PROLOGO

Questa è l'ultima storia che vi racconterò, non che nella mia vita abbia raccontato chissà quante storie, però credo che dopo questa, una parte di me dirà addio definitivamente a questo pezzo della mia vita. Sarà il mio testamento letterario, mettiamola così.

Non fosse altro che nel mezzo è andata via quella parte di me che ascoltava ciò che avevo da dire, portandosi con sé una cosa a me troppo cara: la scrittura.

La storia che sto per raccontare, per essere ben capita, inizia da un sostantivo femminile, distrazione. Si, la nostra quotidianità è distrazione.

Non stiamo più attenti ai particolari, ma di questo ne parleremo più avanti.

In un'epoca in cui tutto corre a ritmi frenetici, la distrazione sembra essere diventata la norma. Le nostre vite sono permeate da stimoli costanti: smartphone che pullulano, notifiche che si accumulano, social che ci tengono incollati a uno schermo, distogliendoci dalla vita che ci circonda. Tutto questo ci fa perdere di vista ciò che realmente conta, rendendo difficile apprezzare i momenti di bellezza e autenticità del quotidiano.

Ci troviamo così a vivere in uno stato di 'pilota automatico', attraversando esperienze senza viverle pienamente. Il sapore di un caffè, il sorriso di un amico, il calore del sole sulla pelle: tutto ciò si perde in un mare di notifiche e distrazioni non richieste.

La vita, in tutta la sua complessità e ricchezza, scivola via, mentre i nostri pensieri sono ahimè, altrove. Si corre senza manco sapere esattamente dove si sta andando.

Siamo nel traffico e guardiamo i nostri smartphone. Non ci accorgiamo di una mamma distratta che si è lasciata dietro la sua bimba, non ci rendiamo conto che il vecchietto all'angolo è fermo là da qualche minuto perché magari non ha il coraggio di attraversare.

Il tempo – amico, nemico – scorre inesorabilmente e noi siamo così egoisti nel divorarcelo senza un apparente reale motivo che valga davvero la perdita di questa preziosa parte della nostra vita.

È come lasciare che una clessidra faccia scorrere i suoi granellini di sabbia senza che poi nessuno si occupi di rigirarla quando sta per arrivare alla fine, e ci rendiamo conto che il suo tempo è finito solo quando effettivamente non c'è più nessun granellino di sabbia a cadere giù e quando questo accade poi è troppo tardi per farla ripartire.

Così vanno pure le storie, soprattutto quelle che fanno male, solo alla fine ti accorgi che forse, bastava un minimo d'attenzione per evitare che tutto andasse letteralmente a puttane.

Quindi, la nostra storia comincia così.

Quel giorno il vento fischiava tra le crepe delle finestre, portando con sé un aroma di pioggia e solitudine, l'autunno ormai era arrivato, ottobre era giunto a metà del suo giro e nell'aria si respirava già l'attesa per l'imminente festa di Halloween, una festa che ad Alexia è sempre piaciuta essendo un'amante del genere thriller, meglio dire horror.

Alexia si stringeva nel suo vecchio maglione, cercando di trovare conforto nel calore di un periodo della sua vita che sembrava un lontano ricordo. Quell'amico.

L'aveva trovato e con lui aveva condiviso tanti e irripetibili momenti, solo che poi di mezzo ci si mette la vita e quella quando vuole sa spezzare i fili della storia, e pensare che a questo giro, non era manco colpa del destino, a cui lei ha sempre creduto, no, era stata proprio una scelta, la sua, quello di allontanarlo per sempre; e pure lei ci pensava, spesso e cullava in cuor suo il sogno di rivederlo, un giorno.

Guardava fuori, la città in fermento, mentre le ombre danzavano sui muri del suo ufficio, e il battito del suo cuore risuonava come un tamburo inquieto.

Ogni giorno, la stessa routine: il caos della vita quotidiana, il sorriso forzato al lavoro e gli sguardi curiosi dei colleghi. Ma quando la sera scendeva, il mondo esterno si dissolveva e con esso anche i suoi sogni.

Perché poi tornare a casa significava entrare in un campo minato, dove ogni parola era un'arma e ogni gesto un potenziale detonatore.

La chiave girò nella serratura, un suono che la riempì di angoscia.

Respirava per catturare ossigeno, inanellare quanto più aria possibile, prima di entrare in quella che gli sembrava sempre di più un'ampolla nera di anidrite carbonica.

Sapeva che stava per iniziare un'altra guerra.

"Sei in ritardo", la voce di Livius risuonò, carica di freddezza, anche quella sera.

Alexia abbassò lo sguardo, e vide la rosa sul tavolo dell'ingresso.

Una rosa, bellissima e profumata, con petali di un rosso intenso, o almeno così se la ricordava, ma ora stava là al buio; il suo splendore veniva offuscato da ombre inquietanti. Tormenta in arrivo.

Quando le mani violente le sfioravano i petali, la rosa, ferita, si chiudeva, cercando di proteggere il suo nucleo più profondo. Le cicatrici rimanevano visibili, a volte invisibili, ma il suo spirito continuava a lottare per la luce. Proprio come la rosa si rialza dopo ogni tempesta, così lei trovava il coraggio di risollevarsi, di ricominciare a sbocciare, di cercare nuovi raggi di sole.

