Epilogo - Heroes

"And the guns shot above our heads, and we kissed as though nothing could fall.

And the shame... was on the other side.

Oh, we can beat them for ever and ever. Then we can be heroes just for one day.

We're nothing, and nothing will help us.
Maybe we're lying, then you better not stay."

– Heroes –
Peter Gabriel Version

Lo sguardo era fisso sulla finestra di fronte in quella stanza asettica, bianca come le lenzuola, il copriletto e il camice che le avevano fatto indossare e la cui unica nota di colore erano i piccoli pois verdazzurri di cui era tempestato.

E azzurro era il colore del cielo quella mattina.
Una giornata tersa e ventosa; i rami di mandorlo, già carichi, si piegavano sotto il peso delle raffiche sferzanti. A breve, anche gli aceri sarebbero tornati a infoltirsi, brillando di rosso.

Piccoli petali colorano il cielo, distaccandosi dai floridi fiori che riempiono.– pensava, mentre osservava, con occhi vuoti, lo spettacolo della natura che tornava a vivere, dopo un freddo inverno.
Ironia della sorte, realizzò, guardando il mandorlo, simbolo di rinascita per eccellenza.

Proprio come in una folata di vento, un piccolo petalo era stato strappato alla vita, trascinando via anche lei, all'improvviso.
Tanto che... non provava niente – se non dolore fisico, o almeno così si dice.

Non c'era stato tempo per l'attaccamento.
Andato. Solo un feto. Certo.
Come di sicuro era impossibile che il padre fosse Ben. Tanto meno si aspettava Poe. Eppure, tecnicamente, l'unica possibilità consisteva proprio nel fatto che il bambino fosse di quest'ultimo e, per il crudele scherzo di un destino balordo, era successo proprio quando la sua mente era totalmente presa da un'altra persona.

Un figlio poi, alla soglia dei ventotto anni, mentre stava stravolgendo la sua vita sentimentale e quella lavorativa era ancora all'inizio? L'ultima cosa che si sarebbe aspettata, che avrebbe voluto.
Eppure il senso di colpa la consumava da dentro.
Lei non aveva in programma la maternità, ma per Poe, ben oltre con gli anni, quell'aspetto, probabilmente, era tutto fuorché scontato o trascurabile. Lei, in fondo, lo sapeva.
Non avevano mai affrontato apertamente l'argomento, nemmeno nei momenti migliori della loro relazione.
Come avrebbero potuto?
La questione, semplicemente, non si poneva per una ragazza poco più che ventenne. Eppure, negli anni, sottopelle, aveva avvertito una sensazione crescente cui non aveva mai voluto dare voce, quelle volte che gli leggeva l'anima, negli occhi adombrati, dopo essersi amati.
Spesso considerava che la vezzeggiava come un ragazzino, ma lui era un uomo.
Avessero avuto la stessa età, avrebbe osato chiederle di più, un rapporto maturo, forse. Ma stare con una persona tanto più giovane rappresenta, per chiunque, un enorme deterrente alla stabilità.

E mentre lo mandava a informarlo di avergli rovinato la vita, ancora, lei si sentiva... sollevata!
Un mostro!
Da brava vigliacca pregò il personale di non ricevere visite, ma le annunciarono il sindaco Organa.
Leia entrò nella stanza e, con fare delicato, le rivolse la parola.

"Vuoi un bicchiere d'acqua, cara?" esordì discreta.

Rey se ne restò su un fianco, attonita, a fissare i fiori di mandorlo strapazzati dal vento, senza riuscire a pronunciare parola.
Leia le si avvicinò piano, sedette accanto a lei e le accarezzò una guancia gelida.
A quel calore, Rey ritornò presente e, serrando le palpebre in una smorfia di dolore, rilasciò lacrime amare.

"Oh, bambina, non piangere!" cercò di consolarla, la donna, come meglio poteva, carezzandole una spalla e porgendole un fazzoletto.
Avrebbe voluto conoscerla di più, trovare parole di conforto.
Ma quali parole sono adatte per una persona che perde una vita intera in un istante?

