Capitolo secondo
Quando Steven aprì gli occhi, il mondo attorno a lui sembrava vibrare di una vita propria. Ogni dettaglio, ogni sfumatura si impresse nella sua mente con la forza di un'onda che si infrange sulla riva. I colori erano più vividi di quanto avesse mai visto, e l'aria era intrisa di un profumo terroso che gli riempiva i polmoni, un misto di freschezza e mistero.
Si trovava in una grande piazza, la porta alle sue spalle era svanita, come se non fosse mai esistita, lasciandolo solo con l'immensità dello spazio aperto. Non vide nessuno ma sentì delle voci. E nonostante il suo primo pensiero fosse quello di andare a cercare quelle persone rimase lì immobile.
La piazza nella quale si trovava era un cerchio perfetto, pavimentato con lastre di cemento bianco che brillavano sotto il sole. Intorno, un mare di terra arida si estendeva a perdita d'occhio, privo di vegetazione, come se la vita avesse deciso di risparmiare quel lembo di mondo. A breve distanza, un capannone imponente si ergeva, muto e cieco, senza porte né finestre, un monolite che custodiva segreti insondabili. Accanto, una serra gigantesca si stendeva, un cristallo colmo di promesse verdi, un contrasto vivido con la sterilità circostante.
Sull'altro lato della piazza, tre edifici si stagliavano contro il cielo. Due erano gemelli, massicci e silenziosi, con portoni che sembravano bocche di leviatani addormentati. Tra loro, un edificio più modesto fumava, una piccola canna fumaria che sputava volute di fumo scuro. Tavoli da picnic lo circondavano, macchie marroni su un tappeto di terra, e Steven intuì che doveva trattarsi di una cucina, un cuore pulsante di vita quotidiana.
La vista del fumo lo convinse che non era solo. Decise che, una volta ripresosi dallo shock iniziale, avrebbe esplorato quel luogo. Ma prima che potesse muovere un passo, una mano inaspettata si posò sulla sua spalla, facendolo trasalire. Quando si girò rimase sorpreso, non sapeva bene cosa si aspettasse ma sicuramente il pensiero che "l'aggressore" potesse essere un ragazzo della sua età, con uno sguardo vivace e un'espressione scusante non lo aveva minimamente sfiorato.
"Scusa" disse velocemente quello "Non volevo spaventarti, pensavo fossi quel cretino di Gabriel" aggiunse con uno sbuffo. Poi guardò Steven negli occhi aggrottando le sopracciglia "Sei nuovo?" chiese infine.
Steven lo guardò intimorito poi annuì. "Wow, cinque in un giorno solo, nuovo record!" disse a gran voce scatenando un forte eco. "Sono Aldrich, piacere" disse frettoloso allungando la mano verso di Steven che gliela strinse. "Piacere mio, io sono..."
Bam, sapeva che sarebbe arrivato questo momento, ma dirlo ad alta voce gli risultò ancora più difficile di quanto avesse immaginato. Aldrich gli sorrise e nel farlo i suoi occhi, già microscopici, si fecero ancora più piccoli "Non preoccuparti, le prime volte sono le più difficili" Steven sbuffò ma ricambiando, però, il sorriso "Sono James" disse
"JONATHAN" urlò Aldrich improvvisamente facendo, nuovamente, sobbalzare Steven. "È ARRIVATO UN RAGAZZO NUOVO" continuò, girandosi verso il capannone
Steven lo guardò confuso, anche se non c'era molto di cui essere confusi. Dal capannone uscì un ragazzo che con un passo veloce si avvicinò a loro, la luce accecante del sole rendeva difficile distinguere i suoi tratti, ma man mano che la sua figura si delineava, Steven notò la pelle scura, le spalle larghe e la statura leggermente superiore alla sua. Contrariamente ad Aldrich il ragazzo non mostrava segni di fatica o sporco; i suoi vestiti erano quelli di tutti i giorni, puliti e ordinati, l'unico dettaglio che spiccava erano i suoi occhi, insolitamente arrossati.
"Un altro?" La voce del ragazzo era sorprendentemente meno profonda di quanto Steven avesse immaginato, quasi fuori luogo rispetto alla sua presenza imponente. Aldrich rispose con un gesto evasivo, quasi come se la risposta fosse ovvia. "Com'è che hai scelto di chiamarti?" chiese, fissando Steven con uno sguardo penetrante. "James," rispose Steven, la voce ancora carica di disagio nel pronunciare quel nome che non sentiva suo.
