XXXII - Parte II
Come aurora boreale che leggiadra si specchia in una tela scura risplendendo di luminosi colori gassosi che si mescolano in sfumature di tonalità abissali, quel cielo irreale circondava ogni cosa, posandosi soffice sulle foglie pendenti d’innumerevoli salici piangenti che, come tende, si protendevano su quel suolo che ne faceva da letto.
Un albero soltanto faceva da soggetto primario in quello scenario boscoso, per via della sua memorabile grandezza e, da questo, fiumiciattoli di acque cristalline si riversavano su di un letto d’acqua smeraldo circondandolo, creando tutt’intorno un avvallamento che lo isolava in una magnifica isoletta di terra bruna.
Strani uccelli dalle piume dorate solcavano quel cielo fantastico e giganteschi becchi rossi e lunghi, quasi fossero imparentati con le cicogne, gracchiavano sonoramente mentre questi si muovevano in stormi d’innumerevoli soggetti.
Come un tal posto potesse fare da radura ad abitanti tanto abbietti, rimaneva uno dei tanti inspiegabili interrogativi racchiusi in quel mondo.
Eppure, il loro aspetto era incantevole: due figure, quasi umane, si cingevano in un dolce abbraccio e le loro appassionate mani si posavano reciprocamente le une sul volto dell’altro. Quegli esseri descritti in maniera tanto malevola, sembravano convivere tra loro pacificamente e felici come un popolo che unito albergava in quelle terre incantate.
Alcuni si arrampicavano in quegli alberi depredando ogni vivente che vi si nascondeva; altri nuotavano in quello smeraldo lago, cacciandosi le prede da mangiare. Lo scenario diveniva terrificante non appena i loro affilati artigli sventravano quelle bestie che tanto ricordavano pesci dalle sembianze anfibie, divorandole con ferocia si beavano del sangue e degli organi vitali che recidevano dai loro piccoli corpi. Non solo, ma se si zoomava lo sguardo, quella parvenza fiabesca data da quelle piccole cascate d’acqua si eclissava in una spaventosa visione: scorrevano impetuose anime tristi che agonizzanti esprimevano il loro desiderio d’esser lasciate riposare in pace anziché incorrere in quel moto perpetuo che, amplificando le loro sofferte sorti, dissetava le riluttanti abitudini di quelle creature demoniache mascherate in angeli.
– Siamo giunti dove volevamo, questa dev’essere Chrysocoma.
– Non so se sentirmi sollevato o scoraggiato. – Sospirò Fabien, guardandosi attentamente attorno.
– Dobbiamo fare attenzione e cercare Hel, sperando sia riconoscibile – l’altro assentì col capo.
Avanzarono lentamente, lasciandosi alle spalle il maestoso specchio d’energia dal quale erano sbucati fuori. Camminavano il più silenziosamente possibile, sfruttando le zone d’ombra e gli alti arbusti che s’innalzavano da quel suolo a macchia.
Sapevano che sarebbe stato difficile e oltretutto folle, ma dovevano arrivare a quel meraviglioso e allo stesso tempo diabolico albero centrale, sembrava un fusto di grande importanza, dal quale valeva la pena cominciare a ricercare.
Trattenevano quanto più potessero il fiato, cercando di fare meno rumore possibile; anche l’elfapiro sembrava capire che in quel posto pericoloso sarebbe stato meglio muoversi con estenuante cautela.
Un forte rumore di passi li avvertì giusto in tempo per trovare riparo entro le chiome di un irto cespuglio. Un essere disgustoso scorrazzò loro davanti tenendo tra le grinfie un pezzo di carne putrido già largamente rosicchiato, sembrava un ghoul: dall’ossuta struttura ricoperta da un bavoso tessuto parietale che come membrana sierosa lo ricopriva interrompendosi da squame che fuoriuscivano dalle sue spalle e dalla peluria attaccata solamente attorno al suo viso scheletrico come una sottile barba canuta.