Questa era una sensazione che Leia conosceva benissimo, altroché.
La sua esistenza si era sgretolata, in un modo analogo, quando era solo una bambina.
In un battito di ciglia aveva perso i genitori e il fratello, passando tutta la restante sulle tracce del senatore, per cercare ogni minimo indizio potesse ricondurre all'attentato che vide vittime i suoi genitori: il magistrato Padmè Amidala e la sua guardia del corpo Anakin Skywalker.

Amidala era stata la prima a prendere distanza dalle macchinazioni ai danni del Cancelliere Valorum, del quale Sheev Palpatine bramava la carica, all'epoca dei fatti.
Aveva sospettato, fin da subito, della finta mitezza di quest'ultimo, avanzando l'ipotesi che dietro le misteriose morti di alcuni alti funzionari di governo, e improvvise dimissioni di altri, vi fosse ben più che una connessione casuale.

Era giunta a un punto cruciale delle indagini, grazie all'aiuto dei fedelissimi generali Skywalker e Kenobi, i quali si erano spesso infiltrati nelle sedute della confraternita.
Specie il marito di Amidala, Skywalker, godeva della predilezione del senatore. Ma quando l'astuto Sheev fiutò le talpe, si vendicò nel modo più crudele.
Le indagini del magistrato Amidala si interruppero definitivamente dopo l'attentato e Kenobi scomparve nel nulla.
Forse sotto protezione in qualche regione ignota.

Leia si rincuorava del fatto che quell'essere abietto, che aveva sparso morte e pena intorno a sé, sarebbe stato equamente processato per i suoi crimini e inchiodato assieme ai suoi fedelissimi.

Anche suo figlio Ben non era stato risparmiato dalle sofferenze che quell'uomo era capace di infliggere. Ora aveva le prove che il responsabile dell'incidente con l'elicottero fosse lui. Seppur in maniera colposa – se così si può definire il generarsi di letali campi magnetici a seguito dei suoi esperimenti, degni della più antica stregoneria.
Da sempre, i loro destini si scontravano.
Le aveva ammazzato i genitori, l'aveva strappata all'amore di un fratello, per anni, e... per poco, si era preso anche suo figlio.

A quest'ultimo aveva negato la possibilità di continuare la carriera militare: l'incidente aveva procurato a Ben una gamba leggermente più corta e un moderato versamento pericardico a seguito della perforazione dello sterno, che aveva curato non senza dispendio e infinita pena, e che gli aveva precluso ogni possibilità di rientro sotto le armi, in via precauzionale, nonostante una buona remissione.

Organa abbracciò Rey e la ragazza mostrò di gradire quel contatto, pieno di calore umano, ricambiando.
Si aggrappò a Leia, tremante. Non riusciva a dire una parola.
Il respiro, pesante e doloroso, premeva contro il petto, e ogni inspirazione faticosa era accompagnata da fitte addominali sorde, ma costanti, simili a fredde lame affilate che si contorcevano dal ventre alle reni – anche quelle, un normale effetto delle sue condizioni, insieme a una cefalea perforante, febbricola, brividi diffusi, insonnia e un'emorragia cospicua, il tutto corredato da uno stato di accentuata astenia.

A una fitta più acuta, non trattenne un gemito che soffocò sul petto del sindaco Organa, la quale non aveva smesso un attimo di carezzare, con mani gentili, il pulcino spaurito che stringeva a sé.

Leia la fece distendere un poco e le pose un impacco tiepido sull'addome, per alleviare i crampi, come suggerito dai medici.
Seguitava ad accarezzarle il viso, i capelli, la fronte, e Rey, troppo debole per opporre resistenza, la lasciò fare, certa che non fosse lì per chiederle di suo nonno.
La situazione, di per sé, era alquanto bizzarra: non capita tutti i giorni di avere al proprio capezzale un'eminenza politica e... la madre dell'uomo che stai frequentando, che ti consola mentre hai perso il figlio di... un altro.

Che Leia non lo sapesse? Temette, Rey.

"Sindaco Organa," biascicò affaticata.

"Chiamami Leia, bambina," le sorrise affettuosa la donna.

"Leia..." proseguì Rey, "io, io vorrei che lei sapesse che... il bambino... non era di..." non riuscì a finire la frase.

Leia la strinse nuovamente.
"Non mi devi nessuna spiegazione, cara. Sono qui, da donna, per non lasciarti sola in un momento così difficile."