"Mi chiamo Jonathan," continuò il ragazzo, "scusa per l'accoglienza un po' brusca, ma non è normale che arrivino così tante persone tutte insieme. Ti faccio fare un giro." Il tono di Jonathan era leggermente infastidito, come se l'intera situazione fosse una lieve deviazione dalla routine a cui era abituato.
La conversazione si spostò rapidamente su Aldrich, che sembrava essere fuori posto. "Tu, invece, non dovresti essere a lavoro? Come mai sei qui?" La domanda era diretta, e Aldrich, colto di sorpresa, arrossì visibilmente. Senza rispondere, fece un rapido gesto di saluto a Steven e si precipitò verso la serra lasciando i due da soli
Jonathan attese un momento prima di schiarirsi la gola, come per segnare l'inizio di una nuova fase. "Bene," disse con un tono che cercava di essere accogliente, "benvenuto ufficialmente nella fase seconda, James. Seguimi, ti faccio vedere la camerata."
Senza attendere una risposta, Jonathan si incamminò verso i due edifici gemelli, e Steven, ancora incerto sul da farsi, decise di seguirlo. Davanti a uno degli edifici, Jonathan aprì il portone con un gesto meccanico, rivelando un interno sorprendentemente ampio. Il soffitto era altissimo, costruito con un materiale trasparente che rifletteva la luce in modo quasi magico. Al centro, un corridoio era fiancheggiato da due file di letti a castello. Steven notò subito che i letti inferiori erano disordinati, mentre quelli superiori erano ineccepibili.
"Questa è la camerata maschile" disse Jonathan a gran voce, il suono rimbalzò sulle pareti scatenando un insopportabile eco. "Mi dispiace per te ma i letti di sotto sono tutti occupati. Ti toccherà il sole in faccia" disse con una risata contenuta "Dormirai qui" gli indicò uno dei primi letti rispetto all'entrata "Proprio sopra Isaac, sono sicuro che non gli darai fastidio"
Steven guardò il letto assegnatogli per qualche secondo: terzo dall'entrata, a sinistra si disse, sperando di ricordarsene. "La sveglia è alle sette ma probabilmente il sole ti sveglierà molto prima. Ci farai l'abitudine. L'edificio uguale al nostro è quello delle femmine, non siamo autorizzati ad andarci, così come loro non sono autorizzate a entrare qui" gli spiegò il ragazzo nero velocemente, probabilmente non era la prima volta che faceva quel discorso. Steven annuì e seguì il ragazzo fuori dalla camerata.
Stavolta Jonathan lo portò davanti a quella che Steven aveva identificato già prima come la cucina. "Non sei autorizzato ad entrare neanche lì. Quella è la cucina, ci possono entrare solamente i cuochi e i capi" disse
"Capi?" chiese Steven aggrottando un sopracciglio. Era sorpreso, possibile che ci fossero degli adulti?
"Io sono il capo dei maschi, Enid quella delle femmine. Cosa pensavi? Che saresti arrivato qui e avresti fatto il bello e il cattivo tempo?" chiese scettico buttando gli occhi al cielo prima di rispondere. Steven scosse la testa arrossendo leggermente. La verità è che non aveva pensato ad un bel niente, ma questo a Jonathan non lo disse. "Si cena alle otto precise, colazione tra le sette e le sette e mezza e il pranzo alle due" lo informò Jonathan cambiando di nuovo direzione senza avvisarlo.
Adesso si stavano dirigendo dall'altro lato della piazza, verso il capannone e la serra. Steven camminava dietro di Jonathan, ogni secondo più confuso dalla situazione. "Vuoi un consiglio?" chiese Jonathan senza voltarsi a guardarlo. "Certo" disse Steven annuendo nonostante l'altro ragazzo non potesse vederlo.
"Inizia a pensare a te stesso come James, non come chi eri prima, ti renderà le cose più facili"
Facili? La parola sembrava una beffa, un eufemismo crudele per la tempesta emotiva che si scatenava nel suo petto.
James. Il nome si posava sulla sua identità come un vestito troppo largo, scomodo e estraneo. Ogni passo che faceva come James lo allontanava dal ragazzo che era stato, dal figlio amato, dall'amico fidato. Steven sentiva il peso di quel nome come una corona di spine, ogni sillaba un promemoria di ciò che aveva perso e di ciò che gli era stato imposto.
