XXII - Parte Seconda



– Cosa vuoi? – nonostante il suo aspetto fosse inquietante, in quel momento pervaso d’ira, non avevo spazio per la paura.
Sedeva di fronte a me, con i suoi occhi vispi e la sua testa rapace, muovendosi agilmente in un movimento ondulatorio: da destra a sinistra, agitando vorticosamente la coda simile a quella di un rettile, che faceva parte integrante del suo corpo leonino.
–  La piccola femmina di Succube è arrabbiata. La piccola femmina di Succube soffre per la vita che le è stata sottratta. Ha abbandonato la sua famiglia, mamma Barbara, papà Patrick e fratello Matthew.

Come sapeva i loro nomi? Come poteva questo essere demoniaco sapere qualcosa sulla mia famiglia?

– Ah… ora la femmina di Succube è interessata, sì?
Rimasi immobile davanti quella brutta creatura che pareva sapere molte cose su di me, mentre io non capivo neppure che tipo di animale fosse o se si potesse definirlo tale.
Il vortice che si era aperto nel cielo, si richiuse al suo passaggio e l’acqua rimase leggermente increspata. Le gocce che ricadevano dall’alto si fecero più insistenti e le pozzanghere più profonde; il mio orecchio sembrò porre attenzione solo a quel perpetuo e costante gocciolio che finì per irritarmi sempre più.

Quell’essere rimase immobile, aspettando una mia qualsiasi mossa, nascosto per metà da quel buio che imperterrito ci circondava. Un pensiero balenò nella mia testa: chissà se in questo mondo esiste la luce del giorno. Finora, infatti, avevo visto solo tenebre e, seppur eravamo passati dalla Terra a Kalennorarth 
accompagnati dalla luce della Luna, ero certa che fossero trascorse ben più di dodici ore e ormai lì dovesse essere pieno giorno.

Mentre entrambi restavamo immobili a fissarci, attendendo l’uno la prima mossa dell’altro, sentii le risate lontane di una bambina.

Poi la vidi: una piccola bambina che correva con la sua bicicletta dal cestello rosa, che suonava il campanellino apportato sopra, “drin, drin”, suonava allegra, mentre un viso felice la guardava allontanarsi nel sentiero di fronte a loro, circondato da alti cipressi. “Papà, guarda come sono brava”, e la bambina correva veloce seduta nel sellino della sua piccola bici, “drin, drin”.
Di colpo, sparirono tutti.

Un'altra proiezione avvenne davanti ai miei occhi, come se una vecchia pellicola si manifestasse nella mia mente, utilizzandola come pannello.

Si materializzò la stanza di un ospedale, un grosso fiocco celeste era appeso alla porta con scritto un nome sopra: Matthew.
Una moltitudine di gente stava tutt’intorno a una piccola culla di vetro. Una ragazzina, guardava amorevolmente il neonato che le stringeva il dito e beato dormiva succhiando il suo ciuccio. Quel dolcissimo scenario sarebbe così stato ricordato per sempre: il loro primo incontro.

Poi un'altra ancora:

Mamma, mamma… guarda cosa ho preparato, vieni a sederti e mangiare con me”, la stessa bambina di prima, con i suoi bellissimi lunghi boccoli, invitava la sua mamma a giocare con lei con la sua mini cucina. La mamma, felicemente, lodava la sua piccola bambina per il buon lavoro svolto. Fingeva di mangiare, gustandosi quella prelibata pietanza, poi l’aiutava a sparecchiare e riporre tutto dentro il piccolo lavandino; “ci penso io, so lavarli bene i piatti”, diceva con la sua tenera vocina da bambina, mentre impugnava la sua spugnetta a forma di nuvoletta  e  lavava i piatti sporchi, mettendoli ad asciugare. Soddisfatta sorrideva alla sua mamma.

Lo scenario cambiò nuovamente.

