I
La luce quella mattina irruppe attraverso la finestra avvolgendo il mio corpo come una coperta rovente.
La sensazione fu di una lieve scottatura, fastidiosa e calda, che finì col destarmi dal sonno.
Così ebbe inizio per me una delle tante domeniche di quel novembre che fino allora non aveva portato altro che pioggia. Mentre la maggior parte delle persone è consueta lamentarsi delle giornate piovose, reputate tristi, noiose... per me, invece, erano l'ideale: adoravo stare a osservare l'acqua cadere dal cielo, il susseguirsi di piccole gocce le une vicine alle altre, un tempo parte di un'unica fonte unita, per poi schiantarsi scrosciando per terra dividendosi in piccole chiazze sul suolo, separandosi forse per sempre, o magari finendo col rincorrersi e scivolare, come se stessero gareggiando per aggiudicarsi la vittoria di una corsa sui vetri. Trovavo bello quando separate poi si congiungevano l'una all'altra in un'unica goccia; come se separate fossero perse, affrettandosi così in una corsa repentina per unirsi in un'unica realtà. Adoravo l'odore del terreno bagnato una volta che la pioggia smetteva di cadere, quell'odore vittorioso di un terreno inumidito che ha sofferto la sete.
Non nutrivo nessuna simpatia per le giornate calde, limpide e perfette, perché nulla è perfetto; si trattava di una menzogna velata, di un'ingannevole illusione, prospettandotela come bella solo per far sorgere il tuo sorriso, facendoti alzare con la speranza di una giornata diversa, felice che, con molta più probabilità invece, si rivelerà uguale alle altre.
Non mi piaceva neppure il sole, ogni volta che l'incontravo per la prima volta, mi faceva starnutire, come fosse una spiacevole allergia; il suo calore mi bruciava, m'irritava la pelle facendomi spuntare arrossamenti cutanei a chiazze sulle parti del corpo alle quali esso veniva esposto per un lasso breve di tempo.
Ero ancora tramortita dal sonno. Ogni movimento risultava essere lento e faticoso. Avrei voluto dormire ancora, dopotutto, le domeniche esistono per riposare dopo una lunga settimana, nel mio caso di scuola.
Purtroppo però, una volta sveglia, non riuscivo più a addormentarmi, un motivo in più per avercela col sole. Sarebbe stato bello prendere da papà: capace di dormire ore e ore di seguito in qualsiasi luogo, anche se si trovasse in mezzo alla strada più trafficata e affollata della città, perfino se si trovasse appeso a testa in giù, dormirebbe, indisturbato da qualsiasi situazione o rumore.
Così andai in bagno, mi lavai la faccia, i denti, presi la spazzola e tornai in camera. Levai il pigiama e lo riposi piegandolo alla perfezione, onde evitare le lamentele della mamma che avrebbe sicuramente dato di matto se lo avessi lasciato un'altra volta buttato sul letto, misi la prima felpa che mi trovai sottomano e un paio di jeans scuri. Mi misi poi davanti allo specchio e cominciai a spazzolare i capelli, raccogliendoli in una coda. Notai una strana crosta sul collo, un taglio già risanato.
Strano, non ricordavo di averla avuta prima d'ora e neppure come e quando potessi essermela procurata, ne ero quasi sicura, la sera prima non c'era.
Riflettendoci, non ricordavo quasi niente della sera trascorsa: ero andata da Kimberly perché dovevamo andare al diciottesimo di un suo vicino di casa e l'annoiava andare da sola, ricordavo il suo vestito verde e le sue lamentele al mio abbigliamento a suo dire "troppo casual per un compleanno", che stava ancora adagiato sulla sedia davanti alla scrivania, nient'altro.
Andai di nuovo in bagno, cercai il fondotinta per coprire quella crosta mettendolo in maniera omogenea sulla pelle.
Scesi al piano di sotto, trovai la mamma davanti al suo solito tazzone di caffè, mio padre al tavolo con ancora gli occhi stanchi e il telecomando del televisore in mano e Matt sul divano col tablet.
Presi il latte dal frigorifero, mi riempii una tazza, ci misi dentro i cereali e mi sedetti anch'io a tavola.
