1.
Fin dove si è disposti ad arrivare per raggiungere i propri obiettivi? Ultimamente me lo chiedo spesso. Inizio a domandarmelo al suono della sveglia, puntata alle 6 dei giorni feriali. La colazione quasi inesistente, un succo di frutta o un tè caldo, non ho mai fame alla mattina. Poi arriva mia madre a dirmi: "la colazione è il pasto più importante di tutta la giornata" e mi guarda aspettando che metta qualcosa sotto i denti, ma io proprio no, mi viene la nausea solo a vedere i biscotti da inzuppare nel tè o la ciambella nella tortiera. Mi lavo, mi vesto, raccolgo i capelli in una coda di cavallo bassa, mi trucco, cancello le occhiaie della mia insonnia con il correttore, spendo cinque minuti per occhio per disegnare la linea dell'eye-liner, mi spruzzo un po' di profumo alle rose, mi guardo allo specchio e mi faccio coraggio con lo sguardo per affrontare un'altra giornata di lavoro.
Salgo sul treno, dopo una buona mezz'ora passata a: fumare una sigaretta camminando, aspettare l'autobus che arriva sempre con qualche minuto di ritardo, cercare le cuffie fra il marasma della mia borsa, scendere dall'autobus e iniziare a correre verso la stazione per non perdere sto dannato treno. E quindi praticamente il trucco, i capelli, tutto è di nuovo in disordine. Mi metto a sedere su una poltroncina azzurra attaccata al finestrino, prendo lo specchietto dalla tasca interna della borsa e riparo il riparabile.
Fin dove sono disposta ad arrivare per raggiungere i miei obiettivi? Ho studiato, mi sono laureata in storia dell'arte, mi è sempre piaciuta l'arte. Ma gli sbocchi lavorativi non esistono. Lavoro al contatto con l'arte, in un museo, ma ferma e seduta tutto il giorno, al bookshop. Vendo cataloghi di mostre passate o in corso, metto in ordine, conto i soldi nella cassa, distribuisco audioguide. Tutto il mio impegno degli anni dell'università, l'entusiasmo provato il giorno della mia laurea, la speranza di trovare un lavoro per il quale ho studiato duramente, tutto ciò sta perdendo valore giorno dopo giorno dietro ad un banco pieno di cianfrusaglie con il codice a barre stampato sopra.
Perdo lo sguardo nel paesaggio fuori, fra le ferrovie che lasciano la stazione, la ghiaia, i fili elettrici da palo in palo, gli alberi, le balle di fieno nei campi. La musica che sento nelle orecchie, che nemmeno ascolto, viene poi interrotta da un messaggio. Svogliatamente sblocco lo schermo del cellulare.
Em, hai visto?
Un'immagine, inviata da Silvia, la mia amica. Uno screenshot, dalla home di Facebook, raffigurante una foto del mio ex, insieme ad un'altra.
Ora sì.
Rispondo a Silvia.
E non dici niente?
Be', che dire. Ci sarebbe molto da dire.
Ci sarebbe che vorrei dirgli tante cose. Che lo amo ancora, che non riesco ad amare nessun altro se non lui, che non mi amo io, che mi manca, che a volte, quando mi sveglio, mi giro sul fianco e allungo le braccia come per abbracciarlo, ma lui non c'è e mi sento una cretina ad immaginarlo sdraiato accanto a me. Ma dirgli queste cose, sarebbe inutile. Non tornerebbe come prima, non tornerebbe lui.
Siamo stati insieme più di tre anni e mezzo e la nostra relazione è finita ad agosto. Siamo in ottobre adesso. Ci sarebbe da dire anche che, a quanto pare, sono facilmente dimenticabile vedendo questa foto. È passato così poco tempo, sembra che gli sia bastato per cestinare i nostri tre anni e mezzo inoltrati.
Ottimo, era già iniziata di merda sta giornata ancor prima di scoprire questo.
× × ×
– Emma, hai da cambiare 50 euro con pezzi piccoli?
Mi chiede Ginevra, la mia collega della biglietteria del museo.
– Certo, tieni.
Prendo i 50 euro e li metto nella cassa, scambiandoli con una banconota da 20, una da 10, quattro da 5.
