XV - Seconda Parte
L'atto d'amore più grande che si possa fare è lasciare qualcuno, nonostante l'intensità dei nostri sentimenti, nonostante la passione che ci consuma, per non far soffrire quelle persone cui teniamo tantissimo, per non renderle più tristi, per non sperare in uno sforzo troppo grande da chiedere, che non possono esaudire. Li lasci andare.
Mentre piano ti fai trasportare via e urli straziata. Consapevole che quell'amore resterà sempre ad attingere vitalità dentro di te.
– Bambolina suvvia, non essere triste, ti faccio da assistente personale. Adesso ci divertiamo.
– Non chiamarmi più in quel modo!
– Come siamo aggressive... B a m b o l i n a! – sorrise maliziosamente Aeglos, espressione che non si intonava a quel suo bel viso angelico.
Lui rimase in silenzio, pensoso, nemmeno uno sguardo, un qualsiasi gesto, rimase impassibile per diverso tempo elaborando chissà quale pensiero.
Quando, colmando della sua voce quel silenzio parso lungamente durevole, disse: – Hai trovato una giovane donna che le somigli come ti avevo detto? – lo sguardo di Aeglos si abbassò al suolo – Vai. Trovala, uccidila e portala qui.
– Sì, mio Signore.
Quando Lui usava un tono così fermo e autoritario, Aeglos, si rimetteva ai suoi ordini senza controbattere, perdendo tutta l'arroganza e la spavalderia ch'era consono esibire. Doveva essere un suo superiore, quale che fosse la loro piramide sociale dato che si rivolse a lui come "mio Signore". Sapevo che non avrei cavato un ragno dal buco, che non sarebbe stato il caso di avanzare quel pensiero, ma la voglia di far esplodere quelle parole era troppa:
– Un'altra persona innocente perderà la sua vita a causa mia oggi. Non è giusto. Non voglio. Nessuno dovrebbe perdere la vita per colpa mia.
– Non mi pare che oggi ti sia dispiaciuto uccidere.
Era vero. Non mi era dispiaciuto affatto anzi ne avevo tratto piacere, ma adesso era diverso, ero me stessa.
Quelle parole però, chiusero il discorso.
Così, ripiombato il silenzio, Aeglos si allontanò e Lui mi fece capire che dovevo seguirlo, così iniziammo a camminare.
Era ormai mattina inoltrata, la gente sembrava essersi smaterializzata, non c'era quasi nessuno per strada, ma onde evitare che qualcuno potesse vedermi nel caso mi cercassero, e io ero sicura che fosse così, scelse stradine secondarie e non asfaltate, strade che ospitavano per lo più cantieri, case abbandonate, macerie di altrettante case in costruzione.
Camminammo per un bel po', il sole splendeva sul cielo limpido, sarebbe stata quella che la gente interpreta come una bella giornata, ma, come ero solita pensarla io e anche questa volta non mi sbagliavo, era la solita presa in giro del prospettarsi quella che sarebbe stata una bella giornata solamente perché filtrata dalla felice luce solare, sapendo già che mi aspettava un'altra difficile esperienza che non avevo la facoltà di poter cambiare.
Il nostro cammino si interruppe quando fummo davanti a un locale: Il senso della vita. Ironia delle cose.
Era un brutto quartiere, non vi ero neppure mai stata: circondato dal tanfo dell'immondizia che si riversava dentro e fuori gli innumerevoli cassonetti che si trovavano in quel posto, alcuni buttati di proposito per terra da dove si rovesciava fuori tutto il loro contenuto. Quel posto era una vera e propria discarica. Alcuni ragazzi sedevano per terra con sguardi persi e vaganti in chissà quale stravagante pensiero, avevano tutti un aspetto trasandato e sporco, gente sicuramente che avendo perso tutto nella vita, si riversava in quel posto cercando lo sballo momentaneo per sopperire le loro penose vite. Altri erano distesi per terra, immobili e probabilmente svenuti, giacevano lì a terra da tutta la notte. Chiazze di vomito erano sparse qua e là per tutto lo spiazzale e probabilmente quello non era l'unico maleodorante liquido che aveva assorbito quel suolo, la puzza di urina sovrastava quel posto. Bottiglie di alcol erano sparse ovunque, Maraud ne prese qualcuna ancora mezza piena, altre vuote, altre ancora spaccate.
