Prologo


Ero un esserino lungo poco più di cinquanta centimetri quando piangevo annaspando nella ciotola ricolma del sangue di una delle tante vittime di mio padre. 
Ogni mio bisogno veniva ignorato e a ogni mio gemito corrispondeva una punizione feroce. Ho imparato fin da tenerissima età a non piangere, mai.  
Non sono stato accudito nemmeno una volta da quello che dovevo ritenere essere mio padre, anzi, conobbi la sua ira fin dalle mie prime ore di vita quando, arrivati a Kalennorath, venni scaraventato per un piede in una ciotola che mi fece subito da culla. 

Di mia madre ho solo un vago ricordo.
I suoi occhi, che mi guardavano dolcemente per poi annegare, come lolite, in mezzo al baratro della mia mente. 
Il loro pleocroismo è presto tramutato in nero per l'enormità del tempo passato che ne sfoca la memoria. 

Non ho voluto, io, nascere con il fardello di essere il primo. 
Il primo bastardo: umano o demone?
Inverosimilmente il primo che viene considerato l'ultimo, lo scarto. 
Abbandonato dalla stessa genitrice che mi accarezzava attraverso un sottile strato di pelle del suo ventre, il solo a dividerci; pensavo.

Dicono che il dolore fa crescere, ti mette in contatto con il mistero della vita. 

Mi son stancato della sofferenza intorno a me e di non poterci fare niente. 
Non ho scelto io di nascere, reietto. 
Non so dire per quanto ho vissuto esattamente, ma è decisamente troppo.

Questo sicuramente mi rende meno umano.

Le sfumature della mia genitrice si leggono attraverso i miei occhi.
Anch'essi annegati ma in un profondo stato di inadeguatezza: dipinti dalla sola tonalità dell'azzurro, che son riuscito a rubare dai suoi policròici occhi, ché sfumano dal viola al blu oltremare. 
Si son colorati proprio del colore del freddo, perché, in fondo, era già previsto che la mia vita sarebbe stata rigida come l'inverno. 

Eppure, il fato ha voluto ch'io fossi circondato dal fuoco, in questa terra di lava e male. 

Non ho mai conosciuto l'amore, è un inserto vuoto nella mia esistenza. 
Non ho mai conosciuto la vita, tuttavia sono l'unico a possederne veramente una, in questo luogo. 
La luce non mi ha mai attraversato e solo il buio pesa e mi opprime. 
Vivo nella mediocrità, nonostante sia Principe di questo inferno. 

Gli umani narrano la storia dell'uomo nero ai propri bambini per incutergli timore sperando nella loro obbedienza. 
Io l'ho avuto per padre. 

Gli umani hanno paura dei brutti sogni, io trovavo rifugio in quelli, perché da sveglio è stato sempre nettamente peggio.  Perché mi hanno insegnato che di essi ci si deve nutrire; ho imparato a viverli e, da più grande, a provocarli, capendo ch'essi sono ciò che mi definiscono: un Incubo.

Son cresciuto orfano, nonostante entrambi i miei genitori fossero in vita. 

Non ho mai saputo molto su mia madre, se non che fosse la troia  - come apostrofa sempre - che ci aveva rinchiusi a Kalennorath, rendendoci schiavi di noi stessi in un luogo che rappresentava la dannazione eterna; queste erano le uniche informazioni che potei ricavare dal Sommo. 

Non ho mai potuto chiamarlo padre, lui era il Sommo, il Capo, il Sovrano. Dopo tutto, non l'ho neppure mai sentito come tale, se non quando lui si diverte a chiamarmi figlio  più per sottolineare una sua proprietà che per un qualsiasivoglia sentimento.

L'unica volta che mi permisi di fare appello alla sua paternità fui inchiodato al muro; letteralmente, con due enormi chiodi per mano, ero solo un bambino.

Crebbi con Magoa, una Succube molto più umana di quanto ci si potrebbe aspettare.
Ella mi fece da balia.
Mi accudiva, mi nutriva, mi cresceva, mi difendeva. 
Spesso subiva al mio posto le ire del Sommo che s'infastidiva anche solo della mia presenza; senza mai lamentarsene. 
Una volta fu rinchiusa per settimane nelle celle del castello, avendo per cibo gli scarti del segugio diabolico del Sommo. 
La notte le portavo qualcosa: resti di stinchi, carni varie; ma sapevo che, come tutte le Succubi, avesse bisogno di un nutrimento differente per vivere. Era così debole...

Così, un giorno, decisi di uscire dal castello, cosa che per me era severamente vietata. 
Percorsi una strada che parve infinita, irta e piena di appuntite rocce, che ne faceva da sentiero per arrivare alla reggia. 
Attraversai il primo portale che incontrai e mi ritrovai tra le vaste pietre rubine contenute dai salici tipici della zona: Chrysocoma. 

