XXIV: Maraud.

Lei avrebbe dimenticato tutto, la sua memoria sarebbe stata cancellata, la mia no: avrei ricordato e conservato tutto ciò per sempre.

Il rosso dei suoi capelli dipinse la mia anima come le fiamme colorate del tramonto dipingono il cielo, mandando in estasi gli sguardi di chiunque lo contempli. Capaci di trasmettermi note olfattive senza aver modo di inalarne l'odore, solo attraverso quel colore intenso potevo  percepire il profumo di ciliegie.

Avevo passato diverse notti, ormai, a osservare il suo petto sollevarsi e abbassarsi piano: la sua vita che animava il respiro nel suo corpo.
La dolcezza dei suoi lineamenti scatenava una concitata sequenza di tamburi orchestrali, tipici di una melodia epica, nella ritmicità del mio battito cardiaco.
Non avevo mai mirato volto più angelico di quello.
Le sue labbra sapevano di dolce e guardandole potevo percepire tutta la loro morbidezza.
Nei suoi occhi, chiusi e intrisi di chissà quale pensiero in sogno, leggevo un'anima pura che si scontrava con la mia dannata non appena i suoi occhi smeraldo si spalancavano come finestre sul mio essere.

Lei, ignara, viveva la sua vita nella inconsapevolezza di ciò che rappresentava.

Una giovane donna: fragile, insicura, esile.
Questa fu la prima impressione che ebbi non appena la individuai.
Eppure, la sua bellezza trascendeva quella di una dea, era un angelo vestito da essere umano.
La sua forza interiore era un vulcano addormentato, capace di esplodere e bruciare ardente ogni cosa.

Era Lei.

Non avevo dubbi.

La donna che mi era stato comandato di condurre a Kalennorath.  La donna che avrebbe potuto rinchiuderci dentro quel buco infernale che ostinavo chiamate casa. Lei era il nuovo sigillo scelto, dovevamo disfarcene, ma non bastava farla fuori, perché qualcun'altra avrebbe preso il suo posto. No, dovevamo mutare lei: finché fosse stata in vita non sarebbe potuta essere sostituita e lei da Succube non avrebbe passato il testimone a una sua erede.  Non ci sarebbe stata mai più alcuna RovhTàri e noi saremmo stati liberi, per sempre.

Passarono diversi giorni prima che mi decidessi. Intanto la osservavo da lontano - lo so... pazzia - ma non potevo farne a meno, non avevo mai provato un simile interesse per nient'altro nella mia vita. Non riuscivo a farlo. Dannazione! Perché?

Nell'oscurità di una notte, mentre Morfeo cullava la sua persona, tuttavia mi imposi di adempiere al mio dovere.  Balzai lesto sul suo letto.
Non mi sentì, per fortuna, ma di ciò non avevo alcun dubbio.
Non avevo mai avuto tanta difficoltà nel gestire le mie impulsività.
Dannazione!
Il suo viso.
Avrei voluto posarmi su di lei, come un'ape, depositarle addosso il mio nettare.

Le mie sensazioni non furono smentite: lei profumava, non saprei descrivere di cosa si trattasse, ma seduceva ogni mia emozione.

Non voglio ucciderla, ma devo. 
La mia voce interiore conduceva un diverbio tra la mia volontà e il dovere da assolvere.
Stare acquattato a osservarla sorridere e condurre una vita serena, amata da una vera famiglia, supportata da vere amicizie, un essere umano che ogni giorno muoveva sé stessa verso il proprio futuro. Che io avrei distrutto. 

Non ti è mai importato niente degli umani, delle loro emozioni, se non delle loro paure.
Agisci, stolto! Cosa aspetti? Perché questa femmina ti trattiene?

Pensieri frenavano il dovere.
Riluttante, acquattato sopra il suo corpo che dormiva disteso, lasciai che il mio veleno la invadesse, osservandola infastidirsi e agitarsi sotto il mio tocco.
Quella fu la prima volta.
Avrei dovuto infettarla poco alla volta e sarebbe diventata una di noi.
Mi sentii in colpa.

