III
Come pioggia dal cielo, il senso di colpa permea la mia mente.
Non riesco a guardare Aeglos senza sentire mio, il dolore fisico che aveva provato.
Ero venuto a sapere ciò che gli era toccato in sorte durante il castigo inflittogli dal Sommo, a causa del mio tradimento.
Finire tra le grinfie del Popobawa e non aver modo di difendersi è una sofferenza che non augurerei a nessuno. Spero fortemente che quell'atto di abuso si sia replicato una volta soltanto; poiché già quella singola avrebbe avuto una permanenza fisica e mentale nell'animo di Aeglos irresolubile.
Non ero bravo a porre le scuse, non ero capace di esprimere al meglio le mie emozioni; nessuno mi aveva mai spiegato come comprenderle, interagirvi, stilarle o tanto meno esporle.
Ragruppai il mio dispiacere concentrandolo tutto in uno sguardo che gli rivolsi e ad Aeglos guizzò un luccichio nel suo.
Egli non sembrava serbarmi rancore, eppure, non riuscivo a guardarlo senza pensare che nulla fosse risolto tra di noi. Ciò che vedevo nella sua persona era il mio errore.
Sarei mai riuscito a perdonarmi?
Aeglos mi si avvicinò. Fu più coraggioso di quanto non fui io.
Mi mise una mano sulla spalla.
Alzò lo sguardo e mi guardò dritto negli occhi, il suo verde si mischiò al mio azzurro e uno sguardo acquamarina colorò quello scambio.
— So perché lo hai fatto. Ho anch'io le mie colpe. Ho tradito il nostro patto, nessuno dei due avrebbe dovuto più provarci con lei, ma è stato più forte di me capisci? Io la volevo tanto, desideravo tutto di lei e... Quando l'ho vista uscire dall'acqua e venire in quella forma bagnata verso di me, quando preoccupata mi si è seduta accanto e ho sentito il suo profumo, io... non ho più pensato, ho solamente agito. Volevo averla mia. Non c'è altro. Mi dispiace.
Dispiace più a me. Avrei voluto dire, ma le parole mi morivano in bocca.
— Ho cercato subito dopo di riparare. Le ho detto che le ho fatto la malia, sperando che questo mi avrebbe fatto odiare.
— Tu... — sapevo benissimo che l'avesse usata.
Vedere Heloise cadere nell'incantesimo del suo inganno, mi fece perdere la testa. Non avrei mai voluto permettere che qualcuno le facesse del male. Che abusasse di lei.
Inverosimilmente, prendendomela d'istinto con Aeglos, non mi fu chiaro subito che avrei potuto fare del male in maniera indiretta anche a lei, chè teneva a lui.
— Sì — chinò il capo argenteo, conscio di aver fatto una cosa orribile.
Gli Incubi sanno ammaliare, hanno un potere che viene usato sulle proprie vittime per tenerle tranquille, completamente in balìa di sé, in quell'attimo reso idilliaco che maschera la morte.
Quello che Aeglos aveva fatto a Heloise, era un inganno. Non l'aveva lasciata libera di voler lui, di abbandonarsi ai suoi sentimenti. Cosa c'è di più meschino di privare una creatura del proprio arbitrio?
Eppure, io non so quante volte mi fossi servito di un espediente simile.
Quel pensiero tagliò di netto il mio respiro.
Mi ero sempre approfittato di esser stato il moina di Heloise, avendola trasformata lei era totalmente devota a me.
Le avevo donato a forza io il veleno che le avrebbe mutato il DNA in quello di Succube uccidendo la sua umanità, che calò direttamente dalla mia alla sua bocca; lei fu, da quel momento, asservita a me.
E se... se lei in realtà fosse ancora governata da quel legame?
Quel pensiero mi fece male.
È questa dunque la tristezza? La paura? Non sapevo cosa stessi provando: ubriaco di sensazioni.
So che io sono quello al buio e lei quella al sole, nonostante i nostri simboli fossero idealmente intercambiati alla nostra posizione.
Ero colpevole.
Con lei.
Con lui.
La mente fu trafitta nuovamente da un secondo pensiero.