Kimberly trattenne a stento un urlo e nel farlo iniziò ansiosamente a respirare. Quella creatura putrida si arrestò di colpo, girandosi nella loro direzione, i due ragazzi sussultarono, poi, qualcosa scacciò quell’essere facendogli tirare un sospiro di sollievo, prima di rendersi conto che quel qualcosa era alle loro spalle. Alla sua vista, Kimberly, divenne paonazza.
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Ai piedi di una rocciosa altura spigolosa, circondata dal ribollire di incandescente lava, si ergeva un maestoso palazzo che col suo aspetto gotico, spettrale e funesto, introduceva chi vi doveva abitare.
Lì, tra le braccia del possente Decatonchiro, fummo condotti io e Aeglos.
Nel colossale trono, circondato da imponenti statue che rappresentavano due ali demoniache, una figura sedeva ammantata di nero.
- Mia Diletta, finalmente. Ho atteso da lungo tempo di avervi qui al mio cospetto.
Reigio, poggiala immediatamente per terra, non possiamo trattare così la nostra ospite d’onore e anzi inchinati alla Sua presenza, impertinente di uno stupido bestione. Quanto all’altro, sbattilo nelle segrete per il momento, di lui mi occuperò dopo. – Il gigante obbedì all’istante, poggiandomi per terra, vi rimase anch’egli con un ginocchio poggiato sul pavimento scuro e uno più sollevato, chinò il pelato capo in segno di riverenza verso di me, che spaventata mi ritrovai finalmente a faccia a faccia con il tanto parlato Sommo.
– Fatevi ammirare, mia splendida creatura. Non potevo immaginarvi più bella – elargì, issandosi dal suo seggio regale, muovendosi sontuosamente, reso ancora più evidente per via delle lunghe vesti che indossava. Mi tese la mano, che non potei far a meno di afferrare, era affilata e longilinea e per niente umana, fredda come la morte. Il suo sguardo infuocato, dannato più del mio, lo rendeva ancora più minaccioso nel volto caprino. Due corna nere arietali ne occupavano quasi tutto il capo e lunghi e sontuosi capelli neri erano raccolti in un’estesa treccia, appuntata dalla corona, altrettanto nera, che vistosa risiedeva su quello.
Due incubi dal corpo molto massiccio, uno cornuto, l’altro invece no, stavano immobili, con gli sguardi fissi, uno di fronte l’altro ai lati del trono e tenevano eretta una grossa lancia appuntita tra le mani. Urlò a questi, con voce sonante: – Presto! Portate il regale seggio alla Vostra Signora!
Quelli si mossero e velocemente tornarono con un trono, ben più piccolo di quello che poggiava sul piano al di sopra di tre grossi gradini, e ben meno minaccioso: ocra, dallo schienale imbottito da eleganti stoffe borgogna, con dei pomelli rotondi largamente vistosi sui quali poggiavano due corvi, uno per lato. Fui invitata a sedervi.
– Vi è stato detto il motivo per cui vi trovate qui immagino, se quei dannati hanno avuto la decenza di informarvi.
Annuii per risposta, non avendo coraggio di emettere alcun suono dinanzi quella terrificante figura.
– Non siate timida, presto d’altra parte, saremo più intimi e questi sciocchi timori spariranno.
Più intimi… quelle parole rimbombarono violentemente nella mia testa occupando il silenzio che si era venuto a creare subito dopo.
– Dobbiamo presentarvi al popolo che ha atteso questo momento con trepidazione. Anche se qualcuno di questi ha avuto la fortuna di bearsi delle Vostre bellezze! Ne sono a conoscenza, Maraud vi ha già presentata ad alcuni sulle lande di Chrysocoma. Sarà tutto perfetto non ne dubitate – evidentemente quell'essere sapeva più di quanto mi aspettassi, come se ci avesse osservato tutto il tempo dal mio arrivo a Kalennorath.
– Magoa, accompagna la Signora nelle Sue stanze e preparala a dovere.
