7 - Capitolo 5
Tutto accade per un motivo
e, dentro di te, ne conosci le cause .
Accettale, ed esse ti faranno meno male.
(Sorelai Fenir)
Sofia aprì gli occhi. Il soffitto della stanza era di pietra, attraversato da spesse travi di legno. Strinse le palpebre. C'era qualcosa di strano in ciò che stava osservando. Girò la testa verso la fonte della luce e vide la finestra aperta: pesanti tende ondeggiavano, lasciando entrare quel poco di sole che le permetteva di distinguere i particolari.
Provò a sedersi, ma non riusciva a raccogliere le forze. Non si sentiva debole, semplicemente non aveva la forza di farlo. Riuscì, però, a voltarsi su un fianco. Il letto era abbastanza largo da permetterglielo, morbido e accogliente.
Ma cosa succede?
Tornò sulla schiena. Gli ultimi ricordi che aveva erano quelli legati al sogno appena fatto. Era in piazza con sua madre e tanta altra gente di cui non riusciva a ricordare i volti. Si coprì gli occhi con il braccio e qualcosa le passò sul viso. Alzò la mano e vide una manica, bianca e larga, scivolarle fino al gomito. L'aria della stanza era fresca e piacevole e c'era un buon odore di lavanda.
Dove sono?
Strinse i gomiti vicino al corpo, spingendoli contro il letto, e riuscì a sollevare le spalle.
C'era una porta, alla sua sinistra, chiusa. E le tornarono in mente tutte quelle porte che aveva visto in sogno: quella che l'aveva condotta all'interno della chiesa, quella che dava sulle scale a chiocciola e quelle che si trovavano ai lati del corridoio. L'ultima cosa che ricordava di aver visto era proprio un lungo corridoio con un tappeto rosso. E in fondo, cosa c'era? Strinse gli occhi spostandoli verso destra, dove c'era la finestra. C'era una finestra, lo ricordo bene. E poi... Li vide come se fossero stati presenti proprio davanti a lei: due occhi rossi, dalle pupille nere, strette e verticali. Sbatté le palpebre e sparirono, ma qualcosa, nel più profondo del suo essere, si agitò. Non era un sogno. Era un incubo.
Si lasciò andare sul cuscino fissando le travi del soffitto. Un alito di vento le portò l'odore salmastro del mare.
Sapeva molte cose, Sofia. Conosceva il suo nome, il legno, la pietra, il sole e l'aria. Riconosceva l'odore della lavanda e sapeva che qualcuno si era preso cura di lavare la coperta. E il mare, sapeva che amava il mare, il suo odore, la sua voce e il riverbero che il sole provocava sulla sua superficie.
Mi sfugge qualcosa.
Ricordava il viso di sua madre; era l'unico che riusciva a vedere chiaro nella sua mente: un volto dalla pelle abituata ai raggi del sole, appena dorato. I capelli neri e ricci, lunghi oltre le spalle. Gli occhi scuri e sempre tristi. Le labbra morbide e che sorridevano di rado.
E poi?
Poi non c'era nulla.
Che mi sta succedendo?
Distingueva molto bene la realtà dall'incubo. Sapeva che quella piazza, quella chiesa e anche le persone erano solo frutto della sua mente, non erano reali.
Mamma. Strinse gli occhi, cercando di riportare alla mente qualche particolare della sua vita. Dove sei? Spostò lo sguardo lungo le pareti della stanza. Dove sono?
Uno scatto improvviso, proveniente dalla porta, le fece balzare il cuore in gola e Sofia si nascose sotto la coperta, tirandola al di sopra della testa e stringendola con tutte le sue forze. Trattenne il fiato.
«Oh, bene» disse una voce. Apparteneva a una donna, giovane e di certo sorridente. Sofia non sapeva come fosse riuscita a registrare quelle notizie, ma era sicura di quanto udito.
«Sei sveglia» continuò la voce. Si era spostata. Adesso era alla sua destra, in direzione della finestra. «Lo so che lo sei, perché l'ultima volta che ti ho vista» Sofia avvertì il rumore delle tende che venivano spostate, «non eri nascosta sotto la coperta.»
Sto sognando e tra poco mi sveglierò. Ma sapeva che non era vero. Percepiva troppe sensazioni perché fossero solo immaginate in un sogno. E si sentiva sveglia. Strinse i denti, li sentì scricchiolare.