Il suo vero nome, quello dato dai suoi genitori, era l'ancora che lo teneva legato al ricordo di una vita normale, di una casa piena di risate e calore, di giorni spensierati e notti serene. Era l'eco di una ninna nanna sussurrata al crepuscolo, il suono del suo riso mentre correva nel parco sotto lo sguardo orgoglioso di suo padre, il tocco delicato di sua madre mentre gli accarezzava i capelli.
Ora, mentre il sole iniziava a declinare, tingendo il cielo di sfumature arancioni e viola, Steven si sentiva come se stesse camminando verso il tramonto della sua stessa essenza. La richiesta di abbandonare il suo nome era come chiedergli di lasciare un pezzo della sua anima su quella terra arida, di dimenticare chi era per diventare qualcuno che non riconosceva.
La turbolenza dei suoi pensieri era un mare in tempesta, onde di dubbi e paure che si infrangevano contro la scogliera della sua determinazione. Eppure, in mezzo a quella marea di emozioni, una voce interiore sussurrava che forse, solo forse, abbracciare questa nuova identità poteva essere l'inizio di un percorso di crescita, un modo per onorare il sacrificio dei suoi genitori e forgiare un futuro che fosse degno del loro amore.
Con un sospiro che sembrava portare via parte del suo dolore, Steven alzò lo sguardo verso il cielo che si oscurava, cercando un segno, una guida.
"Già, non direi facile," rispose con un'espressione che oscillava tra il dubbio e l'accettazione, mentre un mezzo sorriso si disegnava sulle sue labbra. Nel profondo, però, una certezza si faceva strada: il ragazzo nero aveva colto nel segno. E poi, se lui era lì, era inevitabile che i suoi genitori ne fossero a conoscenza. Ma fino a che punto? Avevano forse dato il loro benestare, o peggio ancora, era stata una loro iniziativa? Era possibile che volessero davvero che rischiasse l'ignoto, solo per restare ancorato a qualcosa che gli era stato imposto, da qualcuno che, forse, lo aveva spedito incontro alla morte?
Jonathan non fornì risposta, ma dopo un breve silenzio, riprese a parlare, deviando la conversazione su un binario diverso. "Preferisci i lavori con le mani o quelli che richiedono ragionamento?" chiese, fermandosi in quel limbo incerto tra il capannone e la serra. James lo osservò, titubante. "Puoi dirmi cosa ti piace, l'importante è che tu non dica cosa sai fare. Fidati, non mi stai rivelando nulla del te di prima, non ti faranno nulla"
James lo guardò per qualche istante ancora tentennante "Non mi piacciono i lavori manuali" rispose. Accanto a lui Jonathan annuì poi si girò verso il capannone, James lo seguì ormai abituato all'idea che ciò che voleva fare lui non contava molto. Jonathan lo guidò sul retro fino a fermarsi davanti ad una apertura. Una porta. James notò immediatamente che era la stessa porta che lo aveva portato lì, la stessa che si era volatilizzata nel nulla prima ancora che lui potesse realizzare di averla aperta.
Jonathan bussò e dopo qualche secondo qualcuno aprì. Era un ragazzo anche lui. Vestito esattamente come Jonathan. Era più alto del ragazzo nero e di James e aveva i capelli del colore della paglia. "Allora non era uno scherzo" disse con un ghigno "Cinque in un giorno. Record"
James abbassò lo sguardo e la consapevolezza che gli occhi di quel ragazzo lo scrutavano lo fece arrossire.
"Stai zitto Isaac" lo ammonì Jonathan "Non farti odiare subito, questo qua dormirà sopra di te" disse facendo segno al ragazzo biondo di fare un passo indietro dando la possibilità a lui e James di entrare.
James alzò lo sguardo, evitando di incrociare quello di chiunque altro, e si concesse diversi secondi per osservare l'ambiente che lo circondava. Anche quella stanza era ampia e spaziosa. Al centro troneggiava un tavolo bianco, circondato da sedie, quasi tutte occupate da altri giovani, alcuni dei quali si erano voltati a osservarlo. Tutti erano impegnati in qualche attività: c'era chi scrutava nel microscopio, chi annotava su fogli sparsi, chi era assorto nella lettura. In quel momento, James notò che tutti indossavano lo stesso tipo di abbigliamento, e che anche lui non faceva eccezione. Chiunque fosse stato a organizzare tutto ciò, aveva pensato davvero a ogni dettaglio.