- Buongiorno signorina, abbiamo fatto le ore piccole ieri sera. - Il tono della mamma non era tra i più calmi.
No, non ricordavo neppure quello, a che ora ero rientrata la notte precedente?
Quindi, non potendo ribattere, rimasi in silenzio.
- La mamma di Kimberly mi ha telefonato un paio di ore fa - continuò lei - era preoccupata, mi ha detto che Kimberly non ha potuto divertirsi perché era troppo occupata a cercarti in tutte le stanze di casa di Tom Patricks, senza riuscirci, così voleva sapere se fossi rientrata.
La mia mente stava cercando di capire cosa fosse successo quella sera, ma non riuscivo completamente a ricordare.
- Mi stai ascoltando? - il suo viso si fece serio - Dove sei stata realmente ieri sera? ... e cos'hai lì? - quella frase catturò l'attenzione di mio padre che si girò a guardare.
- Sei stata con un ragazzo, vero?
- No, io non... No. - risposi con un attimo di esitazione.
- No? E come me lo spieghi questo? È palesemente un succhiotto!
- Non sono stata con nessun ragazzo! Davvero.
- E dove saresti stata ieri sera?
- Non... Alla festa.
- Non eri con Kimberly, menti su di un palese succhiotto, trovo davvero difficile credere che tu sia stata realmente a quella dannata festa ieri sera!
Hai un ragazzo e non vuoi dircelo? Bene. Ma già lo trovo discutibile, se non ti fa rispettare gli orari di rientro, se gli permetti di allontanarti dalla tua amica lasciandola sola. Anzi, dovresti scusarti con lei, se vuoi il mio parere.
Odiavo avere quelle discussioni con i miei genitori, specie appena sveglia. Eppure non potevo controbattere, non avevo nessuna spiegazione da dare a me stessa, figuriamoci a loro.
Mi alzai sotto i loro sguardi arrabbiati, posai la tazza, presi il cellulare e feci il numero di Kim mentre mi diressi fuori.
Dopo un paio di squilli: - Pronto, Heloise? Sei viva allora! Mi hai fatto preoccupare lo sai?
- Così tanto da doverlo dire a tua mamma che si è sentita in dovere di chiamare i miei e ricevere così la sfuriata da parte di mia madre?
- Scusa, non potevo prevedere che potesse arrivare a chiamare, la conosci, l'ha fatto perché è apprensiva e... e poi ero veramente preoccupata anch'io, sei sparita dietro quel tipo, sai quante cose succedono di questi tempi, poteva farti del male, rapirti o... - la interruppi bruscamente: - Quale tipo?
- Hel, quello alto, moro. Ti sei incamminata con lui verso il giardino, ti ho visto andare, ma poi non sei più tornata. E a proposito! Bell'amica che sei, lo sai che noia mortale a quella festa? Per di più sola! - lo disse con un tono canzonatorio ma non serio - Su, dimmi, chi è quindi l'uomo del mistero?
- Non me lo ricordo, e a quanto pare avrei dovuto... Forse, forse mi ha lasciato un segno sul collo, puoi immaginare come sia andato su tutte le furie mio padre!
- Cosa? Insomma Hel, cose del genere non si dimenticano. Eppure non mi pare avessi bevuto chissà quanto. Sembrava un così bel ragazzo...
- Davvero? Non lo ricordo proprio. Non so come abbia fatto a dimenticare tutto.
Una voce si sentì provenire da lontano, era sua madre che le chiedeva aiuto per preparare il pranzo.
- Hel, scusami, ne riparliamo più tardi, devo andare, mia madre mi sta chiamando.
- Okay, vai, ci sentiamo dopo.
☽𓆩♛𓆪☾
Come al solito mi ritrovavo a fare tutto di corsa per colpa di mio fratello Matt. Se solo non si chiudesse in bagno tutto quel tempo per sistemarsi i capelli, accidenti, peggio di una donna.
Come se non bastasse, non si toglierà mai il vizio di mangiare non solo la sua, ma anche la mia colazione, facendomi perdere altro tempo per riprepararmela.
Era un'altra giornata di pioggia. Il sole di ieri sembrava essere sparito del tutto. A passo svelto cominciai ad andare, come di consueto, a casa di Kimberly per andare assieme a scuola.
