XXVI Parte II
L'ennesimo passaggio attraverso quel portale mi fece salire a galla interrogativi che non ebbi, fino a quel momento, il coraggio di esprimere, anche se iniziavo ad abituarmi a quei viaggi fuori da ogni logica e a sentirmi in qualche modo più sicura delle mie azioni.
– Come facciamo a restare asciutti? – chiesi dando voce ai miei pensieri.
– Cosa?
– Com’è possibile che là dentro mi sento chiusa in un barattolo di marmellata spaziale ma sbucandone fuori sono più asciutta e pulita di prima?
– Diamine bambolina, e tu pensi a questo mentre viaggi tra lo spazio e il tempo? Sei proprio noiosa, mia bella bambolina – marcò appositamente quelle ultime tre parole, con la sola intenzione di rendersi fastidioso.
– Il mio nome lo conosci bene, ricordi? Lo hai usato!
Aeglos fece un sorrisetto compiaciuto quando:
– Volete smetterla? – sbottò Maraud – Abbiamo problemi ben peggiori da queste parti.
Solo in quel momento cominciai a prestare davvero attenzione al posto in cui fummo materializzati e alla sensazione di disagio opprimente che ne scaturiva.
Un etere appestato e torbido permeava ogni minima luminescenza si riuscisse a scorgere, con quella nebbia verdastra che accarezzava venefica persino le nostre paure recondite, avviluppando la mente e ottenebrando il raziocinio che già di per sé mancava troppo spesso all'appello.
Eravamo dispersi, in una landa indefinita fatta di rocce dal colore del lutto e pendii acuminati ben più prominenti di quanto la minacciosa foschia lasciasse intravedere.
La mia confusione al riguardo era palpabile.
– Quale sarebbe la necessità di stare qui?
Cominciai a tossire, dapprima dando solo qualche colpetto poi, man mano che passavano i minuti, con maggiore frequenza. Quella foschia opprimeva tutto e adesso si stava avviluppando anche al mio respiro, mi sentivo soffocare. Un odore pungente speziava il mio setto nasale, rendendomi difficile ogni fiato. Cominciai a respirare con la bocca, ma mi resi ben presto conto che quella scelta era ancor peggiore della prima. La gola prese a infiammarsi e la tosse si promulgò insistentemente.
Notai Aeglos tirar fuori una sorta di piccola lanterna, nella quale parve montare un globo violaceo che risplendeva ed emetteva del fumo indaco e che, nonostante ancora non ne comprendessi il motivo, mi rassicurò almeno per qualche attimo.
– Avvicinati, bambolina. Questa è Iora panensis, devi respirare qua intorno se speri di sopravvivere alla serata e direi che si preannuncia piuttosto movimentata.
Aeglos allungò le braccia cingendomi il collo, legandovi con esplicito ardore uno spesso laccio di cuoio con la minuta lanterna a fare da amuleto, pendendo sul seno, che non appena mi ricadde sulla pelle cominciò a brillare fortemente. Quella, allacciata alla mia gola, scacciò via dalle mie condotte respiratorie quella sgradevole sensazione di asfissia.
Così, scrutando ulteriormente, individuai Maraud in lontananza, appostato sulla sporgenza di un robusto macigno a guglia, con una mano sulla fronte come se avesse del sole da coprire; osservava un punto preciso fra la tetraggine di quell'ambiente, verso il quale mi voltai anch’io. Due alture gemelle sporgevano oltre il nemboso orizzonte, dallo spessore minaccioso al limite del reale, le quali m’indussero, immantinente, pensieri colmi di melanconia.
I due si guardarono poi l'uno con l’altro e non appena ravvisai Aeglos annuire con una certa rassegnazione, un brivido di gelido sconforto fece breccia nella mia psiche.
– Certo che sei proprio un portafortuna – sentenziò sarcasticamente Maraud – mi domando se non ci siano vie più semplici…
– Non abbiamo scelta, dobbiamo oltrepassare il crepaccio.
All’affermazione di Aeglos non potei fare a meno di controbattere.
– Cosa c’è oltre il crepaccio?
– Non oltre, bensì cosa c’è nel tragitto da qui al crepaccio.
– E cosa ci sarebbe?
– La tana del Gruyd. – Il tono che Maraud impresse a quelle parole, intromettendosi, mi fece comprendere piuttosto chiaramente la pericolosità della situazione.
– Non sarà peggio di tutti quei Pesbar… – mi sforzai di credere.
Iniziai a seguirli senza obbiettare.
– Dunque, cosa sarebbe esattamente questo “Gruyd”?
– Un cancro – asserì Maraud.
– È un essere delle tenebre, un maligno primitivo rintanato qui da innumerevoli ere – rispose, con una strana calma, Aeglos – e, sinceramente, lo abbiamo sempre evitato finora.
Si è allontanato ormai da tempo dal volere del Sommo, ma il suo influsso sui reami oscuri è talmente esteso e la sua furia impetuosa talmente famigerata ch' Egli lo lascia sopravvivere relegato in questo malsano luogo fetido che sboccia attorno a esso e in cui vilmente si eclissa, nutrendosi di angosce, defecando disgrazie, fin tanto che non gli crei più problemi del necessario, suppongo.