Col tempo, la rosa imparò a riconoscere i segni delle nuvole minacciose e a cercare riparo, ma ora era lì, appassita, stanca, e le ricordò che al mondo esterno non importava della sua vita, ma quel piccolo angolo di disfacimento era tutto ciò che le restava.

Da un po' le cose erano cambiate, se all'inizio usava solo il verbo come mezzo e seppur risultavano essere parole taglienti come coltelli, insulti che perforavano la pelle più di quanto avrebbe mai potuto fare un pugno, adesso il mezzo erano le mani, prima qualche schiaffo, poi i pugni e i calci e allora ha ben costatato che, se le parole fanno male, i pugni ti provocano un lacerante dolore fisico e non è vero come si dice in giro che a volte le parole fanno più male di uno schiaffo, no, il dolore fisico non ti fa proprio respirare, ti lascia segni e squarci sulla pelle per davvero.

Con il tempo poi ha dovuto imparare a nasconderli quei segni permanenti sulla pelle, con il trucco fatto sempre di più di fondotinta e correttore, diventando così nelle settimane a seguire anche abbastanza brava, per ironia della sorte, si può ben dire ch'era diventata un'esperta di make-up; per non parlare di tutte quelle volte che è stata costretta a vedere il mondo da dietro vetri neri quelli di occhialoni che non permettevano di vedere a nessuno i contorni lividi intorno ai suoi occhi verdi.

Ogni urlo, ogni schiaffo, ogni calcione, ogni volta si sentiva ridotta al silenzio, tutto lasciava un marchio apparentemente invisibile, ma indelebile.

Sangue dal naso, sulle mani, sangue sul lavandino, macchie rosse sul copriletto, quella volta che ha lasciato una scia nel corridoio, i lividi sulle braccia, sui fianchi macchie nere per giorni e per fortuna raramente un cerchio intorno ad un occhio, il bastardo, quando era più lucido si teneva ben lontano da colpire il volto, sapeva come fare per non farsi beccare.

Tutto questo, fino a quella sera di metà ottobre.

Nella cucina, le luci dei neon della strada filtravano attraverso le tende, creando un'atmosfera calda e accogliente. Tuttavia l'aria è tesa, carica di una silenziosa angoscia, dopo le grida sparate in aria dal marito.

La donna, con i capelli sciolti, sta sistemando i piatti nella lavastoviglie.

I suoi gesti sono meccanici, quasi automatizzati, come se volesse anestetizzare la situazione che la circonda; ma si deve fermare, il suo corpo sta tremando, le mani non riesce a fermarle.

La cucina, una volta rifugio caldo, diventa un luogo di oppressione. Le urla rimbombano ancora, mentre il mondo esterno continua a girare ignaro. Dentro quelle quattro mura si sta consumando qualcosa di definitivo.

Alexia, si volta, appoggiandosi al mobile, tremante, cerca di mantenere il controllo delle sue emozioni; le lacrime le rigano il viso.

In un'immagine sfogata torna a fissare la Beretta nera e ancora fumante, lì sul mobile della cucina, proprio accanto a lei. Vicino la macchinetta del caffè, rovesciata nella confusione con il caffè gocciolante, lungo tutto il mobile, creando una lingua nera che gli fa pensare chissà perché alla bava delle lumache.

La fissa, il fumo vertiginosamente sale, non sa cosa fare. Impietrita.

Si guarda intorno, sul tavolo della cucina c'è un posacenere è pieno di cicche e alla tv c'è quello dei pacchi che sta per consegnare un assegno da centomila euro ad una coppia felice; beh, pensandoci bene, in pubblico anche loro sono sempre felici e sorridenti, ma dentro le mura della casa, c'è il nero della morte.

Non riesce proprio a muoversi, sente vibrare il telefono che tiene con sé nella tasca dietro dei suoi jeans, anche questi si sono sporcati di sangue. Con un gesto, che si rivela più faticoso del dovuto, lo prende, è arrivata una notifica su Facebook, ma non ha voglia di leggerla, poi un fulmine nella testa, un pensiero che arriva chissà da dove, se vuole salvarsi deve farlo senza pensarci, smanetta con lo smartphone, sa quello che deve fare...attende...

<<Alexia? Sei tu? Davvero? Ma quanti anni ...? >>, dall'altro capo del telefono si sente l'entusiasmo e al tempo stesso la sorpresa, questa cosa un pochino conforta Alexia, visto che, in cuor suo, ha temuto di non essere risposta.

<<Lascia stare, non è il momento e si, Marcus sono proprio io!>>

<<Ma che succede?>>, ora il suo tono di voce è cambiato, è preoccupato.

<<Mi vieni a prendere?>>

<<Ma Alexia...>>

<<Niente ma, Marcus. Vienimi a prendere per favore, ho bisogno di te come non mai nella mia vita, ok!?!>>

<<Va bene, ma dove sei? A casa?>>

<<Si...>>

<<Sei sola?>>

<<Si...>>

<<Lui, dov'è?>>

<<In un altro posto...>>

<<Ok, va bene...>>

<<Ti ricordi ancora l'indirizzo di casa mia?>>

<<Come potrei dimenticarlo...>>, e lascia cadere nel vuoto il finale di quella frase.

<<Ok>>

<<Ok>>

<<Ah, Marcus...>>

<<Dimmi, Alé...>>

<<Devi venire il più velocemente possibile...se davvero questa volta non vuoi perdermi... per sempre!>>.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top