XXXIV - Terza Parte
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La tormentata serata era giunta al suo termine, dopo aver subito le ripetute infiltrazioni corporali del Sommo, che mi avevano fatto desiderare finanche la mia fulminea morte pur di porre fine a quello straziante rapporto sessuale indesiderato, finalmente, sdraiata sul letto, piangevo nelle mie vesti umane che esponevano i lividi spuntatimi per via delle brutali percosse sulle mie carni delicate; i graffi subiti per il piacere sadico di un demone che si divertiva a penetrarmi con irruenza godendo di quel lussurioso atto e, contestualmente, dell’ agonia provata per via di tutte le sue gesta violente.
Indolenzita, mi sentivo profanata della mia essenza e lercia, restavo con sguardo fisso a mirare il soffitto che mi ricordava la solitudine in un mondo a cui non volevo prender parte. Se questo avrebbe dovuto essere il mio modus vivendi, tanto valeva sopperire all’istante.
Giorno e notte si distinguono solo dai ritmi delle azioni degli abitanti di quel regno. Lo scorrere delle ore batte solo un tempo: lento.
Lotto per abbattere quel pensiero fisso e non riesco, perché sono allo strenuo delle forze. Non sono sicura di poter fronteggiare una sola notte in più, resto a soffocare il dolore nei singhiozzi. Ho più speranza che la felicità filtri ancora nelle mie vene? O mi appiglio all’augurio di restare completamente vuota da ogni ricordo e ritrovare la pace?
Un'imperiale tristezza mi mette in ginocchio.
Fa male spegnere il sorriso, chiudere gli occhi e serrare le labbra.
Sporca, sudicia… nessuna spugna potrà mai lavare via questo dolore.
Da un infervorante atto passato tra le braccia di Aeglos, questo, violento e abusante, era la mia personale punizione.
Sentii schiudersi la porta, sarei voluta restare sola con la mia vergogna e con le mie lacrime che bruciavano come carboni ardenti, scivolando sommessamente dai miei occhi privi di ogni barlume di vita.
Era la mia ancella, che attese dalla sua sovrana il permesso di entrare.
– Magoa, oh Magoa, ti prego, siedi accanto a me.
Quella, impacciata, mi sedette accanto, in punta al letto, come se le sembrasse inappropriato poggiare il suo corpo nello stesso letto in cui stava sdraiato quello regale della sua padrona.
– Ho bisogno di un altro bagno, Magoa, ti prego, potresti prepararmelo?
Silenziosamente, si mise subito all’opera e non appena concluse, con delicatezza rientrò nella camera e mi suggerì di approfittare del tepore delle acque, per riscaldare le mie spoglie.
– Magoa, posso parlare con te? Confidarmi come un’amica? Posso fidarmi e contare sul fatto che non una sola parola sarà mai riferita a nessun altro?
– Mia Signora, sono qui a sua disposizione e ogni sua richiesta sarà sempre accolta da me con obbedienza.
– Non voglio che tu mi obbedisca, non voglio che tu sia mia schiava, voglio che tu sia mia amica, non ho intenzione di trattarti come una serva.
Gli occhi della piccola succube si meravigliarono di tanta dolcezza. Nessuno, prima di allora, aveva mai parlato con lei come un suo pari, nessuno mai l’aveva fatta sentire diversamente da quello che era: una schiava.
– Perché sono qua? Tu di certo saprai perché son stata strappata alla mia vita e condotta in questo mondo tremendo.
– Io non potrei… – rimase impietrita a quella domanda tanto da sbiancare nel volto.
– Ti prego Magoa – nuove lacrime discesero il mio viso – ho bisogno che qualcuno mi dica qualcosa, non posso vivere un’esistenza tanto vile senza neppure sapere il perché… te ne prego.
– Mia Signora, se ve lo dicessi, e il Sommo lo venisse a sapere, io…
– Non voglio metterti in pericolo, se non puoi parlare, non ti forzerò, ma almeno potresti asserire o negare con un solo gesto della tua testa alle mie domande? Se sono io che deduco le cose, tu non ne avrai alcuna colpa. Ci stai?
– Sì, mia Signora, chieda pure.