Successivamente, pedinando le sue azioni consuete, passai giorni a guardarla di nascosto.
Non so dire se fosse necessario per la causa, ma sapevo che volevo saziare me stesso, procrastinando il momento in cui tutto sarebbe stato compiuto, assaporando ogni istante con lei.
Volevo avere del tempo da trascorrere in sua compagnia, anche se lei non ne era consapevole.

Se mi fossi spacciato per umano...
Era un pensiero sciocco, cosa pensavo di fare?
Qualsiasi cosa avessi fatto, lei non mi apparteneva, faceva parte di un piano più grande.

Quella sera mi prefissai che avrei dovuto riperpetrare l'embrace, mi serviva tutta la concentrazione possibile.

Perché dovevo essere io a farlo?
Aeglos era con me, avrei voluto che fosse lui a completare il rito.

Il Sommo non lo riteneva abbastanza forte. 
Ripetei a me stesso.
Così ripensai al dialogo che ebbi con lui.

– La traformazione deve avvenire in maniera efficace.
Lei deve essere una Succube forte, spietata, degna.
Non posso farlo io stesso! Non posso lasciare questo dannato posto!

La sua prigionia a Kalennorath non poteva trovare neppure un minuto di libertà. Lui era condannato in catene nel suo stesso regno.

– Va fatto entro la prossima luna piena. Altrimenti sarà troppo tardi. Quella troia ce la sottrarebbe. Hai capito bene?! – disse il Sommo.

– Sì, mio Padrone, non ti deluderò.
– Devi essere tu a farlo, nessun altro può farlo. Va'! – la sua voce tuonò brutale riverberando in quella stanza oscura.

Innumerevoli istruzioni mi furono date a seguito di quell'imperativo ordine.
Dovevo trasformarla sottraendole la vita poco alla volta.
Come potevo levarla a un essere tanto puro?
Non per niente era designata a successione come Rovhtàri. Comprensibile.

La mia specie però non poteva subire ancora le ingiustizie di quella carogna, dei suoi soprusi.
Il Sommo ci aveva condannati tutti.
Era colpa sua se un'intera specie era condannata all'inferno.
Combattutto tra il dovere e lei, la decisione andava presa: il mio popolo meritava di essere libero.
Le avrei rubato il respiro facendolo mio.
La sua essenza mi sarebbe per sempre appartenuta.
Questo mi dava un senso di appagamento che incoraggiava le mie prossime azioni.

Le avrei sottratto la vita poco alla volta per prepararla alla trasformazione: non si poteva rischiare di far le cose tutte in una volta incorrendo nella sua morte definitiva. Non potevo fare errori. Lei doveva sopravvivere seppur nelle vesti di una Succube.
Mi sarebbe bastato.

Mi avrebbe odiato per l'eternità. Questo lo sapevo.
Durante il viaggio a Kalennorath sarò il più distante possibile, farò del suo odio la mia forza per potercela fare: devo consegnarla a lui; è così che deve andare. 
Non esiste lieto fine.

Era tempo che compissi il mio dovere.

Dopo averla tenuta d'occhio tutto il giorno, mi allontanai per un veloce pasto, tanto sapevo bene dove l'avrei ritrovata; sarebbe andata a una festa: uno di quegli insulsi umani festeggiava il suo compleanno.
Così, a pasto fatto, mi recai senza invito a quella festa.

Tra la folla era facile nascondersi, pensavo, eppure il mio aspetto attirava su di me lo sguardo curioso delle ragazzine presenti che ridacchiavano tra loro non appena mi vedevano.
Non nascondo che gonfiavano il mio ego, ma la loro opinione mi lasciava indifferente.