Nella stanza di un soggiorno, la tavola era imbandita e un buonissimo odore aleggiava nell’aria: pollo arrosto in crosta e patate al forno. Il sapore di quella pietanza era inebriante e tutti sedevano insieme per gustare la propria porzione. La mamma sedeva a capo tavola, poiché era giusto che lei occupasse il posto d'onore dopo aver messo tutta sé stessa nella preparazione di quella deliziosa cena. Papà alla sua sinistra, io alla sua destra e Matt le stava di fronte. Una semplice cena, dove si discuteva del più e del meno mentre la televisione riempiva i silenzi che si creavano quando tutti avevano la bocca piena, mentre si scherzava, ci si scherniva e si sorrideva tutti assieme.
Il vuoto.

La tristezza colmò il mio cuore che aveva assistito velocemente ad alcuni ricordi che conservavo dentro di me, la nostalgia della mia famiglia era molto forte, mi sentii privata della precedente rabbia e colmata da un’abissale sofferenza.
Scoppiai in lacrime.

Maraud. Alto, fiero, bellissimo… dinanzi a me che stavo immobilizzata su un suolo freddo, incapace di muovermi e Lui chinandosi, iniziò a divorarmi l’anima. La vidi fluire fuori dalla mia bocca, incapace di oppormi, con gli occhi fissi e terrorizzati. Poi qualcosa dalla sua bocca, arrivò alla mia, un liquido scuro, simile a sangue denso, fu riversato dentro di me. Il mio corpo cadde in preda a forti convulsioni, gli occhi sbarrati verso il cielo perdevano il loro colore, annebbiandosi. Iniziai a tossire e quel liquido zampillò fuori, macchiandomi come una tela di Pollock. I miei occhi si chiusero e giacqui immobile, morta.
Dopo qualche tempo, si aprirono di scatto, rossi come quelli del demonio. Lui, inginocchiato verso di me, mi guardava estasiato e con riverenza chinò il capo.
La mia trasformazione.

Repentinamente le scene che attraversavano la mia mente cambiavano, facendomi vivere un turbinio di emozioni che facevo fatica a gestire, mi mancava il fiato e un lancinate dolore occluse il mio respiro.

Maraud con i suoi artigli fiondati dentro il mio braccio, si beava del piacere apportatogli da quel momento; quella visione s’interruppe per poi correlarsi a quel bacio, passionale e apparentemente lento, il mio viso avvolto dalle sue mani.

Repentinamente, le scene che si susseguivano nella mia mente cambiarono, catapultandomi in un turbinio di emozioni che faticavo a gestire. Mi mancava il fiato e un dolore lancinante occludette il mio respiro.

Provai rabbia verso questo mostro, che silenzioso mi fissava e mi trasmetteva le immagini della mia vita, che da felici, semplici come quelle che una ragazza comune potrebbe avere, mutavano; poiché la mia vita è stata strappata via dalla morte, un destino imposto per trasformarmi in qualcosa che non desidero.

– Basta! Non appropriarti dei miei ricordi.
Quella creatura affinò gli occhi e roteandoli dondolò a scatti ancora una volta la sua testa da sinistra a destra.
Ogni minuscolo pezzo di quei ricordi mi sparò alla mente un colpo quasi fatale. Mi fece male ricordare quant'ero felice e rivedere la mia faccia d'idiota attratta da Te, che mi perseguitavi rimanendo nell’ombra, che non si rendeva conto che avrebbe dovuto agire subito prima che fosse troppo tardi, mi fece venire voglia di prendermi a ceffoni da sola. Ma ormai non c’è nulla ch’io potevo fare.

Mi potevo solamente abituare a spegnere il sorriso, chiudere gli occhi, serrare le labbra.
Così masochisticamente, mi dovevo abituare a adorare le urla nella mia testa, il dolore nel mio cuore, la tristezza radicata in me.
Confusa da quell’ondata di emozioni che avevo cercato di sopperire per riuscire in qualche modo a sopravvivere a quest’inferno in cui mi trovavo, mi venivano rappresentate tutte in quest’ologramma virtuale, rendendomi spettatrice.