"Isaac portalo dagli altri nuovi, spiegagli cosa deve fare. Io vado a vedere se gli altri hanno qualcosa da dirmi" ordinò Jonathan voltando le spalle. Involontariamente gli occhi di James si concentrarono di nuovo sul ragazzo biondo che era ancora intento a scrutarlo. I loro sguardi si incontrarono e lui gli sorrise "Sono Isaac, piacere" disse tendendogli una mano "James" rispose quello ricambiando il sorriso e stringendogli la mano.
"Di quelli arrivati oggi solo una ragazza ha preferito qui alla serra ma non sembra simpatica. Anzi. Sembra una di quelle cretine atomiche che si crede chissà chi" Lo informò Isaac indicandogli una ragazza seduta all'estremità opposta del tavolo. James strizzò gli occhi cercando di metterla a fuoco. Non riuscì a distinguere molto i suoi lineamenti, anzi l'unica cosa che vide per bene erano i suoi lunghi capelli corvini, gli diede l'impressione una ragazza composta e perfezionista.
"Perché dici così?" chiese James a Isaac, la voce un sussurro quasi inudibile. Isaac trattenne il respiro, un sorriso malizioso giocava sulle sue labbra mentre rispondeva: "Ha scelto di chiamarsi Afrodite," disse con un tono che oscillava tra lo stupore e l'ironia. "Difficilmente si può considerare umile una persona che si attribuisce il nome della dea della bellezza." James si voltò verso Isaac, sollevando le sopracciglia in un gesto di tacita comprensione, un sorriso timido ma complice gli sfiorò le labbra. "In effetti," concordò.
"Sai, ho pensato di risparmiarti l'incombenza di subire l'orientamento con quella strega," disse Isaac, un ghigno compiaciuto che gli sollevava un angolo della bocca. "Se dovrai dormire sopra di me, è inevitabile che finiremo per diventare amici, non credi?" James lo scrutò, una mano appoggiata al fianco in un gesto quasi ironico. "Suppongo di sì," rispose.
"Grandioso!" esclamò il ragazzo biondo, mentre passava un braccio intorno alle spalle di James. Quest'ultimo lo guardò dapprima con sospetto, ma poi si lasciò condurre senza resistenza. Isaac lo guidò tra gli altri, che per fortuna sembravano ignorarlo, e lo fece accomodare su una sedia.
"Bene, ehm... aspettami qui un attimo. Torno subito," disse Isaac, allontanandosi con passo rapido e deciso. James lo seguì con lo sguardo, e fu in quel momento che il senso di surrealtà, che aveva sfiorato all'inizio, tornò a manifestarsi. Tutto ciò era assurdo, quasi onirico.
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, poi premette l'indice nel centro del palmo con tutta la forza che aveva. Non era un sogno. Se lo fosse stato, il dito avrebbe attraversato la mano come fosse nebbia; invece, sentiva l'unghia affondare nella carne. Era tutto dolorosamente reale.
Fu una voce a interrompere i suoi pensieri. "Sei il nuovo?" chiese. James alzò lo sguardo e si trovò di fronte, dall'altro lato del tavolo, una ragazza che sembrava di poco più grande di lui. I suoi occhi erano di un colore ambiguo; inizialmente gli parvero marroni, ma dopo un attento esame, giurerebbe di averli visti mutare in una tonalità tra il grigio e il verde. I capelli castani erano raccolti in una coda di cavallo disordinata, e lo squadrava con un sopracciglio sollevato in un'espressione interrogativa.
"Sono arrivato da poco, mi chiamo James," rispose, riprendendosi dal suo momento di riflessione. La ragazza gli offrì un sorriso forzato. "Io sono Enid. Cosa ci fai qui? Non dovresti essere con Afrodite?" chiese con un tono di evidente fastidio, simile a quello usato da Jonathan in precedenza. "Io... Isaac mi ha..." iniziò James, ma Enid lo interruppe. "Dovevo immaginarlo. Per ora fai quello che ti dice Isaac. Da domani, ascolta sempre me e Jonathan," disse con un sospiro di esasperazione. "Se hai bisogno di qualcosa, sto facendo l'orientamento con Afrodite," aggiunse, allontanandosi.
