II - Seconda Parte

Quel pomeriggio vennero a trovarci la signora Fontaine e la signora Lambic, la madre di Kimberly, assieme a Kim. Con l'occasione di prendere un tè che, in una giornata fredda come quella, era davvero un toccasana, ma più che altro vennero per informarsi meglio sul mio stato di salute, avendo appreso da Kim del mio mancamento a scuola.

Una volta tranquillizzate iniziarono a raccontarsi le aggiornatissime notizie apprese qua e là dalla gente del paese, rendendo quelle discussioni piacevoli e divertenti attraverso i gesti accentuati che utilizzavano per raccontare i vari fatti accaduti. Specialmente la mamma di Kim aveva un modo davvero particolare di raccontare le cose, enfatizzava, forse anche eccessivamente, agitando le mani e quando i discorsi toccavano argomenti più piccanti, le guance le si coloravano subito di rosso. Ero stata trattenuta dall'interminabile racconto su come la signora Amelie stesse provando a mantenere segreta la sua relazione con il giovane fruttivendolo, forse anche troppo giovane per lei, stando a sentire i commenti. Non mancavano i rimproveri, i giudizi e i risolini indiscreti, come un vecchio gruppo di comari. Nonostante questo, rimasi assieme a Kim ad ascoltare e quando il racconto si concluse, io e la mia amica decidemmo di andare in camera mia.

- In questi giorni ti stai davvero divertendo a farmi spaventare - disse lei buttandosi sul mio letto - Hai idea di quanto questo possa incidere nella vita di una persona? Specie in quella di una fragile e delicata come me, la mia bellissima pelle ne risentirà tantissimo: già il tempo sta influendo, guarda - mi si avvicinò per mostrarmi da vicino il suo viso, poi scoppiò in una sonora risata.
- La tua pelle è meravigliosa come sempre, Kim - le strizzai l'occhio - e se così non fosse, resteresti comunque la ragazza più bella e invidiata di tutto il paese. - E tu resti la migliore amica in assoluto, non posso permetterti di farmi prendere questi spaventi, hai idea quanto sarebbe difficile rimpiazzarti? - sorrise e poi mi abbracciò - Non posso perderti, ti voglio bene.

- Adesso non farmi commuovere - poi, per alleggerire quella conversazione, le proposi: - Dopo tutto questo stress, visto che il tuo viso è tutto sciupato, ti meriti un rilassante trattamento con la maschera per il viso che ho appena acquistato, così rimediamo a tutta questa tensione.

Presi il barattolo della crema, l'asciugamano, scesi in cucina a prendere i famosi cetrioli da mettere sugli occhi, le appuntai i capelli con una pinza e le misi quella crema maleodorante su tutto il viso e adesso la sua faccia aveva l'aspetto della strega del mago di Oz, con un tocco in più, i cetrioli sugli occhi.

- Ecco fatto. E non finisce qui, signorina Lambic si accomodi - la feci sedere sulla mia poltrona girevole, le misi poi davanti allo specchio e accesi lo stereo: - Metto un po' di musica ambient per garantirle totale relax, solo per lei.

Non appena finii di dire così, dall'altra stanza partì musica assordante, tanto forte che le mura cominciarono a vibrare e mancò poco che la mia cornice facesse un capitombolo per terra.

- Matt! SPEGNI SUBITO QUESTO CASINO! MATT? MI HAI SENTITA? - gridai a squarciagola contro mio fratello. - Scusami, Matt ha il vizio di alzare troppo il volume di questo schifo di musica senza senso che ascolta.
- È di moda, purtroppo è ciò che passano. Ormai vanno solo dj e suoni computerizzati, ah! Dov'è finita la buona musica? - Dopo uno sguardo d'intesa, iniziammo a cantare una delle nostre canzoni preferite: - Now! I wanna sniff some glue. Now! I wanna have somethin' to do... all the kids wanna sniff some glue, all the kids want somethin' to do!

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Le strade erano nero petrolio per via della patina d'acqua per terra che rifletteva il buio opprimente di quella notte senza stelle.
La pioggia continuava lenta a scendere, scrosciando contro i tetti delle case, le panchine, il suolo.
Le deboli luci provenienti dai lampioni riuscivano ben poco a illuminare il paesaggio poiché il cielo sembrava abissarsi e avvolgere tutte le cose terrene, soffocandole.

Nella parte orientale della città, presso il bellissimo parco della Villetta, una giovane donna, quella stessa sera, aveva appena finito il suo turno di lavoro all'ospedale Jour Georges Vecola.
Ancora in camicia, con la sua valigetta in mano, faceva risuonare i suoi passi svelti e concisi, con le sue decolleté nere. I capelli color caramello, quasi del tutto sciolti, di cui raccolte erano solamente alcune ciocche laterali attraverso una piccola pinza, erano scuriti dal buio della notte.
Il suo viso tondo e leggermente paffuto la rendeva carina e dolce nell'aspetto, il suo portamento e la schiena ben eretta mostravano una gran sicurezza di sé.

Sicurezza che avrebbe perso molto presto.

La donna teneva stretta alla sua mano destra una valigetta e con quella sinistra un ombrello nero col quale si riparava dalla pioggia, mentre continuava ad avanzare per la sua strada.