Uno sguardo, tra le due, sancì una tacita intesa.

"I medici dicono che potrebbero dimetterti domani. A parte qualche escoriazione, se non c'è febbre, puoi tornare a casa e io vorrei che stessi da me, a Villa Organa."

La ragazza la guardò perplessa. "Non si preoccupi, Leia, tornerò nel mio appartamento," rispose.

"Sei molto debole. Ti consiglio di stare da noi finché non riprenderai le forze. Nelle tue condizioni non puoi stancarti troppo, i primi tempi. La mia governante, Nance, e io, ci assicureremo che non ti affatichi. Del resto Lady Tano è ancora fuori città, da Luke."

Un brivido corse lungo la schiena di Rey. "Lady Tano... come sta? Avete notizie? Ditele che sto bene, per favore," pronunziò d'un fiato in tono commosso. Le mancava incredibilmente.

"Certo, Rey! Presto vi riabbraccerete. Ora cerca di riposare. Intanto dirò ai medici, per domani, che mi chiamino quand'è ora. Sarò qui presto." La ragazza si limitò ad annuire, grata.


Le aride formalità, erano state sbrigate. Le domande di rito rimbombavano nella sua mente come un'eco lontana, ovattata dal frastuono assordante dei propri pensieri e dallo shock che aveva provato associando la parola padre a sé stesso.

"Ho sempre saputo di essere sterile. Astenospermia, questo mi hanno diagnosticato, a quattordici anni, a causa di un'otite acuta," aveva provato a spiegare al medico.

"Signor Dameron, astenospermia significa scarsa motilità e frequenza di spermatozoi nel liquido seminale, non l'assoluta assenza di questi ultimi: pertanto non è affatto impossibile il concepimento. Lei non è sterile. Significa solo che ci sono rare possibilità che avvenga una fecondazione naturale.
Se invece si pensa a quella assistita, le probabilità sono ottime."

Non si era mai posto di pensarci, nemmeno lontanamente, a un figlio, con una ragazza tanto più giovane di lui. Non rientrava tra i progetti a breve, visto l'andamento altalenante della loro relazione.
L'unico modo nel quale si vedeva era al fianco della persona che non avrebbe mai smesso di amare.
La sola certezza – unita a quella che era nato per volare – in una vita che era un'incognita. E a lui andava benissimo così.

Chiese di poterla vedere dopo che il sindaco Organa ebbe lasciato la stanza.
La guardò da dietro la vetrata.
Era voltata su un fianco, verso la finestra sulla parete opposta.
Non seppe mai che lui era lì.
La conosceva abbastanza da sapere che si sentiva divorare dal senso di colpa.
Da sempre, discioglieva ogni sua paura nel calore delle sue braccia.
Stavolta, però, la sua volontà era bloccata.
Ne osservò i capelli castani sparsi sul cuscino, scorse le dita in una delicata carezza, a disegnarne il profilo ramato, baciato dal sole, attraverso il vetro.
Non tentò nemmeno di guardarla negli occhi. Avrebbe significato non fare più ritorno. Ed era ora di lasciar andare, invece. Per davvero.
Trascinò il peso logoro del proprio corpo, inerte, per il lungo corridoio lastricato.
A ogni passo sentiva il respiro farsi sempre più pesante.
Avanzava nella penombra sterile e silenziosa della clinica, mentre dai finestroni laterali, la vivacità dei colori della primavera si faceva beffe degli esseri umani, racchiusi tra mura pregne di dolore.
Quella mattinata ventosa, nelle sue sferzanti folate, si era portata via, letteralmente, un altro pezzo di lui.

Di lì a poche ore, un aereo si sollevava dal Boston Logan.
Stavolta non ci sarebbero state corse prima del gate a trattenerlo, né mani candide mischiate a lacrime e baci per convincerlo che era amato.
A stringerlo solo il freddo, familiare abbraccio metallico di una cabina passeggeri, gremita, che riportava la sua anima svuotata in un posto dove non gli era rimasto più niente.
Nessuno a salutarlo.
Nessuno ad attenderlo.

Al Woodlawn c'era un'epigrafe, che l'allora sergente dell'Esercito Kes Dameron aveva fatto apporre, dedicata al ricordo amorevole di Shara Bey – sua moglie.