La luce del giorno faceva fatica a spuntare, sarà colpa di questo cielo cupo, sembrava esserci, infatti, più buio del solito.
Tutto sembrava ancora dormire. Trovavi poca gente fuori a quest'ora del giorno. Mi piaceva osservare le persone appena sveglie che incorrevano nelle loro azioni abituali: il modo in cui alcune si godevano il risveglio salutando il nuovo giorno con movimenti freschi e riposati, o quelli che andavano di corsa, indice di una vita in carriera o di una vita frenetica. C'era la signora Gilmore, che puntualmente ogni mattina apriva le tapparelle di casa e osservava i passanti: io le accennavo sempre un saluto, anche se lei faceva finta di non essere lì a guardarmi.
Oppure la signora Drow, che usciva da casa tutta di corsa, con la sua eleganza: oggi indossava un tailleur color zecchino pallido e portava i capelli raccolti in un improvvisato chignon.
Pier, il panettiere, già tutto sporco di farina, metteva subito allegria col suo viso pacioccone e le sue espressioni pacate, scambiava con tutti quelli che si trovavano a passare di là saluti amichevoli: - Salve signorina Heloise, come sta questa mattina?
- Buongiorno Pier, non c'è male, grazie.
Eppure, oggi avevo una sgradevole sensazione, come se fossi seguita, ma guardandomi attorno non vedevo nessuno, niente, solo passanti, oggetti che apparivano più cupi, la strada più buia e stretta, come se volesse intenzionalmente soffocarmi. Sarà colpa di quelle nuvolone cariche di pioggia che sovrastavano il cielo.
Qualcosa però mi apparve dinanzi, non ebbi il tempo di capire cosa fosse perché scomparve subito, lasciando il mio cuore a tamburellare a ritmo sempre più incalzante, lasciandomi innervosita; non ero mai stata una ragazza che si lascia spaventare facilmente, specie senza un motivo valido, ma inconsciamente continuavo a guardarmi alle spalle e a proseguire a passo sempre più spedito, quasi correndo, verso casa di Kim.
- Buongiorno Hel. Ehi, cosa ti è successo? Perché quel fiatone?
- Eh? No niente... Ho fatto tardi a causa di Matt, come sempre. - Accennai un sorriso che non avrebbe convinto neanche me stessa, ma lei sembrò non farci caso e iniziò a parlare della festa, di quanto fosse stata mal organizzata, della noia che fu costretta a sopportare, di quanto insomma, poco si fosse divertita.
- Quelle due streghe delle sorelle Lewis proprio non le sopporto, quante arie si danno. Che poi per cosa? Il loro vestito era orrendo, chi metterebbe il rosa pesca per un'occasione notturna? Non credi?
Mentre Kim blaterava sulle sue solite attenzioni verso futili cose cui non badai molto, sopra il terrazzo di una casa, vidi un tizio vestito interamente di nero, che mi fissava. - Ma mi stai ascoltando? Cosa stai... - e guardò nella mia stessa direzione, ma non poté vedere nulla, nuovamente era sparito. Forse mi ero fatta assoggettare troppo dalle mie emozioni.
- Allora, non c'è niente che tu voglia dirmi? Magari parlare di qualcuno di più interessante?
- No Kim, non saprei che dirti. Non capisco come mai, ma non ricordo proprio nulla.
- Se tu non fossi la mia migliore amica, penserei che ti diverti a mentirmi, o che ti nascondi da me. Cosa che mi ferirebbe parecchio, per inciso - alzò il suo dito, che mi puntò contro, colpevolizzandomi.
- Lo sai che non lo farei mai, chi farebbe mai questo alla dolce Kim, rischiando la sua ira? - risi, non sapendo che pesci prendere.
☽𓆩♛𓆪☾
La prima ora era già passata, adesso in classe c'era il professor Joseph, l'unico professore che sa rendere le lezioni di storia un po' meno noiose del previsto, non manca di discorsi profondi e riflessivi, ma almeno questi sono intervallati da battute, spesso poco attinenti alla lezione, ma molto gradite dagli studenti.