Una minuta Succube, dal gracile corpo violaceo, con una veste elegante di seta azzurra impreziosita da orli color oro, sbucò da una stanza limitrofa e chinandosi mi porse la mano invitandomi a seguirla.
Lungo un buio corridoio, illuminato da candelabri rugginosi appesi alle pareti, la seguivo con riluttante passo. Fui portata in un’immensa stanza dai pavimenti marmorei grigi, su cui posava un enorme letto a baldacchino placcato d’oro, con sontuose coperte bordeaux, cinto da due cocchieri in calce dal taurino aspetto, che lo reggevano come fosse una biga.
Ogni mobile, nel suo regale assetto, era immacolato in quella stanza che appariva in disuso da molto tempo, forse da sempre.
Colma di oggetti eppure sembrava vuota, fredda e spenta.
L’unica attrattiva per me fu la gigantesca vetrata che si intravedeva tra le tende in velluto scuro, che si affacciava su un gigantesco balcone, nel quale corrimano però, vi erano due grosse statue di gargoyle dal quale mostruoso muso anziché far da scarico all’acqua, si riversava fuori un liquido rosso, forse proprio sangue.
Il panorama non era migliore, anzi pareva di affacciarsi direttamente sugli inferi.
Quel luogo mi sfiancava terribilmente e il solo pensiero che avrei dovuto coesistervi per il resto dei miei giorni, mi fece crollare in un baratro di disperazione.
La mia badante, non era affatto di conforto, rimaneva silenziosa e impalata all’entrata, aspettandosi forse di ricevere degli ordini.
– Non avere paura, non sarò mai una minaccia per te, lo prometto. Avvicinati, dimmi, qual è il tuo nome?
– Magoa, Vostra signoria.
– Piacere, chiamami pure Heloise nel privato se ti fa piacere.
– Vostra grazia è gentile, ma preferirei attenermi al titolo che meritate, se sua Signoria lo ritiene possibile.
– D’accordo Magoa, come preferisci. Avrei voluto qualcuno che mi facesse sentire un po’ me stessa in questo luogo estraneo… col tempo forse.
– Sua eccellenza dovrebbe indossare l’abito cerimoniale, se vuole prima le preparo un bagno caldo.
– Ti ringrazio, sì, sarebbe d’aiuto.
Mi portò in un’ampia stanza dove c’era solamente un’enorme piscina dalle acque pulite e calde, rimasi estasiata. Trovai, presso l’entrata, un tavolinetto con delle asciugamani anch’esse riscaldate, delle saponette e dei barattoli contenenti oli essenziali e creme per il corpo. Mi immersi e mi concessi qualche attimo di relax.
Magoa si immerse assieme a me, non mi diede fastidio perché quella vasca era così sontuosa che avrebbe potuto ospitarne altre cento di lei, quello che mi imbarazzò fu il suo ostinarsi a volermi lavare. Sicuramente era stata incaricata a farlo, ma io non volevo quella cortesia, insistetti per dissuaderla, ma senza successo.
Quando finimmo, mi ricondusse nelle mie stanze, mi aiutò a indossare un vestito da sera meraviglioso: lungo, di velluto nero, con dei pizzi finali che si estendevano in una lunga coda leggermente arricciata, le maniche ne riprendevano anch’esse i decori, lo scollo a cuore abbondantemente generoso era intarsiato di pietre brillanti come diamanti.
Poi, dopo avermi fatta accomodare su un soffice pouf dinanzi una toilette d’oro zecchino, ricolma di oggetti per la cura della proprio bellezza, iniziò a pettinare i miei lunghi capelli e a cingerli in una bellissima treccia che appuntò con fermagli brillanti. Due ciuffi ribelli si riversavano sul mio volto cristallino, dandogli un tocco di colore.
Poi, ai polsi, mi mise come due bracciali elettrificati. Ma non erano certo ciò che sembravano, piuttosto erano delle incantate manette, che mi avrebbero impedito di fuggire, muovermi, respirare senza che il Sommo lo sapesse, la mia prigionia era iniziata.
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