I girasoli erano i fiori preferiti della donna, suo figlio glieli portava quando sentiva il bisogno di parlare un po' con lei.
Mancava, però, da quel posto, da almeno quindici anni. Da quando era entrato in Accademia e aveva lasciato la piccola provincia di Lacey per iniziare la sua vita.

Aveva dei girasoli tra le mani, quel giorno, il tenente colonnello Dameron.

Sedeva in silenzio, a gambe incrociate, a contatto con l'erba.
La calda luce dei raggi del sole trafiggeva gli alberi ombrosi, posandosi sui fiori. Giocava sul gelido marmo delle iscrizioni, ponendone in risalto alcune sì, altre no, nella tela di chiaroscuri che intesseva, attraverso il fogliame di una primavera inoltrata che profumava di vita.

Poggiò il viso stanco sui palmi delle mani, i gomiti sulle ginocchia.
Osservava i nomi e le parole sulle lapidi, poste l'una accanto all'altra.
Chiuse gli occhi e la rivide nella grande cucina di casa. Era bellissima: i lunghi capelli mossi, la pelle brunita.
Le somigliava, glielo ripetevano tutti, che era bello come sua madre.
Da lei aveva preso le folte ciglia scure che gli incorniciavano gli occhi grandi, i ricci corvini, la pelle bronzea. Di Shara erano il coraggio e la determinazione.
Ma lui era consapevole di somigliarle solamente. La bellezza di sua madre era impareggiabile!

È un pomeriggio di sole, caldo. Ha fatto la torta al cioccolato che gli piace tanto e lui le ronza allegramente intorno, con il suo modellino di Caccia-Lego, mimando acrobazie e virate che realizzerà, davvero, quando sarà grande.

La sua, è una mamma speciale: non fa solo torte buonissime, è un pilota. Lo porta con sé alle parate militari. Qualche volta gli permette di intrufolarsi nella carlinga dei mitici Fighting Falcon, facendogli impugnare la cloche, e gli spiega i comandi sulle pulsantiere.

Non hanno mai molto tempo per stare insieme, ma quando è a riposo è tutta per lui e per papà Kes.
Ha sei anni il piccolo Poe ed è felicissimo di stare con la mamma, che lo abbraccia, lo bacia e gioca a incastrare mattoncini con lui.
Può sentirne ancora il profumo. Sono nel loro giardino, il sole gioca tra i capelli soffici di Shara, all'ombra dei quali, le guance paffute di una piccola peste cercano riparo, mentre strizza due spicchi bruni e felici, in una risata che echeggia dalle sue labbra al cuore della donna che lo stringe.
O forse l'odore che risente, nei ricordi, è solo quello della torta al cioccolato.

Sentì picchiare appena alla porta, quel tanto che era servito a ridestarla dal torpore che la avvolgeva.
Quel tanto che bastò a farle balzare il cuore nel petto e annacquarle gli occhi dall'emozione.

"Bambina..." pronunciò una voce sommessa che le giunse all'anima come la più dolce delle carezze.
Due occhi limpidi la scrutavano dalla loro antica saggezza.

Le parole le morirono in gola, ancora. Non necessitavano.
L'anziana figura la raggiunse verso il letto, abbracciandola, e Rey pianse.
Sì. Tutte le lacrime che aveva trattenuto, per pudore, per vergogna di sé stessa. Le pianse tutte, sul grembo accogliente, materno e così familiare di qualcuno che amava tantissimo.

"Lady Tano..." singhiozzò, "è così bello vederti."

"Ahsoka, bambina. Per te sono Ahsoka. Non piangere," cercò di consolarla asciugandole le guance. Ma Rey singhiozzava di più.

"Mi sei mancata tanto! Stai bene?"

"Sì, piccina, sì. Sssttt, tranquilla," la cullò dolcemente tra le braccia.

"Ho fatto del male a tutti," soffocò sul petto dell'anziana donna. "Sono come... come lui. È nel mio sangue."

A quelle parole il cuore di Lady Tano cedette. Le coprì il capo di infinite carezze. "No, no. Rey, tu sei buona, coraggiosa. Non sei il nome che porti. Hai avuto la forza di smascherare quell'uomo e hai reso giustizia a tante delle sue vittime, compreso il mio Peter."