Quel luogo mi lasciò estasiato. 
L'odore nell'aria non sapeva di zolfo, ma di note olfattive che pizzicavano il mio piccolo naso, fresche e a me sconosciute.  Crescendo capii che fosse il profumo della natura. 
Il bicolore rosso-nero a cui ero abituato, qui era sostituito da una valanga di colori ben più tenui. 
Ogni pianta era una pennellata differente di colore.
Il cielo, i rami degli alberi, ospitavano rapaci variopinti, era la prima volta che ne vedessi tanti tutti assieme.  Sin ora avevo avuto modo di mirarne solo uno nel castello, lo Jinwo dorato del Sommo che gracchiava al suo orecchio tutto ciò che apprendeva durante i suoi voli per Kalennorath. Era sicuramente la sua spia personale.

La parte che mi incantò fu l'enorme cristallo avvolto dalla corteccia di un gigantesco albero che poggiava su un limpido lago. 
Irradiava una luce così immensa da alimentare tutte quei cristalli più piccoli, contenuti negli altri tronchi tutt'intorno. 

Non avevo mai visto nulla del genere. 

— Ciao piccolino, tu devi essere il Principe Maraud, non è così? — un enorme Incubo pelato, ricolmo di piccole corna ovunque, esordì facendomi trasalire.  Non dovevo essere scoperto. 

—Sì. — Affermai con voce tremante. 

— Il mio nome è Vorsah.
Stai guardando le Taurehon? Belle vero? Hai fame?

— Fame? — dissi non capendo dove volesse andare a parare. 

Vorsah scoppiò in una sonora risata scoprendo che non avessi idea di cosa fossero quelle grosse gemme verdi e rosse, contenute negli alberi. 
Fu grazie a lui che scoprii che esse servivano da catalizzatore, in grado di sfamare le creature del luogo: le rosse destinate a esseri come le Succubi e gli Incubi, le verdi per la flora. 
Mi insegnò a prelevare il nutrimento, a custodirlo dentro di me e mi spiegò che potevo anche donarlo ad altri miei simili. 

Quella notizia fece brillare i miei occhietti di gioia. Potevo portarlo a Magoa, così non sarebbe morta per la fame. 

Non appena appresi la notizia, volli subito andarmene per raggiungere la mia amica. 
Sfortunatamente, mi imbattei in un decatonchiro, una guardia del Sommo. 
Quello, non appena mi vide, storse il naso; non dovevo trovarmi là. 
Cercò di afferrarmi e io iniziai a scappare. 

Vorsah, mirando la scena, decise di intervenire per aiutarmi a guadagnare tempo. 
Bloccò il gigante, essendo lui stesso un Incubo dalle fattezze enormi e muscolose, facendolo rovinare per terra.

Quella fu l'inizio di un interminabile amicizia, tra me e Vorsah. 

Quando tornai al castello, sgattaiolai lesto nelle prigioni.

Le conseguenze del mio gesto furono tremende. 
Quando il Sommo lo venne a scoprire, per punirmi di essere scappato e di aver interferito con la sua volontà, mi sottopose a innumerevoli supplizi. 
Venni frustrato a sangue, ogni giorno per un'ora di seguito e, benché le mie ferite si risanassero presto, per farmi sentire un dolore costante, nelle restanti ore venivo legato, mani e piedi, sulla tavola dove delle funi tiravano sempre più, col passare delle ore, fino a slogarmi le articolazioni. 

Per poi farmi rigenerare e ricominciare da capo. 

Ero solo un bambino. 
Ero Suo figlio. 
Ma questo non cambiò il trattamento. 

Eppure, vedere il sorriso di quella Succube dal colore violaceo, che mi aveva fatto da madre e da amica, rinvigorirsi, non mi fece mai pentire di come agii, seppur fui torturato in quella maniera per tre giorni filati. 

L'aspetto di lei è sempre rimasto giovane, fermo alla stessa età. 

D'altronde, solo io, nato da un'umana divenuta Rovhtàri e dal primo Incubo, primo cucciolo di Incubo, ero capace di crescere. 
Non ne esistevano altri, poiché gli Incubi e le Succubi non potevano procreare, dare la vita.  Loro stessi nascevano dalla morte, trasformati mediante l'Ennon o da un morbo diabolico che li rendesse tali.  Tutti avevano avuto origine dal Sommo che, una volta divenuto un demone così abietto e potente, decise di volersi creare il suo esercito, il suo popolo di servi. 

Io ero l'eccezione. 
Il reietto. 
Lo scarto che venne recluso a Kalennorath per una colpa non sua. 
Essere nato per metà demone. 

☽𓆩♛𓆪☾

Due chiacchere con Moon:

Anime belle,
rieccoci. 
Buon 2024!

Beh, per chi fosse nuovo, benvenuto!

Il testo rappresenta il sequel di Rovhtàri e la dimora delle ombre. 
C'eravamo lasciati un po' con l'amaro in bocca, forse? 
Adesso son pronta a farmi perdonare. 
Questo prologo ci introduce ( e, per chi non fosse nuovo, ci approfondisce) uno dei personaggi più amati o odiati (direi incompresi) del primo volume. Avete capito di chi si tratta? Certo che sì. 
Il tenebroso Maraud.
Non dico nient'altro su questo personaggio, poiché sia per i nuovi e per i vecchi si avrà modo di approfindirlo meglio. 

A tutti auguro una buona lettura e porgo i miei ringraziamenti (sì comincio presto a farlo) per esservi approcciati al testo.
Spero possa piacervi e che io possa trascinarvi assieme a "noi" fino alla fine del racconto.

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