V
Avvinghiata nel suo abbraccio e avvolta dal piumaggio delle nostre ali, salutammo il nuovo giorno appena sbocciato.
A Kalennorath i giorni non scorrevano affatto in maniera consona, l'alternarsi della luce del giorno e della notte non trovava esistenza, ma imparai, osservando quella dimensione, che i colori boreali che ricoprivano la lastra d'aria che permaneva ciò che è definito cielo, cambiassero colore.
Questi, dettavano la fine e l'inizio di quello che porrebbe definirsi il cambiare delle giornate, ma sembrava che il tempo che le scandisse non avesse alcuna regolare costanza.
Influiva lo stato d'animo del popolo, di tutte le creature che vi abitavano, dei fatti che vi accadevano e, maggiormente, dipendeva dal sovrano, o in questo caso della sovrana, che vi regnava.
Lo capii pian piano.
Adesso tutto era tinto di ciliegio in fiore, le nubi verdi che opprimevano la volta fino qualche tempo fa, erano mutati in zucchero filato.
Era l'amore che occupava il mio cuore, l'emozione di sentirmi umana tra le sue braccia, il senso di pudore reso vano dai nostri corpi nudi, l'emozione di felicità che in questo momento mi apparteneva.
Lui, così dannato e così dannatamente bello.
Lui, che aveva tramutato la mia esistenza in inferno, ora la rendeva paradisiaca.
Il suo volto era lì, accarezzato dalle mie mani.
Le sue labbra continuavano a poggiarsi morbide sulle mie e i suoi occhi a incastonarsi come pezzi d'anima preziosi e splendenti.
— Sei sicura di noi, Ise?
— Ho sempre saputo cosa volessi, Mar — nel dirlo appoggiai il mio volto sul suo petto riempiendomi del profumo della sua pelle — ma finora non mi è stata data la possibilità di scelta in niente.
— Adesso pensi di avercela? — mi chiese con un filo di tristezza nella voce.
— Totalmente.
Lo vidi ancora insicuro di quella mia affermazione così tentai di spiegargli meglio che realmente in me qualcosa era cambiato.
— Prima ti guardavo e nel farlo una forza mi attraeva a te, che io lo volessi o meno, mi risucchiavi. Adesso sono io il magnete che cerca di convergere te, verso di me. Capisci?
La sua bocca si allargò in un piccolo sorriso.
Non avevo mai visto Maraud ridere, le sue labbra sembravano incapaci di quel movimento, quindi quei piccoli accenni erano sostanziali, vitali, bellissimi.
L'uno di fronte l'altro, in piedi davanti l'albero delle anime di Chrysocoma, stavamo avvolti dalle lunghe fronde di quel salice che volteggiavano assieme i nostri lunghi capelli smossi dal vento che prese a far turbinare tutto attorno a noi; ciò rese quell'istante una dedica alle nostre figure.
Mi prese dai fianchi, mi sollevò appena, con tocco saldo e leggero; dolcemente le nostre labbra si toccarono in un bollente bacio e s'allontanarono solo per permetterci di guardarci.
Come rugiada fresca splende al primo raggio di sole mattutino, le iridi dei suoi occhi presero a illuminarsi guardandomi: per me.
Le mie emozioni si fusero a quel turbinio d'aria che ci volteggiava attorno.
Le nostre mani si strinsero e insieme volammo verso la luce.
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Il Castello conservava ancora lo stesso alone tetro di quando il Sommo ne occupava l'interno.
La sua presenza permeava ancora quel luogo.
Di fatto, era veramente così.
Al centro della stanza da letto, una sfera volteggiava alla base di un piedistallo. Lì era rinchiuso quel tiranno. Non era sparito, era solo nascosto a tutti noi, incarcerato in quel piccolo spazio vitale.
Non avrei mai più usato quel luogo per riposare, poiché era carico solo di orribili pensieri che lo riguardavano e non sarei stata più in grado di sentirmi toccare da quelle lenzuola.
Magoa varcò la porta guardandomi come chi avesse compreso ogni mio pensiero, lei che vi aveva assistito.
— Mia Signora, è attesa nella Sala Regale.
— Puoi chiamarmi Heloise, Magoa. Te l'ho detto tante volte, non sei la mia serva.
Mi guardò sorridendo; chissà se mai avrebbe superato quel blocco.
Nella Sala trovai Carol ad attendere.
— Rovhtàri, dobbiamo discutere sul da farsi.