Pensavo di essere pronta a tutto, di poter affrontare qualunque avversità questo nuovo mondo mi potesse prospettare, ma c’era qualcosa, in quel luogo, qualcosa di veramente… disturbante; forse era tutta quell'aria morbosa che avevo inspirato, ma più comprendevo in cosa fossimo incappati e più la mia confusione si manifestava: la vista si appannava e le voci diventavano sottili e flebili nelle mie orecchie, i passi sempre più pesanti.
Presi tra le mani intorpidite la lanterna che tenevo al collo e la portai poco sotto il mento, respirando compulsivamente. Non mi ero sentita così neppure quella volta in cui rimasi bloccata in ascensore con quel greco in canottiera e shorts. Per quanto ne sapessi, mi stava venendo una qualche specie d’infarto.
Mi sedetti su una roccia e continuai a inalare quei vapori, chiudendo gli occhi per un istante.
Erano dolci e freschi, li percepivo distintamente fin nei polmoni, seppure le sensazioni di fugace benessere che mi arrecavano apparissero affievolirsi a ogni mia boccata.
Allora mi guardai intorno, ma anche solo una breve visione di quell'acido ambiente mi provocava le vertigini, così tornai a chiudere gli occhi, serrandoli con la tenacia di chi non ha più intenzione di riaprirli.
Sentii Aeglos avvicinarsi svelto.
Socchiusi gli occhi per vedere cosa stesse combinando. Non ne capii granché: a quanto pare quel globo andava ricaricato affinché continuasse a filtrare le spore che fluttuavano per ogni dove in quell’anemica atmosfera.
Mi sentivo debilitata fisicamente eppure più di tutto mi turbava quel dover riconoscere la mia inferiorità alla realtà che avevo davanti. Pensavo di essere come loro, ma non lo ero.
Loro due respiravano senza ciminiere colorate al collo, andavano a passo spedito, controllavano accuratamente il territorio che io a mala pena riuscivo a intravedere, appannato; e portavano me, come un peso, una zavorra, debole, inutile, che si credeva una di loro ma in realtà non apparteneva nemmeno a questo mondo. Non apparteneva a
nessun mondo…
– Heloise! Dannazione Aeglos, sbrigati!
– Ho quasi finito, non farmi gettare l’intruglio a terra… ecco. Tieni, questo dovrebbe durare di più. Respira, Heloise.
Ogni volta che la situazione si faceva più seria, ecco che usava il mio nome.
– Cosa? Che succede? – non fu certo un risveglio alla Pulp Fiction, ma mi fece comunque un certo effetto.
Iniziavo nuovamente a sentirmi meglio. Stavo recuperando celermente le forze e con esse le mie capacità.
– Quel genio di Aeglos si è scordato di dirti che la Iora non è infinita, e che dopo un certo periodo andrebbe rialimentata.
– Non ho dimenticato proprio nulla! Ho solo valutato male un paio di fattori, uno dei quali è che Maraud l'aveva già utilizzata prima, senza avvisarmi… fortunatamente avevamo già i Sali di Zol per la reazione alchemica, c’è bastato trovare della linfa di un qualunque arbusto e dell'acido di bile di bestia.
– È questa la roba che ho al collo? Dove avete trovato la bile di una bestia? – mi alzai in piedi.
– Dall’addome di una bestia.
Mi resi conto di essere rimasta incosciente per parecchio tempo.
Ci trovavamo su un percorso sterrato e dietro di noi i cadaveri di piccoli esseri giacevano sconfitti. Sembravano pelosi artropodi, dalle dimensioni di una testa umana abbondante.
– Ci stiamo avvicinando – disse Aeglos, guardandomi come se stesse per succedere qualcosa di grave.
– Avvicinando? Dove?
La terra cominciò a vibrare. Vibrava il piede destro, vibrava il sinistro. Sempre di più. Come tamburi venuti dall’oltretomba si avvicinavano i passi mesti e assordanti che provenivano dalla caverna alla nostra destra. Un’arcana ombra si allungava da quel nefasto accesso roccioso.
Nulla vi era nelle vicinanze, solamente uno spiazzo pietroso che occupava il sentiero con antichi ceppi legnosi, secchi e morenti.
In quella che credevo sarebbe stata una notte imperitura, infine, il temuto essere si presentò davanti a noi senza lasciarci il tempo di riflettere.
Il terrore sovrastò l'iniziale sorpresa e io rimasi bloccata ad ammirare le infernali fattezze di quella creatura.
Uscì da quel tugurio, imponente, dalla stazza di un elefante, ma nient’altro aveva di simile ai grossi pachidermi: un’enorme figura centaurea, il tronco umanoide che culminava dalla vita in poi con un immondo turgido addome ragnesco. Poggiava su orrendi arti composti in sezioni, ognuna delle quali sempre più stretta fino a terminare con uncini acuminati che, oltre a scuotere il terreno, rintoccavano nervosamente alle nostre orecchie. Teneva due delle quattro zampacce sinistre appoggiate alla parete della cava, e si fermò a fissarci.
Neanche il tempo di un paio di respiri forzati, l'immane bestia si gettò a capofitto su di noi.
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