Al momento c'è la mostra in corso, ancora per poco più di un mese, di Escher. Uno dei tanti artisti contemporanei che non viene preso in considerazione dalle scuole o dalle università. Non si studiano artisti come Escher, ma sempre gli stessi: Duchamp, Magritte, Wharol, Rothko, Koons, Abramovic, Fontana... e tantissimi altri, ma artisti come Escher, non si trovano nei libri di storia dell'arte, ma nei musei d'arte contemporanea come quello in cui lavoro. Ovviamente, prima che questa mostra prendesse il via, avevo già sentito parlare di Escher, ma senza sapere effettivamente chi fosse. Tuttavia, lavorare al bookshop ha i suoi vantaggi: quando ci sono pochi visitatori, leggo i cataloghi rovinati che non sono in vendita e sono riuscita a farmi una cultura su Escher.
Lavoro da giugno, con un contratto part-time a tempo determinato di un anno. Un part-time orizzontale, 16 ore a settimana, turni che posso scambiare con l'altra collega, Giorgia. Una ragazza acida, quando mi formò per avere le basi di questo lavoro non mi spiegò correttamente le mie mansioni ed i primi giorni mi sono trovata letteralmente nel panico. Per fortuna, sono stata aiutata da Ginevra, ma ho commesso comunque dei piccoli errori e Giorgia si è infuriata dopo essersene accorta. In realtà, si arrabbia spesso, ma non solo per i possibili errori o distrazioni che commetto, a volte sembra che ciò che la faccia scattare sia proprio la mia faccia. Ci diamo il cambio turno tutti i giorni e noto benissimo come mi guarda appena arriva, alza gli occhi al cielo, poi mi riempie di domande.
Tutto a posto qui?
Hai contato i soldi, ci sono?
Quante persone ci sono?
Quanto hai venduto?
Hai rifornito il banco?
Le audioguide sono cariche?
Insomma, mia madre mi chiede meno cose. Ho 24 anni, so badare a me stessa e non sono arrivata ieri, lavoro qui da 5 mesi, ormai ho imparato. Le vorrei dire così, ma non sapendo mai con certezza come possa reagire rispondo con formalità.
× × ×
Torno a casa che sono le quattro del pomeriggio, finisco di lavorare alle due e mezza quando ho il turno della mattina, alle sette di sera quando ho quello del pomeriggio.
In ogni caso mi sveglio sempre alle 6 di mattina anche quando ho i turni fino alle sette. In quel tempo libero mi dedico alle mie passioni, una di queste è fare cosplay. Uno svago, per così dire, una fuga dalla realtà. Ultimamente poi, mi estraneo molto spesso da essa date tutte le brutte situazioni che si sono create nella mia vita. Scelgo un weekend, scelgo il costume, vado con i miei amici alle fiere e mi diverto. Non penso a nulla se non al divertimento, al bisogno di sfogare le frustrazioni della quotidianità.
Ci sono persone che di questa passione ne hanno fatto un lavoro. Non hanno avuto bisogno di farsi il mazzo di studiare, arrivando a laurearsi, per poi andare a fare tutt'altro per cui si sono impegnati tanto. Be', un po' li invidio. Fanno quello che amano e vengono pagati mensilmente per farlo.
Io, invece, mi sento una fallita. Tutta la mia vita è un fallimento. Vorrei andarmene di casa, iniziare ad essere autonoma, ma con il lavoro che ho riesco a malapena a permettermi il parrucchiere. Per racimolare qualcosa in più, da spendere solo e unicamente per i cosplay, ho aperto un negozio online dove vendo le mie foto. Vendo me stessa a internet, il mio corpo, la mia intimità. Probabilmente le persone che comprano quei contenuti si masturbano su di essi ed io divento un oggetto. Un oggetto sessuale, alla portata di tutti.
Silvia, che è la mia amica, mi invidia perché riesco a mettermi da parte quei soldi, anche se sono sporchi. Ammetto che da un lato non dispiace nemmeno a me, sentirmi desiderata e pensare che la gente è disposta a pagare pur di vedermi mezza nuda mi fa sentire per metà schifata e per metà appagata. Ma arrivare a ciò per avere due spicci in più, per potersi permettere le stoffe con cui cucire i costumi o i materiali necessari per costruire le armi o anche le parrucche da comprare su internet, lo sento come un fallimento.
