XXIX
La battaglia fu estenuante, tutti noi contro quel grosso artropode e la sua prole a seguito, risentimmo della fatica e delle doloranti ferite subite: nessuno di noi teneva un bell'aspetto. Anche se ormai eravamo poco distanti da quella landa desolata, circondata da quel fetore, sentivamo il bisogno di trattenere il fiato per impedire quella che sarebbe stata un'esalazione malsana per via delle sostanze organiche in decomposizione e in generale per quella turpe foschia che ancora albergava noi attorno.
Aeglos era sicuramente quello messo peggio, aveva sacrificato tutto sé stesso per sconfiggere quegli esseri, per me. Mentre io, immobilizzata da quella tela appiccicosa, avevo a stento potuto qualcosa per essere d'aiuto.
Sarei voluta arrivare anche in quello stesso istante, conciata com'ero, nel covo del loro padrone.
Ammetto che l'idea non mi allettava per niente, anzi, essendo a capo di tutto questo spaventoso mondo sadico e crudele, il Sommo doveva essere altrettanto abominevole: cosa ne sarebbe stato di me? Forse sarei stata rinchiusa in chissà quale buco sudicio per tutta l'eternità, in quanto avrebbero dovuto solamente impedirmi di divenire il sigillo della loro prigionia. Non mi avevano ucciso, evidentemente ero più preziosa come Succube che morta, ma come avrei vissuto una vita nelle grinfie di quell'essere tanto malvagio? Come avrei fatto a invertire il mio attuale fato e volgerlo a mio vantaggio, a vantaggio dei buoni?
I buoni... cos'erano Loro? Esseri immondi tanto quanto le altre creature incontrate finora eppure, ultimamente non con me, sentivo di dover loro molto - in ogni caso sarei già morta se non mi avessero protetta - e che un legame stesse avviluppandomi alle loro due figure, nonostante tutto quello di cui ero a conoscenza sentivo che qualcosa d'indissolubile era ormai sorto in me.
Se fossi riuscita nel mio segreto intento, avrei dovuto punire loro tanto quanto tutti gli altri indigeni di Kalennorath, contro il mio stesso volere. Eppure, mi sarei esposta per loro.
Ora, subito, sarei andata dritta alla prigionia del Sommo senza discutere, per metterli in salvo, perché stavano rischiando loro stessi per me, gli avrei evitato di combattere tutte queste mostruosità che non facevano altro che minacciare la nostra vita: questo per me era diventato un ulteriore supplizio aggiuntosi a tutti quelli che finora si erano accatastati in me.
E se... come per me ci fosse una possibilità di salvezza anche per loro?
Quel viso dolcissimo, mi tornò subito alla mente, confortandomi come se fosse una carezza materna. Quella figura senziente presentatasi come sovrana della luna, mi aveva rivelato il mio destino, io ero designata a succederle, nonostante il demone che mi era stato addossato, avevo la possibilità di scegliere da che parte stare, cosa essere nel profondo. Era una possibilità riservata solo a me? Avrei potuto estenderla? Certo se così fosse, non sarebbe dipeso solo da me, anche loro dovevano fare in modo che...
Ma cosa stavo farneticando?
Chi mi dava il diritto anche solo di pensare per loro questa condizione? A Loro piaceva essere ciò che sono, Incubi. Io non potevo cambiarli, un giorno, forse non lontano ormai, li avrei dovuti lasciare andare e anzi, essere colei che li condannava in prigionia.
A interrompere quella sfilza di pensieri un luccichio attirò la mia attenzione, come una gazza ladra da un gioiello. Mi avvicinai, l'ennesima piuma dorata, ormai raccoglierle era diventata una specie di missione per me: collezionabili seminati per tutta Kalennorath. Quelle piume erano veramente gigantesche, setose, scintillanti. Se ne avessi trovate di più, avrei potuto riunirle e farne un ventaglio meraviglioso, come quello con cui a volte viene raffigurata la regina Cleopatra.
Camminammo a lungo oltre quel luogo di battaglia che ormai c'eravamo largamente lasciati alle spalle, Aeglos con più fatica, dato la ferita che riportava sulla gamba; le forze cominciavano a venirci meno, presto ci saremmo dovuti fermare a riposare e rifocillarci.
-Che bambolina spettinata sei - quella frase mi mise in imbarazzo, chissà in quale stato dovevo essere ridotta, in quell'estenuante corsa verso la sua reggia, senza sosta, intervallati solamente da lotte, disagianti condizioni, senza mai avere un momento per la cura di me stessa.
- Possiamo fermarci dentro la grotta all'ingresso del giardino Chrysocoma(*), ho già controllato, è sicuro.
Maraud, diavolo, quel ragazzo era meraviglioso, instancabile, sempre perfettamente integro, era corso più avanti solo per costatare che la via fosse libera e adesso era tornato a dircelo, aveva sicuramente bisogno di distrarsi anche lui, nonostante non una goccia di sudore trapelava dal suo corpo. Quando era corso avanti, lasciandoci volutamente indietro, mi sentii mancare l'aria, non riuscivo a non sperare di vederlo tornare presto; dipendevo totalmente dalla sua presenza.