— La prima volta che provasti a farlo con lei, la ricordi?
Aeglos alzò il capo e una luce nuova investì il suo sguardo, capì immediatamente cosa volessi dire, cosa stessi insinuando.
La prima volta che lui la incontrò, sempre per dimostrare a sé stesso ch'era in grado di farlo, la mise alla prova con la malia.
— Lei resistette. Cosa ti fa credere che quella volta non avrebbe potuto rifarlo?
Non volevo una risposta, non da lui. Era chiaro. Heloise aveva voluto abbandonarsi tra le braccia di Aeglos quella sera, se avesse voluto sapeva come resistere a quel potere. Lo aveva dimostrato fin da subito, da quando non sapeva neppure cosa fosse.
Non c'era filtraggio a quel dolore.
Aeglos mi guardava, mantenendo il silenzio colmo di comprensione.
— Mi dispiace.
Non avrei dovuto farlo, non con lei. Non con la ragazza su cui hai vegliato tutta la vita. Non con la ragazza di cui indubbiamente sei...
— No... Non devi scusarti — Aeglos mi interruppe: — Dimostrazione. Volevo dimostrarti che non sono meno di te.
— Lo so — Risposi secco.
La nostra amicizia eguagliava la nostra rivalità. Da sempre l'uno voleva prevalere sull'altro, questo ci rendeva un duo formidabile: per quanto ci mettessimo contro e a dura prova, l'uno nei confronti dell'altro, trovavamo altrettanti modi per collaborare e venirci incontro, fortificandoci.
— Non lo sei — stavolta fui io a poggiare la mia mano sulle forti spalle di lui. — Ho reagito in maniera sconsiderata con te quella notte. Ti ho denunciato io al Sommo e lui...
Non potevo perdonarmi, non potevo accettare le conseguenze della mia gelosia, della mia possessiva smania di controllo su Heloise e l'istinto di proteggerla a costo di esagerare.
Non meritavo comprensione.
Non meritavo alcuna redenzione né da Hel, né tanto meno da Aeglos.
Non mi sarei mai perdonato.
— Basta. Non so se Aeglos lo disse per non rivangare tutto ciò che dovette sopportare come conseguenza di quel mio gesto o semplicemente per chiudere lì quel discorso ormai fin troppo avviato — Basta così.
Non mi fece dire la parola scusa, ma mi afferrò la mano e la strinse a pugno verso di sé; quello era il nostro modo di perdonarci, da sempre. Quel semplice gesto sostituì una volta e per tutte quella parola che flebile rimase sospesa per aria, non detta.
In quel momento ci raggiunsero tutti quanti. Vidi Heloise puntare verso me.
I miei pugni si contrassero.
— Sono felice che vi siate riconciliati — sussurrò al mio orecchio nascondendosi dagli altri presenti.
***
C'era un bel po' da sistemare.
Il Palazzo aveva ospitato una violenta battaglia; c'erano tanti morti da portar via, le macerie da ripulire e... troppi punti da chiarire. In mezzo tutto quel caos, non riuscivo a non sentir altro che un suono ovattato isolarmi da tutto.
La mia mente era occupata da un solo insistente pensiero: la paura che la splendida Succube che mi stava di fronte e che disquisiva delle scelte che la sua carica esigeva, non mi avesse mai scelto, che fossi io a volerla, io a costringerla.
Attorno a me nulla aveva senso, ogni cosa era sfocata, priva di forma, colore, spessore.
Non so dire cosa avessi dentro.
Non era rabbia, eppure mi infiammava dentro, sempre più abrasiva.
Paura.
Due pupille violacee cercarono i miei azzurri.
Forse lei aveva già capito, perché mi rivolse un sorriso carico d'amore.
Andò verso il balcone.
La seguii.
Bella come la primavera.
Delicata come il bagliore lunare.
La sua vicinanza mi scaldava il cuore, nonostante il suo abbandono, nonostante tutto. Quella era e sarebbe sempre stata mia madre.
— La senti questa calma?
Non avvertivo calma, il mio essere era destinato al tormento, sempre.