James la salutò con un gesto della mano, riflettendo su quanto fosse strano non essere ancora riuscito a instaurare una vera conversazione con nessuno. Possibile che tutti scappassero prima che lui potesse capirci qualcosa? Cos'era una specie di cospirazione?
Un' ulteriore distrazione arrivò inaspettata, un'interruzione dei suoi intricati pensieri. Era Isaac, che era tornato portando con sé due vasi, ognuno ospitante una stupenda pianta di pomodori. I frutti erano di un rosso vivido e invitante, splendenti come gemme sotto la luce soffusa. Il ragazzo si accorse solamente in quel momento del vuoto che aveva nello stomaco, una fame improvvisa che gli fece dimenticare per un attimo la confusione dei suoi pensieri. La vista di quei pomodori così perfetti, così intensamente rossi, era come un richiamo alla realtà, un promemoria della vita che continuava nonostante tutto.
Isaac posizionò i vasi sul tavolo con un gesto delicato e soddisfatto, poi si accomodò accanto a James. "Sono belli, eh?" chiese, con un sorriso che aveva qualcosa di canzonatorio.
James si voltò verso di lui prima di rispondergli, e per un istante i loro sguardi si incrociarono, si agganciarono l'uno all'altro. Mantennero quel contatto visivo per parecchi secondi, e per James fu come se stesse osservando un'apparizione, quasi addirittura un'entità sfuggente come un fantasma. Gli occhi di Isaac erano calmi, trasmettevano una tranquillità insolita, un'aura di mistero che sembrava avvolgerlo in un velo di ombra e silenzio. Era come se stesse fissando attraverso Isaac, verso qualcosa di invisibile, qualcosa che era lì ma non completamente presente.
"Sono belli," rispose James infine, dopo qualche secondo, utilizzando involontariamente un tono di voce basso e sommosso. Isaac gli sorrise
"L'apparenza inganna ogni tanto" disse Isaac improvvisamente rompendo quella strana serenità che si era creata, con un tono meno allegro. Poi, con movimenti veloci e automatici, tirò fuori dalla tasca un paio di guanti in lattice color ospedale e li indossò. James osservò ogni suo movimento con un espressione confusa.
Con una precisione scrupolosa Isaac staccò da una delle due piante un pomodoro e delicatamente infilò un dito al suo interno aprendolo. L'interno era ancora migliore, se possibile, dell'esterno. Un po' di succo cadde sul tavolo a goccioline sporcandolo di un rosso quasi trasparente. "Questo è bello, mangiabile" gli disse Isaac rivolgendo a James uno sguardo veloce. Posò poi il vegetale sul tavolo tirando fuori dalla tasca un fazzoletto di stoffa. Lo avvolse intorno al pomodoro poi lo passò a James "Mettilo in tasca. Mi ringrazierei dopo" gli disse accennando un sorriso che sembrava nascondere un'intera storia non raccontata.
Aspettò che James facesse come gli era stato detto prima di eseguire il gesto successivo che fu rapido, quasi brusco. Isaac afferrò il pomodoro dall'altra pianta e, con un'espressione carica di apprensione, lo aprì. La rivelazione fu scioccante: l'esterno era un inganno, una maschera di perfezione che celava un interno corrotto e marcio. Un odore nauseabondo si levò all'improvviso, assalendo le narici di James che, istintivamente, si ritrasse con una smorfia di disgusto. Isaac sospirò con disappunto e ripose il pomodoro marcio nel vaso.
"Noi lo chiamiamo virus ipocrita," spiegò Isaac, mentre James non riusciva a distogliere lo sguardo da quella che era stata un'illusione di perfezione. "Ipocrita?" ripeté James, la parola gli uscì dalle labbra come un eco. Isaac sospirò, "Sì, perché fa sembrare tutto ciò che è vivo bello all'esterno, ma marcio all'interno. Non è un nome che avrei scelto io, ma non sono io a decidere."
James si costrinse a distogliere lo sguardo da qualsiasi cosa quella roba fosse e guardò il volto di Isaac "Cosa significa?" chiese con tono tentennante "Si insidia dentro tutto ciò che è vivo e lo marcisce dall'interno in un processo terribilmente lungo" cominciò a spiegargli Isaac rimuovendo lentamente i guanti. "Contagia letteralmente tutto ciò che ci va a contatto. Anche semplicemente attraverso i fori della pelle, per questo i guanti"
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