Il luogo dove fummo diretti, si presentò ben diverso da quelli che avevamo finora attraversato. Non aveva infatti quell'aspetto tetro e malvagio che invece si denotava a primo sguardo in quelli dov'eravamo stati precedentemente. Apparve come un'immensa foresta, quasi innaturale per la variazione di colore rispetto alla Terra: non vi era il monocromatico color verde che ci si aspetta, era ugualmente rigogliosa e florida, ma il terreno sfumava in note di violetto di cobalto.
Ciò che immediatamente catturava l'attenzione era il notevole numero di salici piangenti che occupavano l'area. Questi alberi si distinguevano per i loro meravigliosi tronchi variopinti, quasi come se fossero stati tinti con i colori dell'arcobaleno, simili ai tronchi di alcuni eucalipti. Tuttavia, vi era una differenza: i tronchi dei salici erano più rifiniti e laminati, tanto da permettere di riflettere ciò che si trovava di fronte ad essi, che, per inciso, erano altri salici. Questo aspetto faceva sembrare il luogo ancora più vasto e imponente.
I loro rami, pieni di foglie appuntite e seghettate, ricurvavano caratteristicamente verso il basso, ma il loro colore era di un blu elettrico chiaro.
Fasci di luce rossastra s'intrufolavano tra gli spazi lasciati liberi dalle loro fronde, ricadendo cronicamente sul suolo violaceo. Era la prima volta che, lì, vedessi un luogo illuminato da quella che sembrava essere luce solare: anche s'ero conscia che non si trattasse di quella. Mi rincuorò quella prospettiva, volli vederla come l'inizio di qualcosa di più positiva rispetto a quanto non si fosse palesato finora.
Tutto di quel posto mi rasserenava, come se ve ne facessi parte da sempre, forse perché il suo aspetto in una qualche maniera mi faceva pensare a casa.
La natura indigena era molto varia, infatti, oltre quegli alberi, si denotavano alti arbusti che al loro culmine ripiegavano su sé stessi formando ghirigori che abbellivano ulteriormente quel posto.
Fluttuanti funghi dall'aspetto assai simile a quello di enormi meduse bioluminescenti, erano sparsi qui e là terminando con delle liane elettrificate, che irradiavano fasci luminosi dal blu al viola, costantemente.
Massi dapprima piccoli, poi sempre più enormi, fin quando non si elevavano a vere e proprie montagne rocciose, erano di un vivido color indaco scuro. Queste sembravano essere state manualmente incise con strane raffigurazioni, parevano dei simboli antichissimi che si estendevano numerosi per tutta la loro superficie.
Mentre ci addentravamo in quel naturale paesaggio, accarezzata da un'aria mite e confortante, piccole lucciole svolazzavano tra di noi, illuminando appena le zone in ombra.
Si sentiva forte lo sbatter d'ali di possenti rapaci, poi il silenzio cauto e rassicurante, interrotto solo dal nostro passaggio.
Tuttavia, i miei occhi s'illuminarono alla vista di grossi bulbi luminescenti già visti prima.
- Taurehon! - gridai entusiasta alla vista della fonte del nostro cibo. Non mi ero accorta, fino a quell'istante, di averne veramente bisogno.
Sorrise in maniera incantevole: - Bambolina, sì, tutte per te.
Non vidi l'ora di fiondarmi dinanzi a quella sfera rossastra e affondare le mie mani su di essa, al suo tocco, pura energia s'irradiò dentro di me, conferendomi di nuovo quell'aspetto mistico, come la prima volta, e vidi di sottecchi i loro sguardi puntati addosso. Subito dopo anche loro si unirono a quel rituale.
Che aspetto meraviglioso assumevano, così, connessi da un'unica fonte; lente e sinuose, fu come se le loro anime attraversassero il mio corpo: una padrona di ogni mio senso, una carezzevole e nuova.
Lasciai che mi avvolgessero, memore di entrambi, del loro calore, di tutta la passione che sapevo essere colmi.
Sentii sentimenti repressi che desideravano liberarsi con insistenza, appartenenti tanto ad Aeglos quanto a Maraud; una sensazione che sussurrava innumerevoli emozioni che distinsi perfettamente: vergogna - nell'ammettere l'un l'altro dei sentimento che non si volevano far emergere; passione - nessuno di noi riusciva a negare la reciproca attrazione che provavamo; ammirazione... Amore?
Quando fummo colmi di questa energia che ci nutriva, ci separammo e, imbarazzati da quella connessione condivisa, ci avviammo silenziosamente verso una grotta.
Chissà se anche loro avevano percepito le mie stesse emozioni. Dal silenzio che impenetrabile faceva scudo a ogni nostro proposito di proferir parola, sembrava di sì. Non avevo capito, non avevo mai pensato, soppesato, riflettuto, su quei sentimenti. Che non volendo, si stavano formando dentro di me nei loro confronti in maniera tanto differente e uguale.