Poi c'è Arianna, l'altra mia amica, con cui mi svago in altri modi e situazioni. Quando sono con lei, metto da parte la mia indole strana di cosplayer, e sono ma ragazza normale che fa cose normali. Ad esempio alla nostra età ci è ancora concesso di andare in discoteca. Bene, andiamo in discoteca. Entriamo a mezzanotte e ne usciamo alle quattro o alle cinque del mattino. Da agosto a oggi veniamo anche accompagnate da ragazzi, sappiamo quello che vogliono e siamo disposte a darglielo. Tanto, chi ci trattiene?
Io non mi sento in colpa, è la società di cui facciamo parte che mi dà una colpa. Viviamo in un mondo troppo maschilista. Perché se un uomo si porta a letto tutte le donne possibili immaginabili nessuno dice niente, mentre se sono le donne a farlo con gli uomini allora si dice che sono delle puttane. Tutto ciò è sbagliato. Ovviamente, se la situazione fosse diversa, se ad esempio fossi fidanzata e andassi con a letto con altri uomini oltre al mio, probabilmente il termine puttana mi si addirebbe. Ma così non è, eppure per la società bigotta in cui mi ritrovo sono una puttana da stradone in ogni caso e mi addossa il fallimento per non seguire lo standard di donna che impone: sottomessa e ordinaria.
Mi imbatto in mia sorella, in cucina, sta facendo merenda con caffè, pane e marmellata.
– Ciao Em.
Mi saluta con la bocca piena.
– Ciao, come va?
Prendo una il bollitore dalla credenza e lo riempio con dell'acqua per fare il tè.
– Mah...
Io e mia sorella Virginia abbiamo tre anni di differenza, lei è la più grande. Non siamo mai state particolarmente affiatate, ma dati gli ultimi avvenimenti in famiglia abbiamo sentito il bisogno di l'una dell'altra per affrontare altre situazioni. L'anno scorso, mia madre e mio padre si sono separati. Mio padre ha una seconda famiglia, che ha sempre tenuto nascosta. Non so come ci sia riuscito per così tanti anni, ma prima o poi le cose vengono fuori in ogni caso.
Mia madre era letteralmente distrutta, tanto quanto come noi figlie fossimo deluse. Virgi era rimasta talmente scottata dall'accaduto che aveva smesso di studiare. Si è laureata in Giurisprudenza, stava studiando per l'esame di stato. Proprio quando ha ripreso con lo studio, subito dopo la mia laurea in febbraio, ha iniziato a sentirsi male. Stava sempre peggio, finché un giorno si è sentita male in biblioteca ed è stata portata al pronto soccorso. Lì abbiamo scoperto che fosse malata. Linfoma di Hodgkins, una forma lieve di Leucemia, così ci hanno spiegato i medici. Ha iniziato le cure, le terapie e ormai ha quasi finito tutto ma non è finita per lei. È cambiata radicalmente in questi mesi, sia fisicamente che caratterialmente. Ma non è stata l'unica, da quel giorno di inizio marzo è cambiato tutto.
La ragazza che ero prima di tutto questo, a partire dall'anno scorso e a finire da agosto, non può più tornare anche se la volessi con tutta la me stessa del presente. Ero felice perché innamorata di Luca, soddisfatta dalla propria vita da semplice studentessa in procinto di laurearsi, spensierata grazie a una passione genuina e fuori dal comune senza che mi vendessi a degli sconosciuti pur di avere dei risparmi, pulita e non macchiata dalla società, sana e con una famiglia ancora integra. Però, se ci penso adesso, mi rendo conto che la bellezza di quella vita era una finzione. Perché, se fosse stata autentica, non sarei arrivata ad un punto di non ritorno.
Mi verso l'acqua calda in una tazza e immergo la bustina di tè ai frutti rossi, lasciandola qualche minuto in infusione.
– Ce la faremo anche stavolta.
Dico, sorseggiando dalla mia tazza, seduta a tavola accanto a Virgi.
– Ce la faremo.
Mi risponde, poi mi prende la mano e me la stringe.
Ho imparato ad essere resistente alle difficoltà, ma più di questo forse è più corretto usare la parola resiliente. Supererò e affronterò queste situazioni, non importa in che modo o quanto tempo mi servirà per farcela. Ormai ne ho passate tante, ce la farò anche stavolta.
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