Era una di quelle notti in cui si preferirebbe restare a casa, con una tazza di tisana in mano, un plaid avvolto attorno al corpo, un buon libro tra le mani che avrebbe tenuto compagnia finché il sonno non avesse preso il sopravvento. Invece, la dottoressa Mailett era in quella strada desolata a tarda notte e al freddo, ripensando al viso di quella bambina che implorava aiuto col suo solo sguardo: quegli occhi piccoli, dolci, pieni di dolore; e il volto le si fece triste. Le vennero in mente le sue piccole mani, il suo corpicino minuto, così tenero e sofferente, che il macchinario di ventilazione artificiale, che lei stessa le aveva attaccato, sembrava inghiottire. Quei tristi pensieri furono interrotti da un getto di vento che le scompigliò i capelli, non fece in tempo a sistemarli che nuovamente un'altra folata di vento, stavolta più forte, le fece volare via l'ombrello così da costringerla a voltarsi per recuperarlo.
Un uomo le si trovò dinanzi.

Occhi grandi e bianchi, colorati solamente nell'iride da un blu acceso che sfumandosi via, via, verso l'interno, perdevano d'intensità fino al bianco centrale.
Tutt'intorno all'occhio le palpebre erano nere, le sopracciglia arcuate e folte sporgevano dal resto del volto, scuro come il fumo scaturito da un incendio. Le labbra superiori spaccate e prive del tipico colore roseo dell'incarnato, il corpo snello e possente, con pelle liscia e innaturale, come fosse stata adagiata in modo da ricoprirlo senza lasciar la minima piega, anch'essa grigia come il volto. Le mani grandi e affusolate dalle quali si estendevano lunghe dita con unghie ingiallite. La donna sussultò e indietreggiò di alcuni passi.

- Mi scusi, il forte vento mi ha fatto volare via l'ombrello e io... - le si spezzò la voce non appena la creatura che aveva davanti le mostrò un ghigno spaventoso.

Cominciò a indietreggiare sempre più, pensando solo alla fuga. Il cuore iniziò a batterle furiosamente, i suoi occhi cominciarono a scrutare gli angoli oscuri della via, nessun passante, nessuno a cui chiedere aiuto.

Il silenzio feroce di una cittadina addormentata; una luce tremula proveniente da una lampadina ormai consumata di un lampione che le era accanto; la pioggia che incalzava e le appiccicava i capelli ormai zuppi sul volto, sporco dal trucco che le era colato; le scarpe col tacco le impedivano di correre veloce quanto avrebbe voluto; i vestiti sudici le rallentavano ulteriormente i movimenti; la stanchezza di una pesante e sfiancante giornata lavorativa: non facevano altro che accrescere la paura dentro di sé.

Si fermò un attimo da quell'estenuante corsa, prese fiato, si guardò le spalle e non vide più nessuno.

Doveva smetterla di tornare a casa da sola quando finiva i turni serali, anche una cittadina piuttosto tranquilla poteva trasformarsi in un posto pericoloso specie per una donna sola e stanca.

Il cuore della signorina Mailett tornò a battere in maniera più regolare riprendendo così a camminare, seppur a passo svelto. Aveva perso l'ombrello, ma ormai le era indifferente dato che si ritrovava tutta zuppa d'acqua.

La sua mente cominciò a immaginare un bel bagno caldo e rilassante, così, cercando riparo tra un balcone e un altro, si apprestava a tornare a casa. Finalmente mancava solo un isolato e si sarebbe ritrovata a casa.

Nuovamente quell'essere la spiazzò, irrompendole davanti la strada inaspettatamente, con occhi fissi e maligni che la guardavano.
Ella lasciò cadere la valigetta e tentò nuovamente la fuga, ma una mano fredda le cinse con forza il braccio arrestandola.

Fare, non pensare. Agire, muoversi, scappare; lasciare che l'istinto prevalga. Pensò lei.

- Dove vai così di fretta? - una voce forte, roca, calma e penetrante sussurrò quelle cinque semplici parole che bastarono per paralizzare la donna. - Giochiamo un po', solo io e te. - Con forza la percosse e la voltò verso di sè, mostrandole la sua faccia spaventosa.

Svenne.

Quando riaprì gli occhi, si ritrovò legata a un palo dalla vita e dalle gambe, con la bocca bendata, priva del suo camice, delle sue scarpe e persino delle sue calze, in un disastrato e isolato piazzale.

- Selvaggina fresca. - Gli occhi della dottoressa esprimevano tutta la sua paura e il suo disgusto per quella creatura che aveva davanti.

- Oh, su, guardami. Così possiamo divertirci assieme io e te, tutta la notte. Non ti rende felice? - fece una sonora risata.

Le si avvicinò, le strappò la manica della camicetta che aveva ancora indosso, le prese la mano e iniziò a leccarle le dita e poi tutto il braccio fin sopra la spalla, molto lentamente. La donna cercava di liberarsi ma le corde attorno al suo corpo erano strette, così strette, che ogni movimento veniva serrato tanto da bruciarlo. Di nuovo le prese la mano, si mise l'indice in bocca e la morse pungendola appena: come il fuso maledetto punse la bella addormentata nel bosco facendola cadere in un sonno profondo, così anche la dottoressa perse nuovamente i sensi.

Quando li riprese, un quarto d'ora più tardi, si ritrovò grondante di sangue, il suo sangue, le colava per tutto il corpo. Un dolore lancinante la permeava senza sosta.

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