Nuovamente un'altra prese il sopravvento:

Il sole tramonta, l'oscurità si estende per ogni dove e io son lì seduta, ai bordi del canale, a guardare incantata la luna specchiarsi sull’acqua: così sola, luminosa per mezzo di qualcos'altro, gonfia, vuota, romantica, gelida. Vidi il suo bellissimo volto umano parlarmi ancora, non ne sentii le parole, ma ne compresi bene il significato: mi ribadisce ancora una volta la mia missione, che doveva restare segreta a quelle creature maligne, un piccolo aggancio a uno scopo che io potevo raggiungere per fare qualcosa di buono. Dovevo concentrarmi su questo, nient’altro.

Ma quella forza datomi da quest’ultima immagine, fu annientata da quella che si materializzò subito dopo, una sequenza strana di attimi mai visti.

Da dei cespugli spogli si levavano in volo gracchianti uccelli, simili ad avvoltoi, con delle code a sonagli, le zampe informi, gli occhi gialli come quelli dei felini al buio della notte. Doveva infuriare un vento infernale, poiché essi faticavano a solcare il cielo, nel quale scoppiettavano scintille di fuoco provenienti dalle laviche cascate che strabordavano da scoscese rocce fluttuanti, che s’issavano spigolose in stretti sentieri irti e instabili, sotto ai quali si formavano aspre e coniche stalattiti di pietra lavica che sovrastavano il passaggio del sentiero che a giro sormontava quello più in basso, creando così la sensazione di essere rinchiuso nella bocca di un gigantesco serpente dai denti aguzzi. Qui e là, si ammassavano piccoli coni di pietra dai quali grondava, come sangue sgorga da profonde ferite da taglio, magma incandescente che, scoppiettante, rischiava di finirti addosso; alcuni sentieri erano bruscamente interrotti e il passaggio era permesso solamente da piccole parti di roccia sospese, che l’una accanto all’altra si affiancavano creando una sorta di ponte traballante, al di sotto delle quali vi era solo il vuoto più profondo. La parte finale, in cima, pareva terminare in un vorticoso sentiero a chiocciola, dal quale, ai bordi, s’issavano spigolosi muri come se vi fossero apportate enormi spine di roccia; l’effetto visivo era quello di incorrere nelle squame di un gigantesco drago, alla fine del quale, uncinato nella parte più alta, si ergeva un grosso portale d’ingresso verso un gigantesco castello dall’aspetto infernale, che irradiava una fortissima luce abbagliante.
Quel luogo, popolato da creature mostruose, orride e malvagie già solo nell’aspetto, dava l’impressione di essere pervenuto direttamente all’inferno.
Una maestosa figura sembrò nascere da quel subbuglio, spiccando in alto nel cielo con le sue gigantesche ali demoniache. Lunghi capelli neri ammantavano il suo petto rigonfio di possenti muscoli, dal quale, all’altezza delle due clavicole, fuoriusciva come osso ricoperto dal suo strato di pelle, un corno appuntito e ricurvo per lato, gli stessi si riproponevano sul capo, con spessore e grandezza maggiori. Un demone.
Col Suo viso.
Maraud.

Un’ultima volta, lo scenario cambiò.

Vi ero io seduta sugli scalini ai piedi di un grosso trono, dall’aspetto architettonico simile a quello visto all’esterno del palazzo cui ora mi trovavo, adornato da corni appuntiti e da due monumentarie ali demoniache che lo avvolgevano, con la testa poggiata sulle gambe di un demone che vi stava seduto da regnante. Il mio aspetto era quello da Succube, vestita di un meraviglioso abito lungo nero, il quale strascico si estendeva per tutti gli scalini che facevano da piedistallo a quell’imponente sedile, ornata da un diadema con una pietra per metà color dell’ambra e metà argentea, posto centralmente tra due grandi corna d’ariete che appoggiavano sul mio capo.
Poi vidi Maraud, nuovamente nel suo aspetto demoniaco, con uno sguardo iniettato di malvagità, tendermi la mano alla luce del sole, ed io che abbandonando quella lunare alle mie spalle, l’afferravo andando nella sua direzione, poiché il mio cuore m’impediva una scelta differente, che se solo avessi azzardato, avrebbe causato una rottura insanabile. Perché ormai, a ogni costo, volevo stare con Lui.