«Io sono Astoria.»
L'aria calda al riparo della coperta, la luce dorata che filtrava da fuori, rendevano quel piccolo rifugio accogliente, ma Sofia sentiva come un peso sul torace, un peso che non le permetteva di respirare in modo adeguato. Stava affannando, come al termine di una lunga corsa. Le mancava l'aria, avrebbe voluto gettare via quella coperta, urlare e fuggire. Ma fuori da quella tana c'erano Astoria e un mondo sconosciuto, abitato da chissà quante persone di cui lei non ricordava i volti e i nomi.
«Ascolta» riprese Astoria. «Posso immaginare che sei spaventata e che potrebbe essere difficile fidarti di me.»
Va' via. Lasciami in pace.
Sofia avrebbe accettato tutto pur di non dover uscire allo scoperto, anche di vivere segregata in quella stanza. Non ricordava nulla, ma sapeva che non poteva fidarsi del primo sconosciuto incontrato. Anche se avrebbe voluto tanto farlo.
«Andiamo.»
Avvertì una nota quasi divertita.
«Non voglio farti del male.»
Sofia si rendeva conto che, vista da fuori, doveva sembrare un fagotto che tremava.
«D'accordo, facciamo in questo modo.» Udì la voce di Astoria spostarsi. «Ti ho portato del cibo, probabilmente sarai affamata. Quindi, adesso, uscirò dalla stanza e ti lascerò del tempo per ambientarti.» La porta si aprì e Sofia rimase in attesa che venisse chiusa. «Ma tornerò.»
Lo scatto della serratura riuscì a rendere il peso che opprimeva Sofia più leggero. Il respiro divenne più regolare e rilassò le dita che stringevano la coperta.
Con molta lentezza e il cuore che le pulsava nelle orecchie, riuscì a raccogliere il coraggio necessario a tirar fuori la testa.
La stanza non era cambiata, era solo più luminosa di prima, perché Astoria aveva aperto del tutto le tende e l'odore che proveniva dal mare era anche più forte di prima.
Sofia si sedette; questa volta ci riuscì con più facilità. Continuò a stringere la coperta, però.
Un gabbiano lanciò il suo richiamo proprio mentre volava fuori dalla finestra, come se la stesse invitando a esplorare la stanza. E così fece, Sofia, almeno con lo sguardo. A piedi del letto, illuminato dalla luce diretta del sole, si trovava un piccolo tavolo. Astoria non aveva mentito, dopotutto, perché lì sopra c'erano una caraffa fumante, della frutta e dei biscotti.
Come in risposta a quanto appena visto, lo stomaco emise un brontolio.
Dovrò alzarmi, prima o poi. La stanza sembrava accogliente e tranquilla, forse troppo. Cos'è tutta questa diffidenza che provo?
Ancora un brontolio e Sofia spostò la coperta di lato, mettendo i piedi per terra. Il tappeto, verde, che c'era proprio lì era morbido e caldo. C'era anche una sedia, con un vestito blu e delle pantofole, dalla forma allungata e cucite con la stessa stoffa.
Riportò la sua attenzione ai piedi e mosse le dita. Non ricordo nulla. Non c'era un solo attimo della propria vita che ricordasse; quella era la prima volta che si alzava da un letto, ma sapeva che non era possibile. Mi è successo qualcosa. Sollevò lo sguardo verso la finestra. Qualcosa di tanto terribile da doverlo dimenticare.
Ancora il richiamo di un gabbiano.
Fece forza nelle gambe e tentò di alzarsi, ma dovette inginocchiarsi a terra perché ebbe una vertigine. Quanto ho dormito? Sapeva benissimo che quella debolezza era tipica di chi era rimasto steso molto tempo, senza muoversi.
Si aggrappò al letto e riuscì ad alzarsi. La vertigine tornò, meno violenta di prima, e con molta calma Sofia mosse in avanti il piede destro, quasi strisciandolo sul tappeto. Poi spostò il sinistro, poi l'altro. Riuscì ad avanzare lungo il letto, china, con le mani poggiate e avvertì il freddo della pietra quando calpestò il pavimento.
Raddrizzò la schiena e sorrise. Ricordo anche come si cammina.