Rey restò stretta in quell'abbraccio più a lungo che poté.
Dopo attimi interminabili, Lady Tano la baciò sulla fronte, salutandola.
"Appena starai meglio, torna pure da me. La casa è troppo vuota, da quando non ci sei."

Si accomiatarono con la promessa di rivedersi presto.
Poco dopo, la ragazza sentì bussare nuovamente. "Avanti," pronunciò decisa.
Avrà dimenticato qualco...

Sgranò uno sguardo stupito e imbarazzato quando, oltre la porta, si palesò l'imponente sagoma di Ben Solo.
Recava in mano un piccolo mazzo di gigli bianchi.
Era giunto il momento di rompere il guscio nel quale si era rintanata e affrontare il mondo esterno.
Non si sentiva pronta, ma, se avesse aspettato ancora, quel momento si sarebbe allontanato ulteriormente.

"Posso?" mormorò l'uomo esitando.
Un timido sì e un lieve cenno del capo lo invitarono a farsi avanti.

"Come stai?... Sono stato tanto in pena per te, in questi giorni."

"Sto bene," mentì..."scusa se non ho risposto al messaggio che mi hai mandato. Sei stato molto caro, è che..."

"Non scusarti. Io riesco a malapena a immaginare quello che stai passando. Voglio solo che tu sappia che ci sono."

Allungò una mano tremante verso di lui. Non era mai riuscita a sollevare gli occhi per incontrare i suoi, da quando aveva preso posto accanto a lei.
Intrecciò le dita esili a quelle salde e robuste di lui. Rimasero in silenzio.
Ben si fece coraggio e la strinse a sé con delicatezza. Le parve così fragile da potersi frantumare come porcellana.
Dentro, probabilmente, era esattamente così che si sentiva, rifletteva il professore.

"Per favore, tienimi abbracciata, stanotte," gli sussurrò con un filo di voce mentre l'emozione le spezzava il fiato in un respiro corto e affannato.

Ti abbraccerei per l'eternità, Rey
fu l'ultimo pensiero che lo cullò prima di addormentarsi, dopo un tempo interminabile nel quale l'aveva stretta, scaldata e accarezzata in viso, tra i capelli, baciandole la fronte e le guance, mille volte.
E lei lo aveva ricambiato stringendoglisi forte, circondandolo del calore del suo profumo familiare.
Trepidi si guardavano nella luce soffusa dell'abat jour, senza bisogno di parole. Gli occhi narravano della paura di perdersi che avevano avuto nella profonda, mutua comprensione che passa attraverso una semplice espressione del viso.
Rey gli posò il capo sul petto, cercandogli la cicatrice con le dita; la accarezzava con l'indice, disegnandovi piccoli semicerchi regolari, e ascoltava il suo cuore, dal ritmo accelerato, per lei. La melodia più soave che le sue orecchie potessero udire.

Dormì, quella notte, Rey.
Dopo quelle fredde, insonni e disperate per lo shock di sapere di essere in attesa di un figlio, per il dolore delle percosse che erano state causa del suo aborto, per l'ennesima sofferenza inferta a Poe, per la nausea al pensiero che dietro tutto quell'orrore ci fosse un suo familiare, per la paura del futuro.
Eppure dormì. Nel tepore delle braccia forti, piene di tenero affetto, dell'uomo che aveva imparato a scoprire e apprezzare.

E lui, da gentiluomo, non osò toccarla se non per baci a fior di labbra sulle guance, tra i capelli che non smise mai di carezzarle.
Gli strinse forte, tra le dita, la maglietta sulla schiena, e dormì Rey, quella notte, cullata dalla malinconica dolcezza di quell'uomo che le rubava ragione e cuore.
Lui che aveva vestito l'anima di una coltre cinerea, per troppo tempo, della quale lei lo aveva spogliato, soffiando via, strato dopo strato, con pazienza e determinazione, fino a lasciarne risalire il fondo fragile.