Loro erano diversi, diversi in tutto. Bellezza, carattere, modi, gesti e io ugualmente ne ero affascinata. Come se fossero Yin e Yang, assieme completavano quella mia attrazione.
Quei pensieri mi resero cupa. A volte l'inconsapevolezza ti aiuta ad affrontare le situazioni in maniera frivola, senza crearti alcun peso e, in circostanze di per sé assai difficili, può essere la cosa migliore, seppur non la più giusta. Avrei preferito non maturare quel ragionamento e restare, in un certo senso, priva di quella conoscenza: mi piacevano entrambi.
Una volta addentrati nella cava, ci sedemmo sfiniti: la stanchezza faceva parte ancora di tutti noi.
Lì seduti senza parlare, eravamo rimasti in quel luogo umido, non curanti del tempo che passava.
- Sei stanca? - sembrò pronunciare quelle parole caricandole di tensione e ansia, o almeno questa fu la sensazione che mi trasmise. Fu come se Maraud avesse atteso un'infinità per trovare il coraggio di rivolgermele.
- Non più. - risposi con un filo di voce.
- Vorresti seguirmi? - mi diede le spalle, iniziando a camminare non aspettandosi altro che ubbidienza da parte mia, ma almeno il suo uso del condizionale rendeva più tollerabile assecondarlo. Aeglos ci lasciò andare da soli, guardandoci con uno sguardo gelido e distaccato, che notai solamente poiché mi ero voltata a vedere se ci raggiungesse anche lui. Accortosi che lo vidi, si voltò e tenne gli occhi fissi sulla parete che aveva di fronte.
- Adesso sei in grado di trasformarti in Succube quando vuoi? - chiese curiosamente rompendo l'imbarazzo. Annuii e cambiai il mio aspetto, prendendola come una richiesta.
- Questa è la parte più bella di Kalennorath.- Fece qualche passo prima di continuare a parlare: - Non lasciarti mai ingannare dall'aspetto, in questo posto, nulla è come sembra.
Il silenzio sembrava dividere ogni cosa, lui, che non era mai stato tanto loquace con me, mi lasciò attonita a quella situazione del tutto inusuale e inaspettata.
- Ho notato dal bagliore dei tuoi occhi ammirazione per questo luogo; è normale che Chrysocoma ti piaccia, questo habitat ti appartiene. - Non appena Maraud si congedò da tali parole, capii immediatamente cosa volesse dire con quest'ultime.
Seduti più avanti vi erano due creature umanoidi, dai corpi splendidi e scuri, una coppia: un Incubo e una Succube, che non appena ci videro arrivare rimasero immobili, sorpresi di vederci.
Dopo di quelli, pian piano, nascosti dalle fronde dei salici, ne sbucarono moltissimi altri: chi dalle chiome fluenti, luminose come il calore del sole, chi azzurre come l'acqua gelata di un ghiacciaio, chi le teneva corte e chi aggraziate in morbide acconciature fermate da bellissimi gioielli. Qualcuno, tra loro, aveva delle corna arietali sul capo, in qualcun altro vi s'intravedevano appena. Tutti, femmine e maschi, avevano corpi scultorei, meravigliosi, dai colori più vari. Li accumunava quel fascino, che li rendeva belli come fossero Dei. Creature bellissime, ma sapevo che la loro aggraziata figura era la loro maschera migliore: tutti agognavano sangue, sofferenza e tortura, tutti avevano commesso chissà quali tremende atrocità.
Le forme sinuose delle femmine, l'incantevole aitanza dei maschi, erano una vile bugia, bastava guardare i loro occhi indemoniati dal rosso vivido o dal nero abissale, o ancora dal bianco opprimente o dal giallo felino. Eppure, osservarli donava una grossa beatitudine per gli occhi.
Al nostro passaggio tutti si schieravano ritti e con riverenza abbassavano il capo, come se rappresentassimo un'autorità in quel posto, per poi lanciarmi occhiate fuggiasche non appena il Suo sguardo aveva superato il loro. Sentivo i loro borbottii ma non ne distinguevo le parole, sicuramente erano tutti in fermento per la nuova arrivata, ossia me.
Poi, uno di essi, dall'aspetto imponente e i modi più autoritari, dai neri occhi lucidi, il viso squadrato e il capo quasi calvo, se non per una striscia di capelli rossi e da una fila di piccole corna simili a quelle di un'iguana, la pelle grigio fumo, pettorali definiti, gonfio come fosse sotto effetto di steroidi, notevolmente più alto anche di Maraud, che di suo doveva essere già intorno al metro e ottanta, dall'aspetto che ricordava un buttafuori di un locale cui ero stata tempo addietro nel mio periodo di ragazza spensierata e umana, si avvicinò a noi e prese parola: - Mio Signore, siamo onorati di vederla qui tra la sua più umile gente. La sua voce, roca e profonda, s'interruppe in un inchino.
- Mio fedelissimo Vorsah, è un piacere anche per me - con gesto solenne della mano lo congedò da quel servile inchino.
(*) Chrysocoma
Approfondimenti ne " il libro guida di Kimberly"
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