Dal tavolo, pochi passi distante da lei, arrivava il profumo di una tisana dolce, probabilmente fatta con le fragole o un frutto simile. I biscotti erano chiari e sembravano morbidi. La frutta aveva un aspetto fresco e Sofia deglutì, schiacciando la lingua sotto al palato. Solo immaginare che avrebbe potuto addentare una di quelle mele, oppure un piccolo acino viola dell'uva che c'era lì, le diede la forza di muovere il primo passo senza il sostegno del letto.
Stese la mano verso l'uva, ma si fermò. Il sole cominciò a scaldarle la pelle, ne sentiva il tepore che arrivava anche più in profondità. Era pallida, forse troppo, e si portò la mano al viso. Sentì sotto le dita, fredde, la curva delle labbra, gli zigomi sporgenti, il naso, le sopracciglia e le ciglia che le solleticavano i polpastrelli e poi i capelli. Erano lunghi, sottili. Ne portò una ciocca davanti. Rossi. Ho i capelli rossi.
La ciocca che aveva tra le dita era appena ondulata e il colore era di un rosso più intenso di quello che, lei sapeva, dovevano avere i capelli.
Voltò la testa verso la finestra. In realtà era un piccolo balcone e Sofia spalancò occhi e bocca. Il cielo, azzurro e sgombro da nuvole, si estendeva sul mare, calmo e lucente. Un uccello scuro stava volando, lontano, e un piccolo gruppo di gabbiani stava seguendo una barca di pescatori. Questo mare, mamma, è bellissimo. Sembra... Si portò le mani alle labbra, stavano tremando. Il pensiero le era nato spontaneo, ma non riusciva a ricordare altro che non fossero sensazioni di conoscenza. Sofia sapeva che quel panorama era molto simile a quello che lei e sua madre conoscevano. Ma perché non ricordo? Avanzò verso la balaustra e vi poggiò le mani. Era calda e porosa, segnata dalle intemperie e dalla corrosione del sale.
Inspirò e chiuse gli occhi. Il mare, riusciva a percepirlo anche attraverso il suo odore e il lento frangersi delle onde poco distante.
Riaprì gli occhi e lasciò vagare lo sguardo.
Sullo sfondo e in lontananza si ergevano due montagne. Una più alta e larga dell'altra; immerse in quella luce sembravano quasi viola. A destra c'era un promontorio, con un'isola vicino e, proprio davanti, ce n'era un'altra un poco più grande. Tutto l'insieme avvolgeva in un abbraccio lo specchio di mare che si trovava nel centro.
L'attenzione di Sofia fu catturata dall'uccello nero. Planava e batteva poco le ali, ma era più grande di quanto ricordasse. Si sta avvicinando. Strinse gli occhi e si fece ombra portando una mano alla fronte. Sta arrivando. Quel pensiero le portò alla mente l'incubo. Quella creatura, scura, enorme e dagli occhi rossi, la stava cercando e, nel sogno, l'aveva anche trovata. Sua madre stessa l'aveva messa in guardia. Ora era sveglia, ma la sensazione di essere braccata non l'aveva abbandonata.
Intanto, il grosso uccello stava planando verso di lei.
Capelli rossi. Occhi rossi. Possibile che le cose fossero collegate? E chi la stava cercando? Perché la sua memoria era così selettiva? Ma quello non è un uccello!
Grandi ali fendevano l'aria con lentezza, lasciando vibrare le membrane scure; reggevano un corpo possente e ricoperto di squame scure che riflettevano la luce del sole con lampi dorati. Una lunga coda ondeggiava dietro quella splendida creatura e l'aria fu scossa dal ruggito che uscì dalla gola allungata. Un maestoso drago nero le passò sulla testa, mettendo per un attimo in ombra il piccolo angolo in cui lei si trovava. Sì, è un drago, anche abbastanza grande.
«Ma guarda.» Era la voce di Astoria e Sofia si voltò, le mani strette intorno alla balaustra. «Quindi hai deciso di uscire dal tuo nascondiglio, alla fine.» Richiuse la porta alle proprie spalle. «Che ne dici se ricominciassimo da capo, con le presentazioni?» Si avvicinò sorridendo. «Io sono Astoria, ti ho parlato prima.» Sfoggiò un bel sorriso e l'affiancò, restando però a due passi da lei.