I pomeriggi primaverili, a Boston, erano tornati pieni di luce calda che rifletteva vivace sui mattoncini rossi delle villette di Beacon Hill.
Ben Solo sorseggiava il suo caffè, augurandosi che Rey si rimettesse presto e potesse tornare al suo incarico.
Non riusciva a non pensare che il semestre era terminato, il loro lavoro completato. Mancava poco alla fine dell'anno accademico, troppo poco, e il pensiero che aveva rimandato per tanto tempo in un angolo recondito della sua mente, si riaffacciava prepotente in un respiro cupo, dal quale cercava di riemergere a fatica.

Sentì bussare alla porta e con grande sorpresa ci trovò l'oggetto fisso dei suoi pensieri.
Era splendida, in un abito dalle tinte tenui e una fantasia appena accennata, leggero, alle ginocchia.
L'avresti scambiata tranquillamente per una studentessa.
Aveva cambiato acconciatura: portava i capelli raccolti in tre buffi codini simmetrici sulla nuca.
Così acconciati le incorniciavano un viso acqua e sapone, da bambina.
La accolse, con un sorriso spontaneo, nonappena la vide.
La abbracciò, "Sono contento di vederti. Tanto. Se mi avessi detto che passavi, sarei venuto a prenderti."

"Non preoccuparti. Ho deciso all'improvviso di uscire; mi andava di fare un giro per la città.
Mi sono un pochino persa nei suoi bei viali, prima di arrivare da te.
Ma non sono ancora stanca e volevo chiederti se mi fai compagnia.
Ti va se mangiamo un gelato?" domandò con un candore quasi infantile.

"Prendo le chiavi e andiamo subito."

Durante il tragitto parlarono del soggiorno a casa di sua madre, di quanto Leia e anche Han fossero stati gentili a mettersi a disposizione; lei nel frattempo era tornata da Lady Tano, non voleva approfittare oltre dell'ospitalità, da regina, che i Solo le avevano riservato.
Ben le tenne dolcemente la mano per tutto il tempo. Da cavaliere pagò per lei – come aveva insistito e fatto ogni volta precedente.
Dall'esterno, chiunque li avrebbe scambiati per una coppia affiatata.
Nessuno avrebbe immaginato i demoni con i quali ognuno dei due faceva i conti, nascondendoli l'una all'altro, dietro occhi carichi di una timida speranza.
Lei gli aveva sorriso, sempre, mentre conversavano.

"Rey, rientrerai a lezione a settembre? Hai saputo nulla dal rettore Johnson?" alla fine aveva preso coraggio, togliendosi il dente.

"Non ci sono rinnovi in vista, Ben. Allo scadere dell'incarico tornerò a casa mia, a Lacey. Ma c'è qualcosa, ancora. A causa del danno fisico subito, Johnson mi ha proposto di ripartire subito dopo la presentazione del caso ai ragazzi ed io ho intenzione di accettare."

Il vuoto, negli occhi di Ben, calò insieme alle ciglia per eludere uno sguardo cupo. – Quindi non sono abbastanza per te? Non resti per me? Per noi?
Te ne vai a Lacey a 'placare i sensi di colpa' per l'ennesima volta?

"Ben, di qui a poco sarò nel pieno di una bufera. Devo tornare a Lacey; la casa e tutti i beni di mio nonno saranno confiscati e io vorrei almeno prendere qualcuno dei miei ricordi, il resto delle mie cose. Devo riorganizzarmi.
Trovare un posto dove vivere.
Io-io spero che mi riconfermino per il prossimo anno, vorrei tanto tornare a lavorare a Boston."

"Potrei aiutarti. Staresti da me durante l'estate, o da Lady Tano, lei ti adora. Che ne pensi?"

Rey sentiva il suo dolore.
"Ben, guardami..." gli prese il viso con una mano, voltandolo verso il proprio, così che la fronteggiasse.
"Sei importante per me, ma ti chiedo tempo. Lo so, non dovrei, non è giusto per chi come te aspetta da tanto. Io ho bisogno di ritrovare me stessa. Non so più chi sono. Non ho più niente."

"Maledizione, Rey! Hai me! Non ti basta?" sbottò, pentendosene subito dopo mentre l'abbracciava protettivo.
"mi dispiace, scusami, non volevo alzare la voce," affondò il viso tra i capelli sottili profumati di lei.
Lei lo strinse forte, baciandolo su una guancia.