Mi sembrò strano sentirmi dare lo stesso appellativo che io avevo sempre legato alla sua di figura; effettivamente la realtà è che lei non lo fosse più, io lo ero.
— Lo trovo corretto, ma prima vorrei offrirvi un adeguato pasto. Cosa gradite?
— Oh no, grazie mia cara, non ho fame. Concedetevi voi il nutrimento che vi serve.
Vidi una strana espressione prendere posto sul suo viso, legato a quelle ultime parole. Forse pensò al fatto che, in quanto Succube, avrebbe preferito non assistere a ciò di cui avevo bisogno per mangiare.
Purtroppo quella era la mia nuova natura, per quanto fosse spregevole agli occhi di molti e, persino ai miei, ero questa.
Ordinai che una stanza fosse adibita a contenere una thalion porporea e una più piccola smeraldo.
Avrei attinto da quelle il mio sostentamento poiché mi sembrava il modo meno barbaro per farlo.
La stanza che potremmo definire come una sala da pranzo, era un fiorito giardino rigoglioso.
Piante tipiche di Chrysocoma ne riempivano ogni dove: alti rampicanti stavano ad abbellire le mura colorando tutto di viola e verde bosco; grosse piante si ergevano culminando con fiori simili alle terrestri Tigridia Pavonia, ma di grandezza maggiore e un colore molto meno bianco con sfumature fucsia molto più peristenti.
Le thalion erano abbracciate dalle radici che avvolgevano i tronchi dei salici, che facevano da contenitori a queste splendide e luminose sfere che parevano geodi.
Un tavolo di legno bianco risiedeva centrale.
Non mi aspettavo una così bella stanza. Le Succubi e gli Incubi, residenti al Castello, si erano dati un gran da fare per soddisfare quella mia richiesta. Fu come avere un pezzettino di Chrysocoma dentro la sala da pranzo. Restai estasiata.
Io e la precedente Rovhtàri ci accomodammo sulle comode sedie poste accanto al tavolo e, in quel momento, sentii delle risatine avvicinarsi verso di noi.
Poi vidi Kimberly entrare accompagnata da Aeglos.
I suoi occhi si riempirono d'eguale meraviglia alla vista di quella stanza.
— Kim.
Un sorriso gigantesco coinvolse tutto il mio e il suo volto, che già di suo sorrideva.
L'abbracciai, poi prese posto al tavolo anche lei, così come Aeglos.
Andai verso l'albero, la mia mano toccò la thalion rossa e il mio corpo si trasformò in quello da Succube.
La sua luce si rifletté sul mio corpo per poi irradiarsi da dentro.
I capelli galleggiarono folti all'aria, quella chioma rossa volteggiava sinuosa come i capelli-serpente di Medusa.
Kim restò scioccata a fissarmi.
Mar entro in quel preciso istante e dopo avermi osservata a lungo, si sedette anch'egli.
— Come... Come funziona questa cosa? Che è successo? — chiese curiosa Kim non appena terminai il mio pasto.
— Ho appena fatto colazione, Kim — lei storse il naso e mi guardò con sguardo di chi non aveva compreso granché.
— Servitevi pure, non fate complimenti — riferendomi ai due Incubi presenti della stanza.
— Aspettiamo, bamb... Attendiamo che finisca la nostra riunione Rovhtàri — Aeglos si rivolse a me con tono solenne e rispettoso, ciò mi fece sbuffare in una risata.
— Parlami come hai sempre fatto, Aeglos. Siamo amici. — Non volevo che il nostro rapporto cambiasse solo perché adesso ero la loro Regina. — E comunque puoi... potete andare tranquillamente, servitevi. Mi hanno insegnato che a stomaco pieno si fanno discorsi migliori.
— Allora se insisti...
Aeglos si alzò e andò verso la thalion; guardai Maraud e gli suggerii di fare lo stesso, ed egli andò.
— Magoa, cara, porteresti qualcosa di più adatto alla mia amica Kim e alla nostra ospite? Poi, serviti pure anche tu, non fare complimenti.
— Sì mia Signor... — si fermò ripensando alla mia precedente richiesta e sorrise. Tornò con una tegliera fumante e un piatto di frutta.
Nel frattempo sia Aeglos che Maraud si erano diretti verso il salice.
Non appena i palmi delle loro mani sfiorarono quella pietra i loro corpi cambiarono, osservare quella traformazione e quanto gli donava l'energia che li colmava, era estasiante, sembravano divinità bellissime.
Finito il pasto, tornarono a sedersi camminando fieri, l'uno accanto all'altro.
— Parliamo.
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