Molte automobili sostavano nella zona, alcune da diverso tempo come dimostravano le ruote sgonfie accasciatosi al terriccio del suolo le quali avevano scavato un solco nella posizione cui erano situate; la carrozzeria di molte erano danneggiate, sbiadite dal tempo in cui erano rimaste sotto i diretti raggi del sole, altre invece sembravano essere state lasciate lì di proposito, forse perché rubate.
Puntò una vecchia macchina che sostava sul parcheggio riservato ai clienti, isolata dalle altre, ma sicuramente in condizioni migliori rispetto alle altre presenti. Doveva appartenere a uno di quei ragazzi che non avevano avuto la forza di guidare la sera precedente.
Lui prese a smanettare con quell'auto, una peugeot 30, grigia metallizzata. Manomise la valvola di sicurezza del serbatoio fino a staccarla completamente, poi ruppe il serbatoio lasciando che il carburante sgorgasse fuori. Riversò l'alcol contenuto nelle bottiglie raccolte prima su buona parte dell'automobile e infine, come se gli fosse la cosa più semplice del mondo, dalla sua mano sbucarono affilatissimi artigli, come quelli di un terribile felino, li infilò nella serratura e aprì la portiera della macchina.
Sui sedili lasciò cadere il contenuto di una bottiglia totalmente nera con un teschio raffigurato sopra, credo fosse un forte liquore, cospargendo tutto interamente. Poi si girò e me lo versò addosso. Adesso ero zuppa del fetore d'alcol.
– Spogliati.
– Come?
– Ho detto spogliati, mi occorrono i tuoi vestiti – in quell'istante Aeglos arrivò con in braccio il cadavere di una ragazza.
– Non è bella quanto te bambolina, ma almeno si avvicina un poco alla tua fisicità.
Effettivamente più o meno era alta uguale, formosa, di carnagione chiara, stessi capelli. Provai pena per lei, era morta prima che fosse giunta la sua ora, morta ingiustamente come agnello sacrificale, imbrattata del suo sangue ovunque e con un grosso, disgustoso vuoto lì dove una volta si trovava il suo cuore.
– Non dovevi divertirti con lei – anche Lui notò ciò che avevo appena visto anch'io.
– Sarebbe stato uno spreco non approfittarne.
Ignorò volutamente le sue giustificazioni rivolgendo la sua rabbia a me:
– Levati i vestiti, dobbiamo metterli alla ragazza morta – mi fissò nuovamente insistentemente – cosa aspetti?
– Uh! La situazione inizia a scaldarsi. Un aumento della temperatura comporta una riduzione di indumenti, vai Bambolina, levati tutto! – Maraud, che aveva accumulato rabbia a sufficienza, non si fece sfuggire l'occasione di reagire e questa volta, afferrò il collo di Aeglos soffocandolo, lo alzò da terra di qualche metro e obbligandolo a guardarlo nei suoi occhi tenebrosi, gli intimò di non farlo mai più. Sul suo viso e sul suo collo presero a gonfiarsi a pulsare le sue vene, cominciando a emanare una forte aura terrificante che incupì tutt'intorno, come se ogni cosa entro il suo raggio perdesse interamente la sua vitalità al contatto di quella foschia.
Annichilita da quell'immagine agghiacciante, fuori dal mio controllo per la seconda volta quella giornata, il mio corpo si trasformò nella forma simile al cristallo, come contagiato da quello cui aveva assistito, assorbì quell'aurea cupa, facendomi somigliare alla versione scura di Mistica.