"È a me che dispiace. Davvero. Non hai colpa. Sei dolce, Ben.
Ho bisogno di rimettere ordine e devo farlo per conto mio."

Capiva quello che Rey voleva dire. Era successo anche a lui dopo... Lara, e il suo rimettere ordine era durato sei anni.
Forse, non necessariamente per scelta. Semplicemente, lui si era chiuso e nessuno si era preso la briga di perdere, minimamente, tempo per scalfire la corazza.
Rey era stata l'unica ad andare oltre.
Oltre i muri della sua inadeguatezza di vivere.
E proprio ora che si sentiva pronto a ricominciare, lei gli scivolava tra le dita, come sabbia fine, sull'arenile dell'anima riarsa da una tristezza che tornava a consumarla.
Sarebbe stato difficile vederla andare, ma le avrebbe lasciato spiccare il suo volo solitario, perché questo è il voler bene davvero. E lei era già troppo preziosa per lui.


Era poco prima dell'alba di una mattina di inizio giugno quando arrivò.
Un viaggio calmo, tranquillo lo aveva condotto tra quel meraviglioso verde.
Le pennellate aranciate e violacee delle luci dell'aurora ferivano il cielo livido, riverberandosi in un milione di scintille sulla superficie dell'acqua, increspata dalla scia del battello che cavalcava le correnti.
L'isola, davanti a sé.
Ad attenderlo, suo zio Luke, con il quale aveva deciso di passare un po' di tempo. E Skywalker, da vero eremita burbero qual era, lo aspettava in cima a una delle gradinate di accesso al vecchio monastero.

"Mi sei mancato, ragazzo," gli sorrisero due occhi di un azzurro vivido, dal folto di una chioma imbiancata.

"Ti ricordavo più giovane, maestro!" ironizzò, Ben, con la tipica aria da canaglia dei Solo.

"Sembri tuo padre!" lo canzonò Luke, con una pacca sulla spalla. "Vieni, voglio mostrarti una cosa."

Al di là del passaggio, sotto una grotta, li aspettava una meravigliosa alba rossastra. Il riflesso che si alzava sull'oceano, a latitudini ancora molto fredde, specie al mattino presto, creava lo spettacolare effetto dei due soli: il parelio.

"Straordinario!" esclamò Ben, con un brio quasi infantile che dalla voce gli si irradiava agli occhi. Di colpo gli tornò in mente perché aveva deciso di accettare quell'invito e le levatacce cui sui zio lo avrebbe costretto, come da piccolo.

"Dicono che sia molto triste chi ama i tramonti," il saggio monaco citò Il Piccolo Principe, "ma questa è un'alba, ragazzo mio," gli strinse dolcemente una mano su una spalla. "L'alba di una nuova speranza, Ben. Niente è veramente perso. Tutto, alla fine, trova un senso."

Che tu sia dannato, Skywalker! Tu, il tuo credo. L'equilibrio che vai predicando. Sì, che tu sia dannato, vecchio pazzo, rise tra sé Ben Solo. Non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di palesargli i suoi pensieri ad alta voce.

Quella scintilla, in fondo al cuore, che pulsava di vita propria, dopo il niente che aveva albergato nella sua anima. Era quella la speranza. Anzi, la certezza che la sua strada e quella di Rey si sarebbero incontrate ancora.
Doveva solo badare di non perderla.
E non lo avrebbe permesso. Stavolta, il professor Solo si sarebbe preso quello che meritava.

Quella mattina, sull'isola, una nuova alba rosseggiava nel cielo.
E rosso e caldo, come lei, era il colore dell'autunno nel quale era arrivata nella sua vita.
Trasportata da un vento nuovo che spazza via le foglie secche di una vita passata.
Come lo zefiro, che spira da ovest, aveva soffiato via la tristezza dalla sua anima ingiallita e caduca.
In fine, il professor Solo aveva affrontato i vuoti e le incertezze per cancellarli dal resto del suo viaggio.


Un paio d'ore dopo, svegliandosi in quella che era stata la camera di Peter, Rey trovò un messaggio.
"Mi dispiace, è sfuocata, ma volevo fartelo vedere. Le foto non renderanno mai giustizia a questo posto... la prossima volta ti ci porto."