–So più cose di quello che ci si aspetti. Ad esempio, so di essere stata strappata a un altro regno che avrei dovuto governare, è vero? – la succube fu colta da un’espressione di stupore, poi fece di sì col capo. – E sono stata portata qui, invece, per impedire il compiersi del mio dovere, ovvero sigillarvi nuovamente tutti a Kalennorath come prigionieri – ancora una volta quella reclinò il capo, annuendo.
– Ho modo di adempiere, anche ora che sono la vostra sovrana e sono una Succube, il mio vero destino? – la fanciulla a quel puntò attese un po’ per rispondere, fece per pensarci e rispose ancora affermativamente, seppur con un po’ d'incertezza.
– Non ho modo di scoprire come, se qualcuno non me lo dice, e non penso che nessuno qui sia disposto a farlo o segnerei
una triste sorte per tutti voi… quello che vorrei sapere è perché siete stati confinati qui; tu, per esempio, non mi sembri malvagia… io ho visto cose… pensavo che foste degli essere malvagi senza speranza di redenzione, invece scopro che avete sentimenti e inclinazioni buone, in modo strano, ma buone. Perché dunque patire ciò? Tu non puoi dirmi nulla? – stavolta ella scosse la testa negativamente.
Tornò il silenzio, mentre mi godevo le acque calde che in qualche modo mi pulivano da quello sporco immaginario che sentivo appiccicato addosso. Riflettevo in silenzio, fin quando non mi venne in mente che forse avrei potuto contare su qualcuno, una persona soltanto, ma prima avrei dovuto liberarla.
– Puoi condurmi nelle prigioni?
– Cosa? Non è un bel posto, ve lo assicuro, e non sapete cosa rischiate andando lì sotto.
–Cosa ho da rischiare? Se resto senza far nulla, dovrò patire una sorte ancor peggiore, sopportando tutti i soprusi di quel manipolatore viscido. E poi, sono o no la Regina? Chi oserà toccarmi sapendo cosa lo aspetterebbe? Non penso che il Sommo gradirebbe che qualcuno oltraggiasse qualcosa che è di sua proprietà.
– Perché volete essere condotta là?
–Per Aeglos. Devo andare a liberarlo – glielo devo, è colpa mia se si trova rinchiuso, non posso permettere che gli venga fatto del male, pensai, è l’unico che mi possa aiutare.
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Il piccolo elfapiro non riusciva a stare fermo un momento e, con i suoi passetti, saltellava avanti e indietro e girava attorno a Kimberly impedendole di camminare in linea retta senza rischiare d'inciampare; di certo con i suoi modi carini rallegrava le circostanze.
– Dovremmo medicare le tue ferite, non vorrei ti s'infettassero.
– Non è niente di grave, posso cavarmela – rispose lei contraendo il suo viso in una leggera smorfia di dolore.
– Qui abbiamo una soluzione molto efficace, un unguento, ma non è adatto agli esseri umani, forse patiresti più di quanto riusciresti a guarire, magari possiamo disinfettarti e bendarti il busto, giusto per stare più sereni. La prossima torre è abbastanza lontana da qui e raggiungendola a piedi potremmo incorrere in qualche spiacevole incontro.
Nulla che tu non possa gestire, immagino… qui tutti sembrano avere timore di te; pensò lei tra sé e sé.
– Ho un’amica fidata qui a Chrysocoma, dovremmo cercarla, ci sarà utile in più di un modo. Restami accanto e muoviti come se fossi mia prigioniera, in questo modo non desteremo sospetti.
Così dicendo, Maraud legò un laccio attorno ai suoi polsi, abbastanza stretto da sembrare un guinzaglio, ma non troppo da farle male. Quella se lo lasciò fare senza lamentarsi; stessa sorte toccò al baku, che fu legato al collo come se fosse un animaletto da compagnia al quale si stava facendo fare la sua passeggiata quotidiana. Nonostante il guinzaglio, mantenne vivo il suo animo felice e tenero.
Tra le lande di quella terra, circondata da meravigliose sfumature azzurrine, Kimberly osservava e prendeva nota di ogni dettaglio. Quel luogo era incantevole, una volta a casa, semmai vi fosse potuta tornare, avrebbe dovuto immortalarlo in uno dei suoi dipinti.