Un uomo affascinante, se ti piace il genere, non bello, ma che sa parlare con gran proprietà linguistica e sa catturare la tua attenzione. Quella mattina però, non ebbe successo con me, pensavo sempre alle parole di Kimberly, a quelle di mia madre, non potendomi dare pace per la mancanza totale di ricordi.
Decisi di uscire dalla classe, giusto per distrarmi un secondo, varcai la porta del bagno e poggiai le mani sul lavello.
Dallo specchio vidi qualcosa muoversi fulmineo, come quando si guarda attraverso il fuoco l'aria ondeggiare, qualcosa d'impalpabile ma esistente. Tornai in classe.
All'intervallo uscii con Kim e qualche altra compagna per mangiare uno snack, anche se non avevo particolarmente fame.
Qualche goccia di pioggia cominciò a bagnarci il viso.
- Proprio ora doveva mettersi a piovere? Poteva attendere giusto quei dieci minuti, il tempo di farci fare una pausa come si deve - borbottò Kimberly che seguita dalle altre, andò a ripararsi dentro.
Le lasciai entrare mentre mi sedetti su una panchina.
Un dolore acuto improvvisamente punse la mia mente come uno spillo conficcato sulla testa.
Sequenze di immagini vorticavano confuse in pensieri indesiderati e in rapida successione temporale presero a susseguirsi proiettando visioni sfocate, apparentemente senza senso che, assieme a un turbinio di emozioni, presero ad attivarsi come catalizzatori alla luce.
Distintamente vidi un ragazzo, dai lunghi capelli neri.
Il suo cipiglio era così ammaliante che non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Il suo sorriso, appena accennato, era un ghigno quasi malefico.
I suoi capelli lucidi, neri corvini e, infine, il suo viso: levigato, perfetto, come di porcellana.
Sapevo di essere totalmente calamitata da lui.
Kimberly sorseggiava uno spritz, sorridendo e godendosi la festa. Io volevo solo raggiungerlo.
Nonostante qualcosa m'incutesse paura. Frenata, rimasi immobile a guardarlo eretto nella sua postura sicura; teneva un'espressione di sfida e compiacimento. Sembrava uno di quei ragazzi descritto dalle madri come "poco di buono", uno di quelli dal quale si viene raccomandate a non avvicinarsi.
Tuttavia, sentivo il bisogno di avvicinarmi, farmi avanti e chiedergli chi fosse.
Mi vidi mentre percorrevo pochi passi in avanti, cauti, col cuore che mi batteva forte senza sosta, trasmettendomi ansia e insicurezza. Il fiato corto, i brividi freddi alla pelle. Tutto attorno a me sembrava restringersi e sbiadire, come in quelle foto in cui tutto ciò che ti circonda è opaco e la messa a fuoco concentrata in un unico soggetto, lui.
Volevo urlare alla me della sera prima di voltarsi e tornare indietro, ma la mia voce era muta, il mio arbitrio incontrollabile: spettatrice silente di azioni e di parole.
L'intervallo doveva già essere terminato, ma non riuscii a muovermi poiché avvertii un forte dolore alla testa e le mie mani strinsero le tempie cercando di arrestarlo.
Una seconda visione.
Il sangue lambiva la sponda della strada, riversandosi dentro un tombino posto sotto il cornicione di un marciapiede. Il gorgoglio di quel liquido risuonava tempestosamente sciabordando verso il suo interno, attraverso la grata rugginosa.
Colava giù gocciolando dagli arti distali superiori che ne erano insudiciati, i miei. Istintivamente, le dita tremanti risalirono ad altezza del mio naso, imbrattando il volto.
Quel liquido ferreo non aveva l'odore di qualcosa che mi appartenesse, di chi era?
Nessuno era più nei paraggi, erano tutti andati a ripararsi dalla pioggia che continuava a cadere, mentre io stavo lì inzuppata d'acqua capace e incapace, al tempo stesso, di fare altrimenti. L'assenza di persone rendeva quel momento solo più strano. Il tempo sembrava essersi fermato e andare avanti solo per me che continuavo a intravedere l'ombra di quel ragazzo nei ricordi della mia quotidianità.
- Ciao, Heloise.
La sua voce.
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