Un sorriso si allargò, come i soli gemelli di quella foto, sul viso della ragazza. Guardò le valige che reclamavano di essere chiuse. Un volo per Portland la aspettava e una montagna di spiacevole da fare. Il denaro messo via non era tanto, ma le aveva consentito di prendere una camera condivisa, a Lacey, in attesa di trovarsi un lavoro estivo. Ancora non aveva deciso dove fermarsi dopo le formalità che sarebbero seguite al caso di suo nonno. Nella piccola cittadina natia troppa gente l'avrebbe guardata come l'appestata di turno, ma da qualche parte doveva pur ricominciare e i prezzi delle stanze, a Boston, erano decisamente fuori dalla sua portata, da quando era diventata Rey nessuno... e il cognome di suo nonno non le avrebbe più garantito l'agiatezza nella quale aveva sempre vissuto.

Guardò la foto e un nuovo sorriso portò via le preoccupazioni che l'avevano adombrata un attimo prima.
Le dita, smaniose, corsero agilmente sulla tastiera del cellulare.
"È bellissimo lì, Ben. Portamici presto."

Sorrise, Rey, anche se aveva molte preoccupazioni a giustificarne ogni motivo per non farlo.
Ben era certamente la motivazione più valida a rimettere, presto, in sesto la sua vita. Avrebbe ricomposto tutti i pezzi. Era ora di crescere. Lasciare andare le mani amorevoli che l'avevano sempre rassicurata – quella di Poe, quella di Ben, di Lady Tano – e camminare da sola, prima di saperlo fare al fianco di qualcun altro.


"Mi sentirei di dirti che il viaggio cambia un uomo.

E il punto di partenza sembra ormai così lontano.

La meta non è un posto ma è quello che proviamo e non sappiamo dove, né quando ci arriviamo.

Sapessimo prima di quando partiamo che il senso del viaggio è la meta e il richiamo."

– Marco Mengoni –

Fine.

Note dell'Autrice:

Bene, eccoci giunti alla fine di questa storia.
Il suo epilogo definitivo si concretizzerà nella prossima long, che avrà molti meno capitoli, in compenso un po' più lunghi di quelli iniziali di questa.
Per questa ultima parte ho scelto due citazioni: la prima parla di separazioni necessarie.
L'altra, di un viaggio per risolvere sé stessi.
Ognuno dei tre protagonisti: Solo, Rey e Poe, lo intraprende da solo perché esclusivamente faccia a faccia con la propria solitudine si trova il modo di superare ciò che ci impedisce di vivere.

Curiosità:
I Fighting Falcon conosciuti come F-16, sono aerei da combattimento multiruolo, monomotore, sviluppati originariamente dalla General Dynamics per l'Aeronautica Militare statunitense.

Non sono il miglior pilota della Resistenza, ma ho accarezzato questi bolidi sulle piste dei due aeroporti militari pugliesi dove mio padre, maggiore dell'A.M. italiana, prestava servizio. Quindi, nel mio piccolo, sono cresciuta tra i top gun nostrani e dico con certezza che la categoria piloti è sicuramente la più spericolata, scavezzacollo e sopra le righe, degli altri gradi abbottonati nelle divise.

il Parelio è un fenomeno ottico atmosferico dovuto alla rifrazione della luce solare da parte dei piccoli cristalli di ghiaccio sospesi nell'atmosfera e che solitamente costituiscono i cirri: aloni trasparenti che riflettono la luce solare dando vita al fenomeno di cui sopra.

significato del Giglio: sembrerebbe che il significato del Giglio derivi dalla parola celtica "li", ossia bianco. In generale il giglio bianco è simbolo di purezza, innocenza candore e verginità, ma anche fierezza e orgoglio.
Questa visione deriva dal suo portamento eretto, non a caso in passato si regalava a membri dell'alta nobiltà. Con il tempo il significato del Giglio si è avvicinato sempre di più all'ambito amoroso indicando la completa dedizione di un uomo alla sua donna.

Bene, questo è tutto per il momento, restate sintonizzati.
La pubblicazione della prossima storia è imminente.

Un saluto militare dal vostro Generale Kenobi. ♥️

Che la Forza sia con voi!

Nives.

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