Il cuore di quella foresta, sommersa da tutti quei salici, dava l’impressione di camminare in mezzo a tendaggi che cadevano come cascate fatate, con la parvenza di essere in uno di quei film fantasy, circondata da abitanti altrettanto carichi di magia. Quel luogo infatti pullulava di bellissimi esseri umanoidi, gli Incubi e le Succubi. Il loro fascino suscitava una meraviglia tale da sentirti come calamitato verso un abbagliante fascio di luce che intrappola ogni tuo pensiero facendoti abbandonare a quell’unico senso di stupore.
Le donne presentavano tutte dei lineamenti aggraziati, dalle mascelle snelle e spigolose, con occhi grandi e fascinosi, dai colori più ipnotici e insoliti; non meno attraenti erano i loro corpi, scolpiti di grazie femminili perfette, capaci di disarmare lo sguardo di chiunque stesse a mirarle. Gli uomini sprigionavano subito un senso di forza risoluta, suggerita forse dai loro corpi ricolmi di muscoli; anch’essi richiamavano a sé ogni attenzione, poiché elargivano un'innaturale bellezza. Tutti, nonostante alcuni tratti fossero assai particolari, in quanto molti di essi possedevano corna dalle forme più bizzarre, occhi magnetici e coloratissimi, pelli di ogni tinta, vivevano consapevoli del loro aspetto sublime con noncuranza.
Pensare che un tempo, forse non lontano, molti di quelli erano stati esseri umani, che avevano lasciato un corpo per adottarne uno notevolmente più bello e immortale.
Chissà se, avendone la possibilità, non avrei fatto seriamente pensiero di acconsentire a una mia trasformazione in una creatura di bellezza e forza maggiore come quella - chiacchierava segretamente Kimberly nella sua testa.
Una donna, dal corpo snello e slanciato, che per via della sua pelle rosea conservava un aspetto assai umano, con movenze allegre e sciolte, balzò dinanzi a quelli e s'inchinò con fare teatrale sollevando la sua gamba destra a mezz’aria.
– Onorevole Maraud, che piacevole sorpresa trovarla qui.
Quella, dall’aria giocosa e furba, aveva dei tratti fanciulleschi denotati dal suo viso piccolo e rotondo, che veniva esaltato maggiormente dalla sua capigliatura che portava corta e sbarazzina e dai colori zecchini, mostrando un paio di orecchie a punta quasi fossero elfiche, cinte da due corna che rigiravano su se stesse come chiocciole. Anche il suo sguardo era assai vivace, i suoi occhi lilla erano circondati da uno spesso strato di ciglia assai lunghe, motivo per cui il suo naso, già da sé piccolo e puntuto, era maggiormente nascosto e le sue labbra carnose adornavano una bocca altrettanto piccola.
Gracel, stavo proprio cercando te.
– Oh, che fortuita circostanza. Cosa posso fare per voi? – mettendosi le braccia incrociate dietro la schiena, si abbassò in direzione di Maraud esponendo l’orecchio, in attesa che quello parlasse.
– Non qui, mia cara Gracel, andiamo in un luogo più… appropriato – e con "appropriato" intendeva più isolato, decisamente più isolato, dato che ogni singolo sguardo si posava su di loro suscitando tanta curiosità per quell'insolita visita.
Camminarono per diversi metri, costeggiando il grande albero centrale che aveva visto subito non appena arrivata lì con Fabien, per poi trovarsene dinanzi uno di dimensioni assai più piccole; quindi, come nelle favole, la Succube si addentrò nella corteccia dell’albero e loro di seguito.
Meraviglioso, quel posto era veramente magico, poiché presentava un locale moderatamente grande, ma sicuramente fin troppo per essere contenuto dentro il tronco di un albero. Le pareti legnose e chiare non avevano alcuna fessura che dava all’esterno, se non la porta da cui erano entrati. I mobili erano assai colorati e dalle forme più strane, rispecchiavano a pieno la personalità della padrona di casa. Quella lo incitò subito a sedersi, e portò una tazzina in ceramica a forma di ghianda ricolma di un succo color porpora, servendolo con frutta secca e strani pasticcini: – Oh, ma questi forse non sono di vostro gradimento, roba da umani. Il sangue invece è fresco di giornata, apparteneva a una Pizzie, assai fastidiosa a dire il vero. Prego, non fate complimenti.
– Ti ringrazio Gracel. Veniamo a noi.
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