I miei muscoli rimanevano tesi, il mio corpo irrigidito, il mio animo angustiato.
— Concentrati su quello che abbiamo ottenuto oggi. Finalmente tuo padre è stato catturato. La sua corona è stata deposta. Il popolo è libero, o quasi. Tu sei libero, figlio mio.
Quelle due parole arrivarono come carezze dritte dentro me, quasi sembravano indossare seta.
Il suo tocco fu come una goccia di delicatezza che colmò il mio vuoto di sensazioni nuove.
Mi regalò un'espressione contenta.
Quel sorriso lo sentii scorrere tra le mie dita, potei afferrarlo, custodirlo.
— So bene cosa vorresti che io ti dicessi. Lo vedo, nei tuoi occhi, desiderosi di una risposta — guardò il cielo immobile di Kalennorath per poi rivolgermi il suo sguardo capace di sciogliere l'inverno.
— Non volevo. Non ti avrei mai abbandonato — quella voce tinta di dolcezza mutò nel grido muto di un dolore immenso. — Ti hanno strappato via dalle mie braccia, ti tenevo forte, stretto a me; hanno lacerato il mio cuore, sbrandellando la mia essenza di madre. Ti hanno portato via da me, mi hanno tolto il mio bambino.
— Bambino? Ero... Sono un mostro.
— Mostro? No... No. Tu non lo sei, sei il mio meraviglioso bambino.
Nessuna madre può considerare il frutto del suo grembo un mostro. Sei cresciuto credendo di essere un errore. Tu non hai mai avuto colpe. Ti hanno confinato qui, come reietto, come se fossi sbagliato, ma non avevi colpe, eri solo un bambino. Nostro figlio. È questo che hai dovuto pagare.
Mi abbracciò.
I miei occhi si accesero in quella nera malinconia.
Per un momento, l'immobilità si era avvinghiata al mio corpo. Poi, per la prima volta, avvolto tra il tutto e l'oblio, mi sentii in pace. Come inginocchiato alla vita che finalmente mi concedeva l'amore che avevo sempre desiderato.
Innalzato a una emozione nuova, calda, dolce.
"Pagai il prezzo di essere loro figlio", tutto il mio dolore era legato a lui, un padre che aveva questa nomea, ma che di fatto non lo era mai stato.
Appresi che le Thalion, non appena presero la decisione di mettere un freno alle milioni di uccisioni che la Terra stava subendo a causa del Sommo e di tutti coloro che aveva trasformato, scoprendo la mia natura per metà umana e per metà demoniaca, concordarono sul fatto che per questo meritassi di essere confinato a Kalennorath come tutti gli altri.
Fu allora che mi portarono via dalle amorevoli cure di mia madre. Non solo le levarono il figlio appena nato, ma la usarono come sigillo per rinchiudermi qua.
Dopo tutto ero in grado di fare lo stesso male ch'erano in grado di fare tutti gli altri miei simili.
Potevo sentire mie le lacrime che scendevano sul suo viso; rimproverava sé stessa, la sua mancanza come figura genitoriale.
Capivo ch'ella si rimproverava del fatto che avrebbe potuto crescermi senza tutto quell'odio, che credeva fortemente che si sarebbe sviluppata più la mia umanità se fossi vissuto tutto quel tempo assieme a lei.
La mia mente provò un gusto nuovo: il perdono.
Non potevo serbarle rancore, dopo tutto era stata una vittima anche lei.
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Due chiacchere con Moon:
Aeglos ha trovato la forza di perdonare Maraud per averlo denunciato al Sommo, forse per perdonarsi del fatto che ha pensato di aver violentato Hel: donare perdono per trovare pace.
Maraud non riuscirà mai a perdonare sé stesso per quello che gli ha fatto e forse, non riusciremo neppure noi a farlo mai veramente.
Carol è stata una madre assente, allontanata dal figlio che ha dovuto "condannare" per conseguire i suoi doveri. Maraud, ha scoperto che il perdono è più facile concederlo agli altri, che a sé stessi.
Si conclude così questo capitolo dove la parola perdono fa da padrona.
Cose ne pensate voi?
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