Sarei potuta scivolare nell'ombra, nascosta ai loro occhi, se non fossimo stati in pieno giorno in una mattina soleggiata e luminosa.
Quella graduazione pigmentata di nero,tuttavia, fu per me un valido aiuto.
Nuovamente il mio corpo mantenne le sue caratteristiche umane calcificandosi in un diamante organico; nulla delle mie nudità potevano essere viste se non come un luccicante carbonio che mi rivestiva tutt'intorno.
Levarmi i vestiti fu più facile, così li sfilai via e glieli porsi. Immobili, abbagliati dalla mia forma, Maraud scagliò Aeglos per terra che raccolse i miei indumenti, mentre io con disgusto indossai quelli zuppi di sangue della vittima sacrificale; mentre Aeglos si sollevò lentamente e rimase a fissarmi.
Ero nuda. Non nuda come si è consoni pensare o immaginare o desiderare... mi sentivo nuda come un raggio di sole che filtra tra i rami di un albero, come un soffio di vento che sposta le nuvole, come un fiore che offre il suo polline a un'ape.
I loro sguardi famelici stavano divorando ancora una volta tutto di me, tutto ciò che avevo indosso, che in questo momento non erano i vestiti, ma la mia pelle, la mia essenza, tutta me stessa.
Mi sentii come un prezioso bicchiere di cristallo, trasparente nella mia anima e vuoto, che aspettava di essere riempita di vino rosso come fosse dono di una nuova esistenza, che mi scaldasse con il riempirsi di piccole onde fluttuanti lasciando piccole gocce di brividi sulla superfice delle mie nudità interiori.
Non appena la tensione che si era creata si acquietò, ritornai me stessa, nelle mie sembianze più normali, seppur quello della normalità ormai fosse un concetto distante da tutto quello che mi riguardava.
I due continuarono a bagnare il corpo della ragazza di alcol e così anche la vecchia peugeut.
Poi Aeglos dalla tasca del pantalone prese una scatola di fiammiferi, ne sfregò uno sulla scatoletta e questo si accese e lo buttò sopra il corpo morto della ragazza, gettandola dentro l'automobile; chiuso lo sportello, si allontanò e ci fece segno di seguirlo. Con la voracità di un rapace, si appollaiò tra le fonde di un frasso, l'albero che spesso simboleggia la morte; anche quello non sembrò essere un caso..
Maraud lo seguì e io li guardai mentre lesti si arrampicavano, certa che non sarebbe stato facile per me quanto lo fosse stato per loro, ma mi dovetti ricredere: veloce e in maniera del tutto spontanea come se mi fossi arrampicata un milione di volte, mi ritrovai anch'io sui rami di quel possente albero.
Da lì vedemmo il corpo di quella ragazza prender sempre più fuoco e appiccarlo transitoriamente all'auto che la conteneva. Passò un lasso di tempo che parse infinito, fin quando squagliandosi il corpo della giovane donna non divenne carbone.
Il fuoco ormai divampato, alimentato da tutto l'alcol che aveva bagnato sedili, tappezzeria e ogni parte di quell'auto, arrivò fino alla benzina fuoriuscita dal serbatoio provocando una solenne esplosione.
I loro volti si bearono di quella scena, il mio si contrasse in quella del dolore e del senso di colpa.
– Cos'è quello? Quello che porti al polso.
– Nulla, un bracciale. Me lo ha regalato mio padre tempo fa.
– Levalo.
– No, ti ho appena detto che è un regalo di mio padre, l'unica cosa che mi sia rimasta di lui – con forza mi strattonò il braccio, mi filò il bracciale e lo lanciò verso quel catastrofico falò.
– NO! – urlai disperatamente mentre il bracciale fluttuò lontano da me raggiugendo il suolo.
– Andiamo.
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