Quando la vidi arrivare, sentii il mio corpo fremere.
In mezzo a tutte quelle giovani donne, vestite a festa, lei nel suo semplice abbigliamento era più donna di tutte.
Sentii come una pressa stritolarmi.

Aspettai diverse ore prima di agire.
La osservavo da lontano.
Quando era bella.
Il suo sorriso era felicità, forse per questo motivo mi si imprimeva forte contro: non so se io l'avessi mai conosciuta.
Sorridevo anch'io.

Il modo in cui gesticolava con la gente era aggraziato, ogni suo movimento era corrente d'energia, ogni parte di sé: germoglio primaverile di vita nuova.
Heloise.
Il suo nome significa combattente.
Non aveva idea di quanto, a causa mia, avrebbe dovuto lottare d'ora in poi.

Come ventata fresca mi passò veloce davanti, afferando con grazia un bicchiere di martini.
La osservai guardandola addentare l'oliva ch'era prima posta dentro il bicchiere, desiderando ardentemente di essere al posto di quella.

– Cosa diavolo stai facendo ancora, amico? – Aeglos mi fece sobbazare seppur non lo diedi a vedere.
– Attendo.
– Lo vedo questo, forse è anche un po' troppo che aspetti. Non mi fraintendere, mi sto divertendo un mondo a rincorrere gli umani. Le loro paure mi mandano in estasi. Sto diventando cazzutissimo, lo sento. Ma ti ricordo che il varco non resterà aperto per molto, la luna piena è prossima e presto avremo fallito.
– Sta' zitto. Lo so.

Così dicendo andai incontro a quella dea.
La puntai come un felino sceglie la sua preda: pregustandola.

Mi appoggiai alla parete di un muro sudicio intriso di umidità.
Sapevo che, non appena mi avesse scorto, sarebbe stata lei a venire da me, ero il suo moira, sarebbe stato sempre così. Ironia della sorte, più volevo che mi stesse lontano più questa era attratta da me. Sarebbe stata una tortura, ma ero pronto a sopportarlo come punizione per quello che le avrei fatto.

I miei occhi la incatenarono.
I miei ormoni da Incubo iniziarono ad aleggiare trasportati dalla brezza di quella notte, circuendola e accompagnandola dritta da me; io come vedova nera attendevo: la ragnatela era stata distesa; come mosca al miele, presto sarebbe arrivata dritta da me.
Avvertii la sua attrazione mista alla paura, ma per lei ero un richiamo: canto delle sirene.
Tutto del mio aspetto era destinato a richiamarla a me; la mia bocca si contrasse in un sorriso accennato.

Quando giunse, sentii a mia volta l'eccitazione di quei due corpi che non avevano alcuna libertà se non quella d'incastrarsi perfettamente l'uno all'altro. Mi spiazzò. Come poteva farmi quest'effetto?
La bramavo.

Immaginai le mie mani avvolgerla, sentire di possederla sotto la mia presa. Legata a me, volevo inspirare la sua pelle attraverso il collo.
Nulla mi deliziava di più delle sue labbra, finalmente sarebbero state mie.
Carnali: il suo corpo sopra il mio; le mie braccia attorno alla sua vita l'avrebbero cinta a me come una gabbia; il suo sguardo luminoso sul mio che n'era privo.
Eppure, sentivo di volerla dolce attraverso quello stesso abbraccio passionale.
Avrei voluto conservarla come l'oggetto prezioso e delicato qual era, sentivo di doverla proteggere: l'avrei fatto - mi ripetei e mi ripeterò finché avrò vitalità in corpo - per sempre.
Cos'era questa sensazione?

La avvolsi a me e mi sentii completo.
I miei artigli attraversarono il suo collo e il veleno le scivolò dentro: nuovamente, una parte di me stava penetrando in lei rendendola un po' mia, per l'eternità.
Le baciai delicatamente la zona lesa, come a volermi scusare di quel gesto inalando tutta la sua essenza.

– Ciao, Heloise.






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