo nel giardino dove la luce e l'ombra si incontravano in modo particolare.

— All'ombra del grande roseto! — esclamai, ricordando un punto specifico dove i raggi del sole creavano giochi di luce tra i fitti rami del roseto.

Henry mi seguì mentre correvo verso il roseto. Arrivato lì, iniziai a cercare tra le rose e le foglie. Finalmente, trovai un piccolo cofanetto dorato nascosto tra i cespugli.

— Ce l'hai fatta, Ryan!" disse Henry, applaudendo. — Hai trovato il tesoro!

Aprii il cofanetto e dentro c'era un piccolo oggetto che scintillava alla luce del tramonto: un medaglione d'oro con l'immagine di un drago inciso sopra. Lo guardai meravigliato.

— È bellissimo  —dissi, affascinato dal dettaglio del medaglione.

— L'ho trovato nella soffitta la settimana scorsa, — spiegò Henry. — Volevo darti qualcosa di speciale, qualcosa che potesse ricordarti questa caccia al tesoro.

Sorrisi, toccato dal gesto. — Grazie, Henry. Dobbiamo farlo di nuovo.

Henry annuì, sorridendo. — Sì, lo faremo. E la prossima volta sarà ancora più difficile. 

In quel momento, eravamo solo due fratelli che condividevano una passione e un'amicizia. Era un momento semplice, ma perfetto, che avrebbe sempre avuto un posto speciale nel mio cuore. Ora, guardando indietro, quel ricordo è uno dei più preziosi che ho. Un tempo in cui io e Henry eravamo semplicemente due ragazzi che condividevano un'avventura, lontani dalle ombre che avrebbero oscurato la nostra vita in seguito.


— Cosa c'è? — chiese bruscamente, sedendosi al tavolo.

— Nulla, solo che... vorrei parlarti — risposi, cercando di mantenere la calma.

— Non abbiamo nulla da dirci — ribattè, fissandomi con occhi di ghiaccio.

Mi sentii schiacciato dal suo disprezzo, ma continuai. — Henry, non possiamo continuare così. Mamma non avrebbe voluto vederci divisi. So che sei arrabbiato, ma dobbiamo trovare un modo per andare avanti, insieme.

Lui scosse la testa. — Tu non capisci, Ryan. Non capirai mai.
Si alzò bruscamente e se ne andò, lasciandomi solo con il mio senso di colpa e frustrazione.

Il mio sguardo si incupì, continuai con la mia arte ma mi sentivo spezzato. Lui mi incolpava di una cosa atroce, lui credeva fermamente che io fossi coinvolto o addirittura colpevole della morte di nostra madre. Mi distruggeva. Mi sentivo affogare in un mare di colpevolezza che sentivo solo mia. Io...io non ho potuto fare niente. Sono arrivato tardi. Era troppo tardi. L'ho vista illuminarsi al mio arrivo, l'ho vista lottare, l'ho vista guardarmi e poi spegnersi davanti quella... non so cosa fosse. Non lo ricordo. Non ricordo cosa l'ha uccisa. Ho solo il sangue, il suo sangue che si spargeva ovunque repentinamente, nitido. Non posso riconoscere il volto di chi, o di cosa l'abbia portata via dalle nostre vite, questa è la mia colpa più grande. Ma lui non mi crede. 

Il pennello scivola sulla tela, creando linee delicate e colori vividi. Ogni colpo è un ricordo, ogni sfumatura un'emozione. La tela prende connotati sempre più cupi, più tristi e si imbratta di rosso, come l'ultimo mio ricordo di lei. 

Sento qualcuno sopraggiungere dalle mie spalle:  — Sono felice che tu dipinga ancora  — disse una voce familiare. Mi voltai e vidi James, il mio migliore amico, sulla soglia. — Sì, è l'unico modo che conosco per sentirmi vicino a lei  —risposi, appoggiando il pennello.

James si avvicinò e osservò la tela. — È bellissima. Lei era bellissima.

Annuii, sentendo un nodo in gola. — Grazie, James. A volte mi chiedo se riuscirò mai a superare tutto questo. Lui mi posa una mano sulla spalla. — Non devi farlo da solo, Ryan. Siamo qui per te, io, Anne, e anche Thommy. Non dimenticarlo.

James è stato il mio migliore amico sin da quando riesco a ricordare. Abbiamo la stessa età e le nostre famiglie si conoscono da anni, grazie alle frequenti visite e alle cene organizzate dai nostri genitori. Ma il nostro legame va oltre le circostanze sociali: è un legame forgiato da anni di avventure, risate e confidenze. Ricordo la prima volta che ci siamo incontrati, avevamo circa sei anni. Era una festa di compleanno nel grande salone del palazzo di Windsor. Io ero timido e stavo in disparte, mentre lui si avvicinò con un sorriso amichevole. James è sempre stato la mia roccia, specialmente dopo la morte di mamma. È stato lui a tirarmi fuori dal mio guscio, a portarmi fuori a respirare l'aria fresca quando tutto sembrava troppo difficile da sopportare. "Non puoi rimanere chiuso qui dentro per sempre, Ryan," mi diceva, trascinandomi fuori per una passeggiata o una corsa nei boschi vicini.

È un ragazzo pieno di vita, sempre pronto a trovare il lato positivo delle cose. Quando dipingo, spesso si siede accanto a me, osservandomi con interesse. La nostra amicizia è fatta di piccoli momenti: le notti passate a chiacchierare sotto le stelle, le risate condivise durante le nostre scorribande nel giardino, i segreti sussurrati nell'ombra dei vecchi alberi. È il tipo di amicizia che non richiede parole, perché ci capiamo al volo, con uno sguardo o un sorriso. James è anche il mio confidente più fidato. Sa tutto di me, delle mie paure, dei miei sogni, delle mie lotte interiori. "Non devi farcela da solo, Ryan. Sono qui per te," mi dice, ogni volta che il peso del mondo sembra schiacciarmi. In un mondo che a volte sembra ingiusto e crudele, James è il mio porto sicuro. La sua presenza mi ricorda che, nonostante tutto, c'è ancora speranza e bellezza nella vita. E per questo, gli sarò eternamente grato. Così, distraendomi da questo momento di catatonica tristezza, mi ha invitato a entrare dentro e a iniziare i preparativi per la mia "festa", senza lei. 

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