Era una giovane donna, quella che si era presentata a Sofia. Non più una ragazzina, ma non c'erano rughe a segnarle il volto liscio e chiaro. I capelli, biondi, erano ordinati e tirati all'indietro e indossava una camicia azzurra sopra a dei pantaloni scuri. Si appoggiò alla balconata. «Come ti chiami?» continuò, inclinando la testa di lato e stringendo i grandi occhi azzurri. Erano dello stesso colore del cielo. «Capisci ciò che ti sto dicendo?»
Sofia si aggrappò a quella balaustra come se ne dipendesse la vita.
Astoria le rivolse un altro sorriso. «Non hai fame?» Lasciò il balconcino e rientrò nella stanza, mostrando una lunga treccia che le sfiorava i fianchi, andando a sedersi al tavolino. «Questi biscotti» ne prese uno e glielo mostrò. «sono buonissimi e dovresti mangiarli tutti.» Diede un morso. «Più tardi ti porterò qualcosa di più consistente.» Diede un altro morso. «Ma per adesso questi e la frutta dovrebbero bastare.»
Sofia si portò una mano allo stomaco, quando questo brontolò di nuovo, e forse non sarebbe riuscita a staccare l'altra mano dall'appiglio che la stava riscaldando e facendo sentire sicura.
Astoria versò in uno dei due calici il contenuto della caraffa e lo bevve. «Sto provando a farti capire che di me puoi fidarti.» Bevve un altro lungo sorso. «Perché dobbiamo parlare.» Bevve ancora e poi rovesciò il calice. «Vedi? L'ho bevuto tutto. È molto dolce e ti serve qualcosa per tirarti su.»
Sì, però, se mi siedo, se mangio, se bevo e parlo sarà tutto reale. Sofia si voltò verso il mare. Lì fuori c'era un intero mondo in attesa. Forse c'era qualcuno che la cercava. Se per darle la caccia o ritrovarla non poteva saperlo.
Tornò a guardare Astoria.
Da qualche parte doveva pur cominciare e lei non sembrava pericolosa. Lasciò le mani scivolarle lungo i fianchi, la stoffa della camicia da notte che indossava era morbida e il cibo che le aveva mostrato Astoria era invitante. Tutto era accogliente, lì, forse troppo, ma il desiderio di affidarsi a qualcuno che avesse anche solo un minimo di conoscenza della situazione le fece muovere i passi verso la stanza.
Astoria le sorrise e versò altro liquido nel calice pulito, avvicinandolo con una mano. Aveva dita lnghe e affusolate.
Sofia si sedette e strinse lo stelo del calice. L'odore era ora più intenso e il colore era rosso cupo. Lasciò che le mani raccogliessero altro calore e poi bevve. Solo in quel momento si rese conto di avere molta sete e la gola quasi le fece male, al passaggio del liquido caldo. Vi riconobbe il sapore dei frutti che si raccoglievano nei boschi, di tutte le tonalità del rosso. Chiuse gli occhi e bevve un altro sorso.
«È buono, vero?» chiese Astoria.
Sofia annuì e ne bevve ancora.
«Hai capito?» Il volto di Astoria si illuminò. «Capisci ciò che dico?»
Sofia annuì ancora e abbozzò un sorriso anche lei. Forse quella era una tisana magica, una pozione, in grado di mandar via la paura.
«Assaggia anche i biscotti e prendi un po' di frutta.» Astoria si rilassò contro lo schienale della sedia, una mano poggiata sul tavolo. «Sai dove ti trovi? Che ti è successo?»
Sofia scosse la testa, prese un biscotto e lo morse. Era buono, molto. Era fatto con il burro e sapeva anche di limone. Lo morse ancora e subito infilò in bocca il resto. Ne prese un altro prima ancora di aver ingoiato quello che stava masticando.
Astoria sospirò. «Sei a Castelnovo, a Città Nuova. Questo è il regno di Dragalia, del quale mio padre è il re.»
«Sofia» disse, osservando il biscotto che aveva tra le mani. «Il mio nome è Sofia e...» deglutì. Aveva accettato del cibo, stava parlando e stava accettando anche che tutto quello che stava accadendo era reale. «Non ricordo altro.»
Astoria sorrise, con dolcezza. «Bene, Sofia. Mi fa piacere che hai deciso di parlarmi. Non so ancora cosa ti sia accaduto, ma posso raccontarti qualcosa.»
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