Quel flashback a immagini ritraeva me come regina di Kalennorarth. Restai con gli occhi fissi nel vuoto, incapace di reagire.

–  Il suo futuro femmina di Succube. Io l’ho visto, sì? Ora anche Lei l’ha visto. Il futuro è chiaro. Al futuro non si sfugge.
Mi mancò il fiato.
Avrei fallito? Sopperirò il mio compito in questo luogo infernale e ne sarò regina? Sovrana del male.
Perché dovevo restare in vita aspettando che questo destino si palesasse? A cosa serviva lottare con tutte le mie forze, per vendicare il male fattomi, per aiutare l’umanità a salvarsi da una fine tremenda, se io stessa ne diverrò la causa maggiore?
Tanto valeva farla finita subito, adesso.
Porre fine a questa mia seconda vita prima che possa generare quel male che io stessa volevo segretamente fermare.

Tutto diventò grigio e opprimente e la sensazione di freddo mi prese per congelare ogni mia speranza, l’unico pensiero che mi accompagnava adesso era il suicidio. Forse per la paura di cadere, che non mi era ammissibile, forse indotta a quel pensiero dall'egoismo di autodifesa, inconscio o conscio, di essere o di diventare, tutto ciò che mai vorrei essere.

Morire sembrava la soluzione migliore.

Quell’essere viscido, per metà civetta, per metà leone, con la coda da serpente, si beava della mia sofferenza standosene immobile a godere di quei miei sofferti pensieri. Un fiume di lacrime sgorgò dal mio triste viso, come veleno, lo solcavano e irritavano.
Mi alzai e puntai i miei lunghi e affilati artigli al collo, con l’intento di reciderlo.

– AAMON! Sparisci insulsa creatura!
Del tutto ripresosi dalle vecchie ferite, Maraud spuntò improvvisamente in un lungo balzo e sferrò contro quell’essere un colpo micidiale, che lo atterrò drasticamente a terra, sollevando terriccio e ghiaia da quel suolo polveroso. Teatro di quella furiosa battaglia, quel luogo iniziò ad agitarsi e l’acqua che lo sovrastava fu smossa e generò onde enormi, come a seguito di uno tsunami. Un vento secco si sollevò nell’aria, asciugando in fretta le lacrime dalle mie guance.

Il vento infuriava, ululava, sollevando polveroni di terra spaccatosi all’impatto che quella creatura aveva avuto sul suolo. Infuriatosi per quella mossa che lo aveva costretto a terra, l’aamon, reagì violentemente e colpì con una potente zampata Maraud, appena atterrato dal suo balzante salto. Questa volta, egli resistette e contrattaccò, menandolo con i suoi artigli.
L’aamon lo afferrò dalla coda e come un boa iniziò ad attorcigliarlo a sé, stritolandolo. Tuttavia lui si liberò facilmente dalla presa, tagliando in diagonale tutta la sua coda, liberandosi così da quella presa. Un liquido appiccicoso e verdognolo ricadde scrosciando sul suolo. Per il forte dolore la bestia urlò e l’irruenza del suo verso fece tremare sia la terra, che il cielo, smuovendo ancor più quelle acque.

Prendendo la rincorsa, Maraud saltò sopra il suo muso e colpendolo generò il suo sangue. Esso, di contro, spalancò le sue fauci e tentò di incastrarlo tra di esse. Maraud si ritrovò proprio in mezzo le sue due arcate dentali ma con tutta la forza di cui disponeva, lo trattenne, per poi, con mia enorme sorpresa, fuoriuscire velocemente e salendogli sul cranio, lo massacrò per terra con un feroce pugno. Non appena l’aamon fu a terra, egli gli recise la testa con un sol gesto della mano.

Il tetto cominciò a cedere e la furia dell’acqua cadde precipitando come se un’invisibile diga si fosse lacerata e la pressione dell’acqua fosse tale da sovrastare tutto. Violenta ci colpì in pieno. L’impeto di quell’urto mi fece perdere i sensi.
Qualcosa afferrò il mio bacino e mi strinse a sé, portandomi in salvo.
Lui.

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